venerdì 24 gennaio 2014

Le preferenze e i Parlamenti delle mafie. Arturo Diaconale


Non sarà il ritorno alle preferenze ad assicurare il diritto dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. Chi si ostina a combattere una battaglia di questo genere o è un ingenuo che poco conosce la storia politica del nostro Paese o è un ipocrita nostalgico del passato ma a cui la fine della Prima Repubblica non ha insegnato un bel nulla. Degli ingenui è inutile parlare. Queste “belle anime” si riempiono la bocca e la testa di frasi fatte sulla necessità di strappare ai capipartito il privilegio di scegliere gli eletti. Ma evitano accuratamente di informarsi che all’epoca delle preferenze erano sempre i capipartito a formare le liste dei candidati al Parlamento.

E lo facevano nient’affatto decisi a lasciare liberi i singoli candidati di conquistare come meglio potevano il consenso popolare, ma scegliendo accuratamente i candidati su cui concentrare i voti dell’apparato di partito e quelli che sarebbero comunque stati eletti grazie ai voti delle lobby e dei gruppi di pressione. Se queste “belle anime” rinunciassero ai vuoti schematismi e approfondissero la conoscenza della storia politica dell’Italia Repubblicana si renderebbero conto che il Parlamento dei “nominati” esisteva anche al tempo delle preferenze. I Parlamenti del Pci (e poi del Pds e dei Ds) erano tutti, senza alcuna eccezione, scelti dal vertice del partito e votati disciplinatamente dai militanti. Quelli degli altri partiti o erano sostenuti dagli apparati o erano espressione di potentati locali o nazionali ben conosciuti e accettati dai capi delle singole formazioni politiche. Non erano le preferenze a dare la misura della democrazia. Era il sistema dei partiti che usava le preferenze per indirizzare a proprio piacimento la formale libertà di scelta dei cittadini.

È difficile che gli ingenui si lascino convincere da queste argomentazioni (anche perché informarsi richiede impegno e non farlo consente di continuare a dispensare impunemente sciocchezze moralistiche). Ma forse l’argomento che va speso per smascherare gli ipocriti nostalgici del tempo passato può contribuire ad incrinare anche le loro ingenuità. Si tratta della considerazione secondo cui il ritorno alle preferenze, in una fase in cui i partiti tradizionali sono in crisi, diventerebbe un ulteriore e potentissimo incentivo al malaffare. Le elezioni con preferenze impongono ai singoli candidati spese personali direttamente proporzionali alla dimensione delle circoscrizioni ed alla ambizione dell’aspirante parlamentare. Qualcuno si chiede perché mai negli ultimi anni nel mirino della magistratura siano finiti in prevalenza i consiglieri delle regioni dove si vota con il sistema delle preferenze piuttosto che i deputati ed i senatori nazionali? Ed a nessuno viene in testa la preoccupazione che con lo spappolamento dei vecchi partiti il sistema delle preferenze trasformerebbe il Parlamento nella Camera dei ricattati dalle lobby, dai potentati legittimi di ogni genere e grado e, soprattutto, dalla mafia, dalla camorra e da ogni forma di criminalità organizzata? Tutto questo, ovviamente, non significa sostenere che il Parlamento dei nominati dai capipartito sia meglio del Parlamento scelto dalle mafie. Significa, più semplicemente, ricordare che passare dalla padella alla brace produce lo stesso risultato disastroso. E che se si vuole effettivamente trovare una soluzione al problema non c’è altra strada che quella dell’introduzione per legge delle regole democratiche all’interno dei partiti. Cioè fare ciò che i più illuminati dei Padri Costituenti avevano chiesto e che i più furbi dei capi-partiti di allora non fecero mai passare nella Carta Costituzionale!

(l'Opinione)

 

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