martedì 7 agosto 2007
Dal welfare alle pensioni le bugie estive dell'Unione. Claudio Borghi
Durante la pausa agostana è normale tirare le somme dei mesi trascorsi e non si è sottratto a questo esercizio nemmeno il ministro Padoa-Schioppa, vantando mirabolanti risultati in un’intervista celebrativa sulla Stampa. Con la Borsa che langue ai minimi dell’anno forse vale davvero la pena di tirare qualche somma. Inizieremo con una hit parade delle frasi più scandalose dell’estate, presentate senza vergogna dalla propaganda governativa come colpi di genio. La prima è proprio del serissimo ministro dell’economia che se ne è uscito con: la riforma delle pensioni è a costo zero. Un miliardo all’anno per dieci anni. In bocca ad un comico sarebbe buona, ma detta da un ministro non fa ridere. Non è dato sapere quanto sia abituato a spendere Padoa-Schioppa ma, tanto per capirci, ai prezzi attuali, con un miliardo all’anno ci si compra un’Alitalia nuova ogni 365 giorni per poi poterla buttare allegramente ogni San Silvestro. Poco importa dove si siano trovati i denari, è la spesa a non essere sensata. A proposito di dove si siano trovati i dieci miliardi per la riforma, un’altra frase simbolo dell’estate è: l’aumento dei contributi dei parasubordinati consentirà di pagare loro pensioni più dignitose in futuro. Questa è talmente grossa che Nicola Porro su queste pagine l’ha giustamente commentata con un «Buuum!». La traduciamo fuori dal politichese economico: «prendo dei soldi a Tizio (parasubordinato) per pagare una pizza a Caio (pensionando cinquantasettenne), ma dico a Tizio che quei soldi che ha pagato gli serviranno per un banchetto in futuro». Evidentemente il governo pensa (o spera) che i giovani precari siano anche stupidi e non notino lo scippo, anzi, per rincarare la presa in giro si sono inventati la seguente frase-slogan: «con la riforma abbiamo garantito ai giovani una pensione di almeno il 60% dell’ultimo stipendio». Una sparata da codice penale. Ma come? Tutti i giovani stanno costruendosi la pensione con il sistema contributivo, vale a dire dove contano solo i contributi versati e non lo stipendio, e li si va a illudere con una percentuale di salario come se si fosse ancora nel vecchio sistema retributivo? Ci vuole una bella faccia tosta per poter dire una cosa simile, eppure l’elenco di chi si è compiaciuto di questa evidente falsità è lungo: basta scorrere la rassegna stampa di quei giorni per trovare i nomi di Prodi, Angeletti, Ferrero, Damiano. Chiudiamo con il solito Visco, che ha avuto il coraggio di invocare il quasi raddoppio delle tasse sui risparmi perché altrimenti i capitali scappano all’estero. Come no? Da tutto il mondo si fa la fila per l’onore di essere tassati da Visco: già che ci siamo le aliquote sui titoli si potrebbero anche triplicare, se l’idea è giusta i capitali accorreranno in massa. Padoa-Schioppa si vanta di essere amico dei più grandi economisti. Se ne trova uno, anche uno solo, che approvi senza riserve queste frasi, lo segnali senza indugio a Napolitano: potrebbe esser adatto per la nomina a senatore a vita.
E se in piazza. Maria Giovanna Maglie
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=197782
Non può essere ignorata la violenza che subiscono le donne che non accettano la cultura della sottomissione islamica.
Non può essere ignorata la violenza che subiscono le donne che non accettano la cultura della sottomissione islamica.
lunedì 6 agosto 2007
Carburanti: fatti, non pugnette. Carlo Stagnaro
UPDATE: Bersani promette che "non interverremo sui prezzi". (Vendere come un fioretto quel che non si può comunque fare è una tattica eccezionale). Il segretario confederale della Uil chiede alle compagnie di seguire l'esempio dell'Eni, che ha ridotto di 2 centesimi al litro il prezzo della benzina verde. Un momento, deve essermi sfuggito qualcosa: quando il prezzo scende, i cartelli diventano non solo leciti, ma addirittura da incoraggiare?
D'estate i carburanti costano di più. E' una regola matematica. Non serve essere un indovino per sapere che, qualunque sarà il livello dei prezzi nel 2008, ad agosto 2008 i prezzi cresceranno. E' con questa doverosa premessa che bisogna accogliere la pagliacciata del governo il quale, essendosi svegliato addì 5 agosto, ha convocato le compagnie petrolifere per il 10 di questo mese per farsi spiegare come mai (a) i prezzi di benzina e gasolio aumentano e (b) restano stabilmente più alti della media europea. Il povero Pasquale De Vita dovrà officiare lo stanco rituale del racconto di come funzionano le cose; e sarà abbastanza faticoso, per lui, ripetere per l'ennesima volta le stesse cose a orecchie che non vogliono sentire: repetita frustrant, in questi casi.
La cosa di per sé sarebbe abbastanza noiosa - più polemica balneare, tappabuchi per giornalisti assonnati, che questione reale - se non fosse il perfetto argomento populista che si presta a colpi di sole agostani e confina con ritorni di fiamma dei prezzi controllati o amministrati, obiettivo che può essere raggiunto apertamente (e non accadrà) oppure in maniera cammuffata da moral suasion (che, tradotto in italiano, significa "ricatto"). Della questione ci siamo già occupati (per esempio qui, qui e qui) e, per chi non si fidasse del sottoscritto, è disponibile un recente studio di Nomisma Energia. Il punto fondamentale, però, è che i due terzi del prezzo alla pompa sono costituiti dalla somma di accisa più Iva, cioè da tasse. Che per di più, almeno nel caso del diesel, il governo stesso ha ritoccato, naturalmente verso l'alto, poco tempo fa (alla vigilia degli aumenti estivi), come avevamo denunciato.
L'unica cosa che il governo può e deve fare, quindi, è convocare se stesso per fare una dignitosa marcia indietro, chiedere scusa alle compagnie e ai consumatori, e ridurre le tasse. L'abbiamo chiesto noi, lo ha rilanciato Stefano Saglia, speriamo che anche dalle parti del centrosinistra (se non sono troppo occupati ad indurre la morte in culla del partito democratico) qualcuno abbia un sussulto, se non di dignità, almeno di buonsenso.
D'estate i carburanti costano di più. E' una regola matematica. Non serve essere un indovino per sapere che, qualunque sarà il livello dei prezzi nel 2008, ad agosto 2008 i prezzi cresceranno. E' con questa doverosa premessa che bisogna accogliere la pagliacciata del governo il quale, essendosi svegliato addì 5 agosto, ha convocato le compagnie petrolifere per il 10 di questo mese per farsi spiegare come mai (a) i prezzi di benzina e gasolio aumentano e (b) restano stabilmente più alti della media europea. Il povero Pasquale De Vita dovrà officiare lo stanco rituale del racconto di come funzionano le cose; e sarà abbastanza faticoso, per lui, ripetere per l'ennesima volta le stesse cose a orecchie che non vogliono sentire: repetita frustrant, in questi casi.
