Giorgio Squinzi e Mario Monti hanno un perso il controllo dei nervi e degli argomenti. Il primo scivolando sul concetto di “macelleria sociale” e facendo l’eco alla Cgil, a sua volta animata dalla Fiom, laddove il problema del decreto taglia-spesa non è quello di provocare dolori ingiustificati, ma di non avere lo spessore strutturale che si richiede (il solo taglio che fa coincidere risparmi e riforme è quello di tribunali, procure e uffici distaccati della giustizia). Il secondo è ruzzolato sull’idea che se si critica il governo si favorisce la crescita dello spread, in questo modo sollecitando un unanimismo deleterio, specie se dimentico della sostanza. Entrambe non hanno saputo leggere l’intervento del governatore della Banca d’Italia, che ha sentito il bisogno (e già questo è singolare) di prendere lungamente la parola a meno di due mesi dalle “considerazioni finali”. Egli dice: l’impennata degli spread non ha a che vedere con quel che succede in Italia, ma con la debolezza istituzionale e costituiva dell’euro. E’ quel che sosteniamo dal luglio scorso. E’ quel che Libero ha dettagliato anche in un libro (Maledetto spread). Ed è quello che induce a un giudizio severo sull’opera dei governi (plurale).
Secondo Ignazio Visco 200 punti base di differenza, rispetto ai tassi che i tedeschi pagano per finanziare il loro (alto) debito pubblico, sono giustificati da nostri ritardi: debito troppo alto, spesa pubblica improduttiva e perdita di competitività. Il resto, vale a dire più del doppio, lo stiamo pagando per colpa dell’euro. Esatto. Ciò dimostra, come qui tante volte scritto, che i compiti a casa non servono a fronteggiare l’attacco speculativo, le cui ragioni sono diverse. Su questo punto decisivo si dovrebbe raggiungere il comune sentire e agire delle forze politiche raziocinanti, il che, purtroppo, è impedito dall’avere voluto far credere che le colpe ricadevano sul governo precedente, con tanto di sapientoni che annunciavano il calo dello spread non appena avesse tolto il disturbo. Guardate quel che accade e dedicate loro il pensiero che meritano.
La partita degli spread, dunque, si giocava e si gioca al tavolo europeo. Senza gli inutili propagandismi cui c’è toccato d’assistere. A quel tavolo i tedeschi devono mollare la posizione d’ingiustificato privilegio di cui godono, ma hanno ragione nell’indicare la maggiore integrazione, quindi la devoluzione di sovranità, quale contropartita della federalizzazione. La politica, se non si rassegna a essere rappresentazione d’inutilità e acquiescenza al proprio commissariamento, presente e futuro, deve misurarsi con questo problema. Non so se se ne rendono conto, ma si è riusciti a fra passare l’idea che l’Italia non è affidabile perché ancora una democrazia. Come se il presente fosse perfetto (salvo che gli spread se ne fregano), mentre il futuro sospetto.
Il tutto non deve farci dimenticare le questioni interne, che così potremmo riassumere: l’aumento della pressione fiscale ammazza l’Italia produttiva e privilegia quella dei profittatori, mentre il tagliuzzamento della spesa pubblica è inutile sul fronte degli spread e del tutto inadeguata su quello della ristrutturazione, della mutazione necessaria circa l’idea stessa di stato sociale. Siamo un Paese ricco e forte, se accedessimo all’idea di chiudere lo Stato inefficiente, restituendo al mercato sia le funzioni che i quattrini, se ne lasciassimo una quota progressivamente crescente nelle tasche di chi ha prodotto, piuttosto che prosciugarle a favore di chi li brucia, potremmo impostare una rinascita altrimenti insperabile. Basta compiti a casa. Ma per cambiare scuola, non per fare i somari. Le parole di Mario Draghi e la sollecitazione al calo fiscale fanno piacere, ma sempre in funzione del far dimagrire lo Stato, altrimenti riprendiamo con i peggiori vizi.
Se Squinzi intende dire che quanto si sta facendo è troppo poco, ha ragione. Provi a dirlo meglio. Se Monti intende dire che per cambiare (non solo tagliare) la spesa pubblica occorre maggiore consapevolezza e determinazione, da parte di tutti, ha ragione. Provi a non pensare alla propria immagine, ma alla necessità di non perdere altro tempo. Che non c’è, perché nel mentre gli italioti si senton furbi a officiare riti in omaggio all’euro quello corre verso una crisi durissima, che da noi comporterà l’intervento del Fondo monetario internazionale. Una corsa al dirupo che non si arresta se facciamo finta di credere che la riforma del lavoro sia una buona cosa o che i tagli annunciati siano giusti e sufficienti. Non è così: la riforma non ci restituisce un briciolo di competitività e i tagli sono cosmesi. I tatticismi politicanti non producono nulla, perché comunque prigionieri di una dottrina che ha già imprigionato diversi governi, i cui sacerdoti siedono alla Ragioneria generale dello Stato. Non si deve attendere il fallimento per riconoscerla come fallimentare.
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