La cosa di per sé sarebbe abbastanza noiosa - più polemica balneare, tappabuchi per giornalisti assonnati, che questione reale - se non fosse il perfetto argomento populista che si presta a colpi di sole agostani e confina con ritorni di fiamma dei prezzi controllati o amministrati, obiettivo che può essere raggiunto apertamente (e non accadrà) oppure in maniera cammuffata da moral suasion (che, tradotto in italiano, significa "ricatto"). Della questione ci siamo già occupati (per esempio qui, qui e qui) e, per chi non si fidasse del sottoscritto, è disponibile un recente studio di Nomisma Energia. Il punto fondamentale, però, è che i due terzi del prezzo alla pompa sono costituiti dalla somma di accisa più Iva, cioè da tasse. Che per di più, almeno nel caso del diesel, il governo stesso ha ritoccato, naturalmente verso l'alto, poco tempo fa (alla vigilia degli aumenti estivi), come avevamo denunciato.
L'unica cosa che il governo può e deve fare, quindi, è convocare se stesso per fare una dignitosa marcia indietro, chiedere scusa alle compagnie e ai consumatori, e ridurre le tasse. L'abbiamo chiesto noi, lo ha rilanciato Stefano Saglia, speriamo che anche dalle parti del centrosinistra (se non sono troppo occupati ad indurre la morte in culla del partito democratico) qualcuno abbia un sussulto, se non di dignità, almeno di buonsenso.
Prodi canta la "canzone popolare". Raffaele Iannuzzi
La lettera di Romano Prodi agli elettori del centrosinistra, che si può leggere sul suo sito personale (si tratta dunque di un'operazione comunicativa indirizzata a riscuotere un successo di immagine e di legittimazione politica), esprime il Prodi-pensiero e la retorica curial-leninista del presidente del Consiglio. Il Professore, infatti, prima blandisce il popolo della sinistra, quindi nega che esista una sinistra «radicale», e ciò al solo fine di legittimare prima se stesso e poi le sue scelte di governo. Cicero pro domo sua, sempre e comunque. La sinistra non è «radicale», ma «popolare», dunque è perfettamente la sinistra come la vuole il premier, tant'è vero che il suo governo ha fatto scelte appunto «popolari». Un giro di valzer retorico, con gli occhi socchiusi come quando Prodi spara progetti di ricerca della felicità attraverso la politica del suo esecutivo o come quando si trova davanti a Bush e nega l'antiamericanismo ideologico per poi avanzare la proposta di un multilateralismo ovviamente «radicale». Un mio vecchio maestro dell'Università di Pisa, Lorenzo Calabi, che si definiva «critico dell'economia politica», oggi diremmo marxista, ma lui si arrabbierebbe moltissimo, mi disse in un colloquio privato: «Quando le idee sono deboli, gli aggettivi diventano forti». Allora si dice che si sta cercando una svolta «radicale», che ci vogliono iniziative «forti» e via discorrendo. Aria fritta.
Prodi è il frutto di una crisi strutturale della Repubblica e della democrazia. Non è la soluzione, è l'epifenomeno del problema. Crisi storica e strutturale: aggettivi meno forti della realtà. La realtà è che il presidente del Consiglio spaccia per scelte «popolari» tutto ciò che sta mandando gambe all'aria gli assetti socio-economici di questo Paese. A questo vuoto politico e di governo subentra una duplice azione, ormai simultanea: le piazze e le banche. La lettera in questione non digerisce il mantra della «mobilitazione» e forse Padellaro ha ragione a sostenere, come ha fatto a Sky Tg24, che le manifestazioni ci saranno, sì, ma non saranno contro e non saranno per il governo: saranno un «segnale». Altro sostantivo mellifluo e privo di qualsiasi significato politico. Ma tanto basta per riaprire la porta alle trattative con la sinistra anti-popolare che si definisce «radicale».
Il Pd, avendo come presidente Prodi, sta giocando al ribasso. I teodem non ci sono più, i cattolici democratici sono la fronda che guarda all'Udc, Pezzotta è in rivolta, Rutelli è ostaggio della sua posizione governativa, Veltroni raccoglie consensi ma non ha forza politica, Fassino e D'Alema sono sputtanati fino al midollo: dov'è la novità di questo nascituro frutto di due sconfitte, della sinistra sedicente «riformista» e dei cattolici democratici? Il futuro viene da un'altra area politica, quella delle moltitudini e delle contaminazioni, come hanno fatto rilevare prima Bertinotti e poi Ferrero; e l'area della sinistra antagonista è oggi al 16%: non ha interesse a governare, vuole accelerare la crisi del sistema socio-economico perché attraverso essa guadagna consensi elettorali e potere di interdizione nell'area governativa. Del resto, Prodi nasce per produrre caos e crisi. Gli indicatori economici erano buoni prima che egli prendesse possesso di Palazzo Chigi; oggi siamo alla frutta, con l'aggiunta della dispersione del tesoretto secondo la criteriologia demagogica e alla fine anti-popolare di Rifondazione e dei Comunisti Italiani.
Lenin+Dossetti=Prodi. Se non esistesse la sinistra anti-popolare e non più marxista, Prodi dovrebbe inventarla. Ragion per cui il Pd, impiccandosi a questo governo, nasce già politicamente decurtato e strategicamente handicappato. Questa crisi giova a Prodi ed ai neocomunisti, con il filtro sempre aperto verso i movimenti. Il primo protesta ma dura; i secondi crescono e protestano. Creare la crisi per trarne vantaggio è Lenin allo stato puro. Il leninismo sopravvive a se stesso e fa maturare oggi una Repubblica non più parlamentare e legata a doppio filo, da un lato, ad un'élite non eletta dal popolo, i banchieri di riferimento del governo (che stanno snobbando il Pd), dall'altro alle piazze, che ricattano sia il governo che il Paese. I sindacati sono i convitati di pietra di questa Repubblica bancario-antagonistica. Il Parlamento è un'aula sorda e grigia; la crisi avanza e la politica si scioglie come neve al sole.
Gli assetti strategici possono cambiare solo se l'opposizione metterà sul piatto una forza economico-finanziaria rilevante e una federazione di partiti flessibile e bilanciata a seconda dei rapporti di forza sui territori. Con il primato dei contenuti, non della chiacchiera sul «must» di turno: Partito della Libertà o altro. Il «mantra della mobilitazione» appartiene alla sinistra antagonista, a noi oggi dovrebbe appartenere la cifra, tutta politica, della lotta sociale. Così si valorizza, a mio avviso, l'intuizione berlusconiana del soggetto politico unitario che cresce dal basso.
Prodi è il frutto di una crisi strutturale della Repubblica e della democrazia. Non è la soluzione, è l'epifenomeno del problema. Crisi storica e strutturale: aggettivi meno forti della realtà. La realtà è che il presidente del Consiglio spaccia per scelte «popolari» tutto ciò che sta mandando gambe all'aria gli assetti socio-economici di questo Paese. A questo vuoto politico e di governo subentra una duplice azione, ormai simultanea: le piazze e le banche. La lettera in questione non digerisce il mantra della «mobilitazione» e forse Padellaro ha ragione a sostenere, come ha fatto a Sky Tg24, che le manifestazioni ci saranno, sì, ma non saranno contro e non saranno per il governo: saranno un «segnale». Altro sostantivo mellifluo e privo di qualsiasi significato politico. Ma tanto basta per riaprire la porta alle trattative con la sinistra anti-popolare che si definisce «radicale».
Il Pd, avendo come presidente Prodi, sta giocando al ribasso. I teodem non ci sono più, i cattolici democratici sono la fronda che guarda all'Udc, Pezzotta è in rivolta, Rutelli è ostaggio della sua posizione governativa, Veltroni raccoglie consensi ma non ha forza politica, Fassino e D'Alema sono sputtanati fino al midollo: dov'è la novità di questo nascituro frutto di due sconfitte, della sinistra sedicente «riformista» e dei cattolici democratici? Il futuro viene da un'altra area politica, quella delle moltitudini e delle contaminazioni, come hanno fatto rilevare prima Bertinotti e poi Ferrero; e l'area della sinistra antagonista è oggi al 16%: non ha interesse a governare, vuole accelerare la crisi del sistema socio-economico perché attraverso essa guadagna consensi elettorali e potere di interdizione nell'area governativa. Del resto, Prodi nasce per produrre caos e crisi. Gli indicatori economici erano buoni prima che egli prendesse possesso di Palazzo Chigi; oggi siamo alla frutta, con l'aggiunta della dispersione del tesoretto secondo la criteriologia demagogica e alla fine anti-popolare di Rifondazione e dei Comunisti Italiani.
Lenin+Dossetti=Prodi. Se non esistesse la sinistra anti-popolare e non più marxista, Prodi dovrebbe inventarla. Ragion per cui il Pd, impiccandosi a questo governo, nasce già politicamente decurtato e strategicamente handicappato. Questa crisi giova a Prodi ed ai neocomunisti, con il filtro sempre aperto verso i movimenti. Il primo protesta ma dura; i secondi crescono e protestano. Creare la crisi per trarne vantaggio è Lenin allo stato puro. Il leninismo sopravvive a se stesso e fa maturare oggi una Repubblica non più parlamentare e legata a doppio filo, da un lato, ad un'élite non eletta dal popolo, i banchieri di riferimento del governo (che stanno snobbando il Pd), dall'altro alle piazze, che ricattano sia il governo che il Paese. I sindacati sono i convitati di pietra di questa Repubblica bancario-antagonistica. Il Parlamento è un'aula sorda e grigia; la crisi avanza e la politica si scioglie come neve al sole.
Gli assetti strategici possono cambiare solo se l'opposizione metterà sul piatto una forza economico-finanziaria rilevante e una federazione di partiti flessibile e bilanciata a seconda dei rapporti di forza sui territori. Con il primato dei contenuti, non della chiacchiera sul «must» di turno: Partito della Libertà o altro. Il «mantra della mobilitazione» appartiene alla sinistra antagonista, a noi oggi dovrebbe appartenere la cifra, tutta politica, della lotta sociale. Così si valorizza, a mio avviso, l'intuizione berlusconiana del soggetto politico unitario che cresce dal basso.
venerdì 3 agosto 2007
Chi uccide i civili a Bagdad? il Foglio
Perché Repubblica insegue Dick Cheney e si scorda di al Qaida.
Ieri Repubblica è riuscita a dare in prima pagina la notizia di settanta morti in Iraq senza mai accennare, nemmeno in una riga, al fatto che queste stragi di civili hanno anche un autore preciso. Niente. Le autobomba a Baghdad sono un fenomeno spontaneo, esplodono da sole in mezzo alla gente. Titolo di Rep.: “Orrore Iraq, record di civili uccisi”. Non c’è traccia del “who?”, il “chi?” caro alla vecchia regola giornalistica. In effetti a raccontare che un uomo alla guida di un camion cisterna carico di esplosivo si è avvicinato a un distributore di benzina, ha invitato la coda degli automobilisti a rifornirsi da lui e poi s’è fatto saltare in aria, a scrivere questi fatti per bene, viene fuori ancora una volta che c’è una campagna permanente di massacri contro gli iracheni, e tra loro e gli stragisti l’unico esile, coraggioso schermo è l’esercito americano (e se proprio c’è da scegliere un esercito al mondo per farsi proteggere, quello americano non è l’opzione peggiore). E salta anche fuori che è un controsenso chiederne il ritiro, come pure si fa da più parti. E invece Repubblica, appena dopo il titolo sull’Orrore Iraq, scrive: “Ma Cheney dice: le cose migliorano”. Capito quel “ma”? Il fremito della notizia a Repubblica non arriva dall’Orrore Iraq, dai mandanti, dagli esecutori, dal record di vittime civili ingoiate dalle fiamme sui marciapiedi di Baghdad. Il fremito arriva dall’accoppiata autobomba- vicepresidente americano. Valga per la cronaca: la strage è stata compiuta da al Qaida.
Ieri Repubblica è riuscita a dare in prima pagina la notizia di settanta morti in Iraq senza mai accennare, nemmeno in una riga, al fatto che queste stragi di civili hanno anche un autore preciso. Niente. Le autobomba a Baghdad sono un fenomeno spontaneo, esplodono da sole in mezzo alla gente. Titolo di Rep.: “Orrore Iraq, record di civili uccisi”. Non c’è traccia del “who?”, il “chi?” caro alla vecchia regola giornalistica. In effetti a raccontare che un uomo alla guida di un camion cisterna carico di esplosivo si è avvicinato a un distributore di benzina, ha invitato la coda degli automobilisti a rifornirsi da lui e poi s’è fatto saltare in aria, a scrivere questi fatti per bene, viene fuori ancora una volta che c’è una campagna permanente di massacri contro gli iracheni, e tra loro e gli stragisti l’unico esile, coraggioso schermo è l’esercito americano (e se proprio c’è da scegliere un esercito al mondo per farsi proteggere, quello americano non è l’opzione peggiore). E salta anche fuori che è un controsenso chiederne il ritiro, come pure si fa da più parti. E invece Repubblica, appena dopo il titolo sull’Orrore Iraq, scrive: “Ma Cheney dice: le cose migliorano”. Capito quel “ma”? Il fremito della notizia a Repubblica non arriva dall’Orrore Iraq, dai mandanti, dagli esecutori, dal record di vittime civili ingoiate dalle fiamme sui marciapiedi di Baghdad. Il fremito arriva dall’accoppiata autobomba- vicepresidente americano. Valga per la cronaca: la strage è stata compiuta da al Qaida.
Al direttore - A parte le deduzioni dell’estremista prodiano Curzio Maltese, per il quale essere comprensivi con i taliban sarebbe un diritto Onu e affamare i sacerdoti cattolici un dovere Ue, la predica del presidente del Consiglio ai preti che nelle loro omelie non fiancheggerebbero abbastanza il governo nella sua vasta azione di giustizia a base di vampirismo fiscale a me non ricorda per niente il fazzoletto cristiano del boy scout, quanto piuttosto quello con martello e compasso del pioniere di Honecker. Il quale, al tempo della Germania est, consigliava anche lui alle chiese di predicare la giustizia e, nel caso le chiese non collaborassero lealmente con l’autorità che egli incarnava dello “stato giusto” – come del resto, se non ricordo male, diceva san Paolo secondo l’interpretazione del partito unico –, venivano messe un tantino sotto pressione con quella particolare Gdf che di là dal muro chiamavano Stasi. Ora, questa sovrana indifferenza di Romano Prodi per un fisco serio (lo abbiamo mai sentito spendere mezza parola per la deducibilità delle tasse affinché le famiglie possano investire nell’istruzione dei propri figli o di un fisco che tenga conto del quoziente familiare?), alla quale fa da pendant l’ossessione per la serietà della vita degli altri, è un problema. Per l’Italia, che come si desume da recenti prove elettorali e da tutti i sondaggi d’opinione non sembra affatto convinta della serietà e giustizia del magistero prodiano. Ma anche per la chiesa, secondo la quale non è affatto vero che, come dice Prodi, “si deve obbedire alle regole dello stato anche se dettate da ‘lazzaroni’”. Non è vero perché, dice il Magistero del Pontefice nell’enciclica Deus est caritas, “uno stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe a una grande banda di ladri”. Il che, del resto, se non ricordo male tutti i provvedimenti che vanno dalla Finanziaria al caso Alitalia, dall’emergenza rifiuti in Campania al furto delle pensioni ai giovani, è proprio ciò a cui si sta riducendo lo stato sotto il governo Prodi.
Luigi Amicone
Luigi Amicone
Il partito "mostro" di Veltrelli. Carlo Cambi
Ufficializzate le candidature per la guida del Pd, si comincia a capirne la natura: sarà un partito di plastica. La dimostrazione più evidente è stata la porta in faccia sbattuta a Pannella e a Di Pietro. Erano un «cavallo di Troia» che rischiava di introdurre, l'uno da posizioni libertarie l'altro da istanze populiste, il granello di sabbia del «popolo» nell'ingranaggio della macchina che Veltroni e Rutelli, in perfetta sintonia d'interessi, stanno costruendo per metterla al servizio dei poteri forti. I «democratici» sono di fatto un'oligarchia che neppure l'insulso rito di primarie teleguidate riuscirà a nascondere. Questo apre al centrodestra praterie di consensi. A condizione che Berlusconi & C. sappiano cogliere il peccato originale del Pd che è quello di aver cancellato ogni rappresentanza dal basso. Tre fatterelli accaduti nelle ultime ore lo provano. Esaminiamoli.
Il primo è il sondaggio pubblicato da Il Giornale che mostra come il Pd non riuscirà a sommare i voti di Ds e Dl, ma libererà consensi soprattutto a sinistra. La ragione è molto semplice. Se la politica cessa di essere progetto e diventa mera rappresentazione d'interessi chi - come gli ex Ds - vede nella militanza una speranza di condizione migliore si sente frustrato. Non a caso l'antiberlusconismo ha funzionato come collante perché suscita invidia sociale. Ma oggi è difficile immaginare le sfogline delle ex feste dell'Unità che si spaccano la schiena per i reggitori di coda del milieu debenedettiano. L’assenza dalla corsa per la premiership di candidati autenticamente diessini sradica di fatto i «democratici» dal loro unico aggancio popolare.
Ne è una prova la velenosa intervista che D'Alema ha dato al Corriere. Il popolo dei Ds non dimentica che Walter Veltroni ha dichiarato: «Non sono mai stato comunista». Per paradosso l'unico candidato popolare (in tutti i sensi) è Rosy Bindi, destinata al naufragio, e non è un caso che a lei sia andato l'appoggio di Parisi segnalando peraltro uno strappo nella compagine prodiana. Si dice che Enrico Letta sia il rappresentante dei «dossettiani». Non è così: Enrico Letta è solo l'enfant gatée del blocco economico cattolico.
Il secondo fatto è il regalo che i margheriti hanno fatto a Carlo De Benedetti con il ddl Gentiloni, scippando una rete a Berlusconi e donandola al gruppo Espresso. È una sorta di nemesi: Rete 4 fu dei Formenton e stava per incontrare De Benedetti nella grande guerra per Repubblica. Ovvero stava per fallire. Andò nella spartizione della Mondadori a Berlusconi e si salvò. Vedremo ora che torna per Gentiloni concessione nelle mani dell'Ingegnere che fine farà. Questa è la prima cambiale che i futuri oligarchi del Pd pagano al loro più cospicuo sponsor il quale peraltro ha dichiarato di recente: «Ho sempre fatto gli interessi miei e dei miei azionisti, ma rivendico un ruolo sociale dell'impresa» elevando Bill Gates a suo modello. Ora basterebbe ricordare le vicende Olivetti per esclamare: da che pulpito. Ma questo riferimento illustra paradigmaticamente cosa sarà il Pd.
Il terzo fatterello è la totale scomparsa di due riferimenti fondamentali: l'area laica (e si spiega il niet a Pannella) e l'area diessina (e si spiega la freddezza D'Alema-Veltroni). Il modello di società che l'attuale sindaco di Roma e il suo predecessore hanno in mente non prevede infatti variabili né di libero pensiero, né di pensiero collettivo, prevede soltanto la narcotizzazione dei ceti più deboli e il governo degli ottimati. È una visione tutta romana, tutta curiale che ha fatto nascere un mostro: una sorta di Giano bifronte che con Veltroni guarda agli apparatnik, al generone e ai palazzinari e con Rutelli guarda ai grand commis, ai furbetti del borsino.Questo mostro si chiama Veltrelli e ha una concezione della società e dell’economia pre-marxista e marxiana: è l'economia di Ricardo dove la merce ha valore per il lavoro che immagazzina e lo Stato ha il ruolo non di regolatore, ma di interdittore. È una visione cupa dell'uomo incapace di autodeterminarsi che deve essere guidato appunto dagli oligarchi. Non a caso Veltrelli è il rappresentante più puro della Casta e la sua ideologia è il pensiero Lebole, la fabbrica che vestiva tutti i funzionari di partito. È infatti un partito prêt à porter quello che sta nascendo: pronto a soddisfare gli appetiti di chiunque pur di perpetuarsi. È effimero, patinato, come Veltrelli l'unico politico italiano che non dismette mai giacca e cravatta perché così vuole la buona società e il pensiero Lebole.
Per il centrodestra l'occasione è dunque unica. Se il Pd guarda a Ricardo e cioè all'economia dell'offerta (e perciò privilegia i produttori, meglio se collettivizzati) Berlusconi&C. devono guardare alla scuola economica austriaca. Devono rileggere Carl Menger e occuparsi della domanda (e cioè dei cittadini come uomini liberi): dell'economia come strumento della soddisfazione dei bisogni. Lo scontro che si apre è tra chi pone il valore-lavoro e chi esalta il valore dell'utilità.
Se il centrodestra saprà far esplodere questa contraddizione sarà in grado di rappresentare gli interessi dei cittadini senza aggettivi. Contrapponendo al partito di plastica che sta dalla parte di chi offre e si tiene i privilegi, il partito in carne e ossa dei liberi che sta dalla parte della domanda di utilità. E forse di felicità. Pronto a soddisfarla.
Il primo è il sondaggio pubblicato da Il Giornale che mostra come il Pd non riuscirà a sommare i voti di Ds e Dl, ma libererà consensi soprattutto a sinistra. La ragione è molto semplice. Se la politica cessa di essere progetto e diventa mera rappresentazione d'interessi chi - come gli ex Ds - vede nella militanza una speranza di condizione migliore si sente frustrato. Non a caso l'antiberlusconismo ha funzionato come collante perché suscita invidia sociale. Ma oggi è difficile immaginare le sfogline delle ex feste dell'Unità che si spaccano la schiena per i reggitori di coda del milieu debenedettiano. L’assenza dalla corsa per la premiership di candidati autenticamente diessini sradica di fatto i «democratici» dal loro unico aggancio popolare.
Ne è una prova la velenosa intervista che D'Alema ha dato al Corriere. Il popolo dei Ds non dimentica che Walter Veltroni ha dichiarato: «Non sono mai stato comunista». Per paradosso l'unico candidato popolare (in tutti i sensi) è Rosy Bindi, destinata al naufragio, e non è un caso che a lei sia andato l'appoggio di Parisi segnalando peraltro uno strappo nella compagine prodiana. Si dice che Enrico Letta sia il rappresentante dei «dossettiani». Non è così: Enrico Letta è solo l'enfant gatée del blocco economico cattolico.
Il secondo fatto è il regalo che i margheriti hanno fatto a Carlo De Benedetti con il ddl Gentiloni, scippando una rete a Berlusconi e donandola al gruppo Espresso. È una sorta di nemesi: Rete 4 fu dei Formenton e stava per incontrare De Benedetti nella grande guerra per Repubblica. Ovvero stava per fallire. Andò nella spartizione della Mondadori a Berlusconi e si salvò. Vedremo ora che torna per Gentiloni concessione nelle mani dell'Ingegnere che fine farà. Questa è la prima cambiale che i futuri oligarchi del Pd pagano al loro più cospicuo sponsor il quale peraltro ha dichiarato di recente: «Ho sempre fatto gli interessi miei e dei miei azionisti, ma rivendico un ruolo sociale dell'impresa» elevando Bill Gates a suo modello. Ora basterebbe ricordare le vicende Olivetti per esclamare: da che pulpito. Ma questo riferimento illustra paradigmaticamente cosa sarà il Pd.
Il terzo fatterello è la totale scomparsa di due riferimenti fondamentali: l'area laica (e si spiega il niet a Pannella) e l'area diessina (e si spiega la freddezza D'Alema-Veltroni). Il modello di società che l'attuale sindaco di Roma e il suo predecessore hanno in mente non prevede infatti variabili né di libero pensiero, né di pensiero collettivo, prevede soltanto la narcotizzazione dei ceti più deboli e il governo degli ottimati. È una visione tutta romana, tutta curiale che ha fatto nascere un mostro: una sorta di Giano bifronte che con Veltroni guarda agli apparatnik, al generone e ai palazzinari e con Rutelli guarda ai grand commis, ai furbetti del borsino.Questo mostro si chiama Veltrelli e ha una concezione della società e dell’economia pre-marxista e marxiana: è l'economia di Ricardo dove la merce ha valore per il lavoro che immagazzina e lo Stato ha il ruolo non di regolatore, ma di interdittore. È una visione cupa dell'uomo incapace di autodeterminarsi che deve essere guidato appunto dagli oligarchi. Non a caso Veltrelli è il rappresentante più puro della Casta e la sua ideologia è il pensiero Lebole, la fabbrica che vestiva tutti i funzionari di partito. È infatti un partito prêt à porter quello che sta nascendo: pronto a soddisfare gli appetiti di chiunque pur di perpetuarsi. È effimero, patinato, come Veltrelli l'unico politico italiano che non dismette mai giacca e cravatta perché così vuole la buona società e il pensiero Lebole.
Per il centrodestra l'occasione è dunque unica. Se il Pd guarda a Ricardo e cioè all'economia dell'offerta (e perciò privilegia i produttori, meglio se collettivizzati) Berlusconi&C. devono guardare alla scuola economica austriaca. Devono rileggere Carl Menger e occuparsi della domanda (e cioè dei cittadini come uomini liberi): dell'economia come strumento della soddisfazione dei bisogni. Lo scontro che si apre è tra chi pone il valore-lavoro e chi esalta il valore dell'utilità.
Se il centrodestra saprà far esplodere questa contraddizione sarà in grado di rappresentare gli interessi dei cittadini senza aggettivi. Contrapponendo al partito di plastica che sta dalla parte di chi offre e si tiene i privilegi, il partito in carne e ossa dei liberi che sta dalla parte della domanda di utilità. E forse di felicità. Pronto a soddisfarla.
mercoledì 1 agosto 2007
Solidarietà a Bruno Contrada
Bruno Contrada è innocente!
A 76 anni è in carcere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa: un modo elegante per dire che sei mafioso, ma non completamente. Una bestialità giuridica che nessuno osa contestare perché in questo nostro Paese di pusillanimi tutti si genuflettono davanti ai magistrati.
Contrada è innocente, ma non sono bastate le testimonianze di poliziotti e uomini di Stato a scagionarlo: i mafiosi "pentiti" sono stati ritenuti più attendibili e quindi è stato condannato.
Segnalo il sito di Bruno Contrada affinché le persone di buona volontà si documentino e possano esprimere la loro solidarietà a questo servitore dello Stato, vittima di giudici distratti e di giochi di potere.
Stiamo vicini a Bruno Contrada!
http://www.brunocontrada.info/index.php
A 76 anni è in carcere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa: un modo elegante per dire che sei mafioso, ma non completamente. Una bestialità giuridica che nessuno osa contestare perché in questo nostro Paese di pusillanimi tutti si genuflettono davanti ai magistrati.
Contrada è innocente, ma non sono bastate le testimonianze di poliziotti e uomini di Stato a scagionarlo: i mafiosi "pentiti" sono stati ritenuti più attendibili e quindi è stato condannato.
Segnalo il sito di Bruno Contrada affinché le persone di buona volontà si documentino e possano esprimere la loro solidarietà a questo servitore dello Stato, vittima di giudici distratti e di giochi di potere.
Stiamo vicini a Bruno Contrada!
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Pagliuzze e travi. il Giornale
Renato Farina, su Libero, ha ricordato il manifesto degli 800 intellettuali che firmarono contro il commissario Calabresi nel 1971. Farina ha scritto che tra i firmatari compariva anche una certa Letizia Gonzales che adesso è diventata presidente dei giornalisti della Lombardia, e che poco tempo fa aveva invocato con durezza la radiazione di Farina medesimo: da quale pulpito, si è chiesto Farina, si giudica la moralità altrui? Ne è seguito un dibattito invero penoso, con rigurgiti d’ufficio dell’Ordine nazionale dei giornalisti e orribili rivendicazioni da parte di attempate croniste di moda: «Farina è un essere spregevole, tutt’ora penso che sia giusto aver firmato». Certo, sono fatti di 37 anni fa, quelle 800 firme sono roba vecchia che da lustri ci si sbatte addosso da un giornale all’altro. Ma in una cosa Farina ha ragione: quel manifesto in realtà non esiste. Non c’è un libro di storia che ne parli, un’enciclopedia, una biografia dei vari firmatari che lo annoveri. Non farei mai una campagna pubblica contro Letizia Gonzales perché è diventata presidente dell’Ordine lombardo pur firmando quel manifesto: ma che questo possa intimamente far schifo, pur nel 2007, è quantomeno possibile.
martedì 31 luglio 2007
Al direttore - Arnaldo Forlani, l’ultimo segretario della Dc, ordinò ai parlamentari del suo partito di votare a favore dell’autorizzazione a far processare per mafia Giulio Andreotti, consenziente al suicidio l’interessato, e subito dopo a favore della soppressione dell’immunità parlamentare. Lo fece, così disse, per salvare la Dc dal lancio delle monetine, quelle che il segretario del Pci Achille Occhetto aveva lanciato e fatto lanciare contro Craxi. In effetti, del lancio delle monetine non ci fu più bisogno perché nel frattempo la Dc si disciolse e sparì. L’ultimo segretario dei Ds, appena discioltosi per fondare il Partito democratico, Piero Fassino, si accinge a votare e a far votare i parlamentari del suo partito a favore dell’utilizzazione giudiziaria contro se stesso e contro i suoi compagni Massimo D’Alema e Nicola Latorre delle intercettazioni telefoniche fatte a loro danno e contro la legge, rinunciando così all’ultima parvenza di guarantige di cui gode il Parlamento, dopo l’autorinuncia all’immunità e dopo che la Corte costituzionale ha dissolto nel ridicolo l’effimero istituto della insindacabilità. Ci sono serie ragioni per prevedere che finirà come l’altra volta e che il partito di Fassino, sotto l’urto della magistratura, si discioglierà e sparirà prima ancora di avere la possibilità di reincarnarsi nel Partito democratico. E con il partito di Fassino si dissolverà e sparirà la seconda Repubblica, come con la Dc si dissolse e sparì la prima. Il paradosso della situazione è questo, che l’unica possibilità che ciò non avvenga, che non si dissolvano i partiti della seconda Repubblica come si dissolsero quelli della prima, è affidata a Silvio Berlusconi, che è rimasto l’unico a dire no. Berlusconi, il trionfatore dell’antipolitica, è rimasto l’unico a difendere la politica. La difende contro l’urto della magistratura anche contro i suoi alleati, e persino contro le sue televisioni e i suoi giornali e una buona parte dei suoi parlamentari e dei suoi stessi elettori. Perché questo ha di singolare, e l’ha avuto dal primo momento, l’antipolitica di Berlusconi, questo nocciolo duro del garantismo che la contrappone inesorabilmente al giustizialismo, che è la vera madre di tutte le antipolitiche, ma non della sua. Ce la farà?
Lino Iannuzzi, senatore di Forza Italia
Lino Iannuzzi, senatore di Forza Italia
lunedì 30 luglio 2007
Devono morire
Ancora morti sulle strade italiane.
"Le stragi del sabato sera" puntualmente fanno notizia perché lasciano sull'asfalto una mezza dozzina di giovanissimi. Purtroppo sono vittime predestinate: devono morire perché hanno deciso di morire. Ubriachi, drogati, rincoglioniti dalla musica, stanchi e con scarsa esperienza di guida, non possono fare altro che ammazzarsi.
Non bastano controlli e posti di blocco, bisogna cambiare la testa di questi ragazzi. Hanno bisogno di essere formati ed educati, di avere dei genitori possibilmente non smidollati, di conoscere i limiti delle loro facoltà, di coetanei che ragionino con la testa, di ragazze al fianco che sappiano contenere gli eccessi dei loro comportamenti e soprattutto hanno bisogno di disciplina che è alla base del rispetto delle regole. Altrimenti dietro ogni curva c'è la morte o, quando va bene, la sedia a rotelle.
Si credono onnipotenti, si illudono che l'auto possa rimediare ai loro errori, hanno voglia di sensazioni forti perché sono abituati ad avere tutto da genitori imbelli, se ne infischiano della vita e non pensano alle conseguenze: si portano la morte appresso. Inutile piangere dopo, meglio prevenire con la formazione e l'informazione, in famiglia, a scuola, sui giornali e per televisione.
Più rigorosità nel rilascio della patente, limitazioni drastiche per i neo patentati, leggi più severe, ma soprattutto certezza della pena.
Il permessivismo è diventato il modello di vita da quando il '68 ha spazzato via tante regole e divieti. "Vietato vietare" era lo slogan di quegli anni: oggi ne subiamo le conseguenze.
Disciplina, rispetto, norme e rigore sono vocaboli sconosciuti anche a molti adulti, è naturale che i giovani non li conoscano.
"Le stragi del sabato sera" puntualmente fanno notizia perché lasciano sull'asfalto una mezza dozzina di giovanissimi. Purtroppo sono vittime predestinate: devono morire perché hanno deciso di morire. Ubriachi, drogati, rincoglioniti dalla musica, stanchi e con scarsa esperienza di guida, non possono fare altro che ammazzarsi.
Non bastano controlli e posti di blocco, bisogna cambiare la testa di questi ragazzi. Hanno bisogno di essere formati ed educati, di avere dei genitori possibilmente non smidollati, di conoscere i limiti delle loro facoltà, di coetanei che ragionino con la testa, di ragazze al fianco che sappiano contenere gli eccessi dei loro comportamenti e soprattutto hanno bisogno di disciplina che è alla base del rispetto delle regole. Altrimenti dietro ogni curva c'è la morte o, quando va bene, la sedia a rotelle.
Si credono onnipotenti, si illudono che l'auto possa rimediare ai loro errori, hanno voglia di sensazioni forti perché sono abituati ad avere tutto da genitori imbelli, se ne infischiano della vita e non pensano alle conseguenze: si portano la morte appresso. Inutile piangere dopo, meglio prevenire con la formazione e l'informazione, in famiglia, a scuola, sui giornali e per televisione.
Più rigorosità nel rilascio della patente, limitazioni drastiche per i neo patentati, leggi più severe, ma soprattutto certezza della pena.
Il permessivismo è diventato il modello di vita da quando il '68 ha spazzato via tante regole e divieti. "Vietato vietare" era lo slogan di quegli anni: oggi ne subiamo le conseguenze.
Disciplina, rispetto, norme e rigore sono vocaboli sconosciuti anche a molti adulti, è naturale che i giovani non li conoscano.
giovedì 26 luglio 2007
Alitalia: che ci fa Toto (Air One) da Bertinotti? Giuseppe Pennisi
L’Alitalia sta per finire in salsa alla amatriciana. Se le autorità nazionali ed europee sulle gare d’appalto non fermano la stravagante procedura che pare essere in corso, l’Italia rischia di finire al di fuori dell’euro e della stessa Ue.
Andiamo con ordine.
Oggi 26 luglio, il flemmatico Ministro dell’Economia e delle Finanze Tomaso Padoa-Schioppa riferisce alle pertinenti Commissioni parlamentari sul presente e sul futuro della compagnia di bandiera. Un’audizione corretta, anzi doverosa, visto il pasticciaccio brutto del beauty contest inconcludente. Quasi a volere incidere sull’audizione e sui suoi risultati, un comunicato sui televideo di prima mattina informa il colto e l’inclito che il principale azionista di Air One ha avuto una riunione con il Presidente della Camera dei Deputati Fausto Bertinotti (il quale nulla a che fare con gare ed appalti di aviolinea – al più per quelli relativi agli affitti ed alla cancelleria dell’organo costituzionale che presiede) per informarlo che è pronto a formulare un'offerta vincolante se il capitolato viene modificato sotto alcuni aspetti (i livelli occupazionali, il vincolo a non rivendere entro un certo numero di anni). Un passo del tutto improprio in quanto solo nei Paesi del quarto mondo (neanche in quelli del terzo) si è visto un partecipante ad una gara rivolgersi ad un’autorità istituzionale e politica al fine di fare cambiare il capitolato, entrando così in una trattativa privata. Quando un episodio del genere avvenne in Costa d’Avorio, la Banca Mondiale bloccò tutte le operazioni nel Paese ed il Capo dello Stato ritornò sui suoi passi.
Non è solo una questione di garbo ma di leggi scritti e di lex mercatoria per le transazioni finanziarie e commerciali internazionali. Ove il tête-à-tête avesse un seguito, non solo la gara dovrebbe essere riaperta a tutti gli eventuali concorrenti ma il Governo Prodi dovrebbe chiudere, per decreto legge, tanto l’antitrust quanto la commissione di vigilanza sugli appalti e chiedere all’Ue una sospensione “sine die” dalle regole europee.Nel frattempo, ci stiamo coprendo di ridicolo sulla stampa di tutto il mondo.
Andiamo con ordine.
Oggi 26 luglio, il flemmatico Ministro dell’Economia e delle Finanze Tomaso Padoa-Schioppa riferisce alle pertinenti Commissioni parlamentari sul presente e sul futuro della compagnia di bandiera. Un’audizione corretta, anzi doverosa, visto il pasticciaccio brutto del beauty contest inconcludente. Quasi a volere incidere sull’audizione e sui suoi risultati, un comunicato sui televideo di prima mattina informa il colto e l’inclito che il principale azionista di Air One ha avuto una riunione con il Presidente della Camera dei Deputati Fausto Bertinotti (il quale nulla a che fare con gare ed appalti di aviolinea – al più per quelli relativi agli affitti ed alla cancelleria dell’organo costituzionale che presiede) per informarlo che è pronto a formulare un'offerta vincolante se il capitolato viene modificato sotto alcuni aspetti (i livelli occupazionali, il vincolo a non rivendere entro un certo numero di anni). Un passo del tutto improprio in quanto solo nei Paesi del quarto mondo (neanche in quelli del terzo) si è visto un partecipante ad una gara rivolgersi ad un’autorità istituzionale e politica al fine di fare cambiare il capitolato, entrando così in una trattativa privata. Quando un episodio del genere avvenne in Costa d’Avorio, la Banca Mondiale bloccò tutte le operazioni nel Paese ed il Capo dello Stato ritornò sui suoi passi.
Non è solo una questione di garbo ma di leggi scritti e di lex mercatoria per le transazioni finanziarie e commerciali internazionali. Ove il tête-à-tête avesse un seguito, non solo la gara dovrebbe essere riaperta a tutti gli eventuali concorrenti ma il Governo Prodi dovrebbe chiudere, per decreto legge, tanto l’antitrust quanto la commissione di vigilanza sugli appalti e chiedere all’Ue una sospensione “sine die” dalle regole europee.Nel frattempo, ci stiamo coprendo di ridicolo sulla stampa di tutto il mondo.
L'economia mondiale corre, anche l'Europa va bene; quella che resta indietro è l'Italia. Gaetano Saglimbeni
Perché il compagno presidente del Consiglio ed il ministro Padoa Schioppa non spiegano queste cose agli italiani?
Il Fondo monetario internazionale conferma le sue durissime critiche al nostro Paese. Secondo le sue stime, la crescita media sul pianeta Terra sarà nel 2008 del 5,2 per cento, con previsioni dell’11,2 per cento per la Cina, del 9 per l’India e del 2,6 per l’Unione europea. Solo che, mentre la Spagna crescerà del 3,8, la Germania del 2,6 e la Francia del 2,2, l’Italia farà un notevole passo indietro, scendendo dal 2 per cento del 2007 all’1,7.
E tutto questo, per gli irresponsabili cedimenti del governo ai diktat-ricatti dell’estrema sinistra che hanno impedito ed impediscono di destinare alla riduzione del debito pubblico il famoso“tesoretto” di entrate fiscali non previste lasciato nel 2006 dal governo Berlusconi.
Il Fondo monetario internazionale conferma le sue durissime critiche al nostro Paese. Secondo le sue stime, la crescita media sul pianeta Terra sarà nel 2008 del 5,2 per cento, con previsioni dell’11,2 per cento per la Cina, del 9 per l’India e del 2,6 per l’Unione europea. Solo che, mentre la Spagna crescerà del 3,8, la Germania del 2,6 e la Francia del 2,2, l’Italia farà un notevole passo indietro, scendendo dal 2 per cento del 2007 all’1,7.
E tutto questo, per gli irresponsabili cedimenti del governo ai diktat-ricatti dell’estrema sinistra che hanno impedito ed impediscono di destinare alla riduzione del debito pubblico il famoso“tesoretto” di entrate fiscali non previste lasciato nel 2006 dal governo Berlusconi.
I furbetti e i furboni del crack Parmalat. il Riformista
Parmalat, una storia italiana. O meglio, da Totò truffa, se non fosse che i gabbati questa volta non sono attori e comparse di un film bensì migliaia di piccoli risparmiatori svuotati dei risparmi di una vita. 23 rinvii a giudizio nel procedimento principale sul crack Parmalat, 32 rinvii in quello relativo al turismo, 8 nel filone processuale che riguarda le mitiche Acque Ciappazzi. A deciderlo, ieri mattina, nell’ambito dell’atto conclusivo dell’udienza preliminare per il crac del colosso di Collecchio, il gup di Parma, Domenico Truppa. Oltre ai 23 imputati del filone principale (rinviati a vario titolo per associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta), tra i quali l’ex patron Calisto Tanzi, Fausto Tonna, e diversi amministratori e sindaci Parmalat, sono stati rinviati a giudizio anche i membri del board di Capitalia, tra cui Cesare Geronzi (secondo quanto ritenuto dal gup, dietro la controversa vendita dell’azienda di acque minerali da Ciarrapico a Tanzi, c’era Geronzi che “obbligò” il patron Parmalat a comprarla, nonostante avesse seri problemi) e l’ex ad, Matteo Arpe, il cui ruolo sarebbe però secondario, sempre secondo il gup. A questo si aggiungono poi i 16 patteggiamenti e, nell’ambito Parmatour, le due condanne di Alfredo Poldy Allay e Luca Baraldi.
Morale: dopo un biennio in cui si è spesso preferito almanaccare e infierire su furbetti del quartierino e Ricucci vari semplicemente indagati, eccoci squadernato dalla procura di Parma il più grave scandalo finanziario del Belpaese (in plastica coincidenza con la vicenda Italease e derivati). Certamente molto di più della scalata Antonveneta, per cui, sempre ieri mattina, la procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex ad di Bpi Giampiero Fiorani, l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, l’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte, il finanziere Emilio Gnutti e un’altra settantina di indagati. Spiace solo che i grandi giornaloni, nei mesi scorsi, si siano spesso dimenticati di dare conto, insieme alle fusioni, dei frutti velenosi dell’italico bancocentrismo. Mescolando tutto senza colpo ferire: furbetti & furboni. Anche se, volendo, c’è sempre tempo per rimediare.
Morale: dopo un biennio in cui si è spesso preferito almanaccare e infierire su furbetti del quartierino e Ricucci vari semplicemente indagati, eccoci squadernato dalla procura di Parma il più grave scandalo finanziario del Belpaese (in plastica coincidenza con la vicenda Italease e derivati). Certamente molto di più della scalata Antonveneta, per cui, sempre ieri mattina, la procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex ad di Bpi Giampiero Fiorani, l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, l’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte, il finanziere Emilio Gnutti e un’altra settantina di indagati. Spiace solo che i grandi giornaloni, nei mesi scorsi, si siano spesso dimenticati di dare conto, insieme alle fusioni, dei frutti velenosi dell’italico bancocentrismo. Mescolando tutto senza colpo ferire: furbetti & furboni. Anche se, volendo, c’è sempre tempo per rimediare.
Gli affari milionari del volpone del deserto. Alberto Pasolini Zanelli
I fari della pubblicità, per qualche ora, hanno esaltato scene in Europa: Cécilia Sarkozy in jeans e maglietta sulla scaletta dell’Airbus con la scritta «Républic Française» sulla fiancata, le infermiere bulgare che, a terra, abbracciano i familiari e all’Eliseo Nicolas Sarkozy che si crogiola nella gloria di un trionfo del coraggio e dell’immaginazione, che sigilla il ritorno della Francia alla guida morale dell’Europa e la riconciliazione matrimoniale.Adesso i fari, però, dovrebbero «cercare» un altro protagonista e un’altra scena: Muammar Gheddafi, magari nella sua mitica tenda nel deserto, che in certi casi gli fa da ombra anche metaforica. E il dittatore libico, infatti, non si mostra troppo. L’assoluzione di una crisi assurda ha prodotto una serie di accordi, quasi tutti benefici, ma altrettanto surreali, in un intrico di prestazioni e controprestazioni, riconoscimenti e scambio di favori in cui farebbe fatica a raccapezzarsi, c’è chi teme, perfino la mente astuta di un Talleyrand redivivo. Difficile perfino da riassumere: delle infermiere bulgare che, accanto a un medico palestinese, vanno a cercar di curare l’Aids in Libia, in un ospedale per bambini. I vaccini si contaminano, centinaia di bambini si infettano. La spiegazione più ovvia è che dei materiali fossero già contaminati, ma un tribunale libico decide invece che è tutta colpa dei sanitari, biechi assassini che avrebbero fatto degli esperimenti alla Mengele. Condanna a morte per tutti, come minimo, sempre confermata in anni e anni di vani ricorsi.
Poi improvvisa la commutazione all’ergastolo, che si traduce in scarcerazione immediata. Contropartita un milione di dollari a ciascuna delle 460 famiglie colpite: soldi che vengono dalla Libia ma anche dalla Bulgaria, dalla Slovacchia, dalla Croazia e dalla Repubblica Ceca in forma di rinuncia a dei crediti. Si comporta così, naturalmente, anche la Francia, che ci mette dentro diverse decine di milioni. Che sono poi solo l’inizio di una girandola di accordi commerciali e politici: rilancio degli investimenti petroliferi francesi in Libia, intensificazione delle forniture militari già riprese due anni fa, opportunità per le industrie francesi di partecipare alla costruzione di autostrade, treni, sistemi satellitari. Dietro Parigi, naturalmente, il resto dell’Europa. Un’occasione d’oro per rilanciare quel dialogo euro-africano che Sarkozy ha promesso fin dalla sera della sua elezione, in un denso ed emotivo saluto alle moltitudini convenute in place de la Concorde.
Ma se torniamo al suo interlocutore, Gheddafi, vediamo che per lui un festoso e fastoso accordo del genere non è una primizia. Il «colonnello» ne è, anzi, un esperto. Di recente ha concluso un affare del genere con gli Stati Uniti e con un presidente come George W. Bush assai più «duro» e sospettoso, continuatore via padre della «dinastia» di quel Reagan che nell’86 fece bombardare Tripoli e l’abitazione di Gheddafi per vendicare un atto terroristico. A una controvendetta fu attribuita, due anni dopo, la strage a bordo di un aereo di linea Pan Am precipitato sulla Scozia con 259 vittime. Il mondo ne accusò Gheddafi, che non smentì ma si rifiutò di collaborare. Lo stallo durò quasi vent’anni e poi improvvisamente l’uomo di Tripoli disse sì: era stato uno dei suoi, un certo Megrahi, ma non per ordine del dittatore ma, essendo un funzionario dello Stato, lo implicava come responsabile. Risultato un risarcimento di quasi tre miliardi alle famiglie delle vittime.
Una «capitolazione»? Neanche per sogno, perché contestualmente la Libia rinunciò a certi suoi progetti di costruzione di «armi di distruzione di massa», quelle che Bush era andato a cercare invano in Irak. Per la Casa Bianca fu una consolazione ben remunerata: fine delle sanzioni a Tripoli e un bel messaggio personale di Bush che chiamava Gheddafi «fratello mio». Questa volta tocca all’Europa, via Francia. Ancora un risarcimento, ancora delle concessioni politiche ed economiche. Business à la Gheddafi. Nello stile dell’uomo che, avendo fatto esattamente il contrario di Saddam Hussein, lo ha esaltato poi come «un martire e un santo». Che ha fatto causa alla Coca-Cola chiedendo un gigantesco risarcimento perché «la materia prima usata è africana». E che in patria ha lanciato un programma di risarcimento alle famiglie dei sottopagati. Il primo assegno, di 23mila dollari, è stato consegnato al titolare di una famiglia di nove persone. Nome Muammar Gheddafi, professione: leader della Repubblica socialista araba della Libia.
Poi improvvisa la commutazione all’ergastolo, che si traduce in scarcerazione immediata. Contropartita un milione di dollari a ciascuna delle 460 famiglie colpite: soldi che vengono dalla Libia ma anche dalla Bulgaria, dalla Slovacchia, dalla Croazia e dalla Repubblica Ceca in forma di rinuncia a dei crediti. Si comporta così, naturalmente, anche la Francia, che ci mette dentro diverse decine di milioni. Che sono poi solo l’inizio di una girandola di accordi commerciali e politici: rilancio degli investimenti petroliferi francesi in Libia, intensificazione delle forniture militari già riprese due anni fa, opportunità per le industrie francesi di partecipare alla costruzione di autostrade, treni, sistemi satellitari. Dietro Parigi, naturalmente, il resto dell’Europa. Un’occasione d’oro per rilanciare quel dialogo euro-africano che Sarkozy ha promesso fin dalla sera della sua elezione, in un denso ed emotivo saluto alle moltitudini convenute in place de la Concorde.
Ma se torniamo al suo interlocutore, Gheddafi, vediamo che per lui un festoso e fastoso accordo del genere non è una primizia. Il «colonnello» ne è, anzi, un esperto. Di recente ha concluso un affare del genere con gli Stati Uniti e con un presidente come George W. Bush assai più «duro» e sospettoso, continuatore via padre della «dinastia» di quel Reagan che nell’86 fece bombardare Tripoli e l’abitazione di Gheddafi per vendicare un atto terroristico. A una controvendetta fu attribuita, due anni dopo, la strage a bordo di un aereo di linea Pan Am precipitato sulla Scozia con 259 vittime. Il mondo ne accusò Gheddafi, che non smentì ma si rifiutò di collaborare. Lo stallo durò quasi vent’anni e poi improvvisamente l’uomo di Tripoli disse sì: era stato uno dei suoi, un certo Megrahi, ma non per ordine del dittatore ma, essendo un funzionario dello Stato, lo implicava come responsabile. Risultato un risarcimento di quasi tre miliardi alle famiglie delle vittime.
Una «capitolazione»? Neanche per sogno, perché contestualmente la Libia rinunciò a certi suoi progetti di costruzione di «armi di distruzione di massa», quelle che Bush era andato a cercare invano in Irak. Per la Casa Bianca fu una consolazione ben remunerata: fine delle sanzioni a Tripoli e un bel messaggio personale di Bush che chiamava Gheddafi «fratello mio». Questa volta tocca all’Europa, via Francia. Ancora un risarcimento, ancora delle concessioni politiche ed economiche. Business à la Gheddafi. Nello stile dell’uomo che, avendo fatto esattamente il contrario di Saddam Hussein, lo ha esaltato poi come «un martire e un santo». Che ha fatto causa alla Coca-Cola chiedendo un gigantesco risarcimento perché «la materia prima usata è africana». E che in patria ha lanciato un programma di risarcimento alle famiglie dei sottopagati. Il primo assegno, di 23mila dollari, è stato consegnato al titolare di una famiglia di nove persone. Nome Muammar Gheddafi, professione: leader della Repubblica socialista araba della Libia.
mercoledì 25 luglio 2007
L'Italia capovolta. il Foglio
Il circuito mediatico-giudiziario si è rimesso in moto ma ora gira al contrario.
Dopo la richiesta avanzata, in forme che fanno tanto discutere, dal giudice Clementina Forleo al Parlamento perché ammetta l’utilizzo delle intercettazioni subite da alcuni deputati e senatori, il circuito mediatico-giudiziario si è rimesso rapidamente in moto, però gira al contrario. L’associazione nazionale dei magistrati, per la prima volta a memoria d’uomo, invece di esprimere la solita solidarietà al giudice, la cui autonomia è minacciata dai politici ecc. ecc., comincia a sindacare sulla sua attività. Non si fa sentire neanche il Csm, costituzionalmente garante di quell’autonomia. Contro il ministro della Giustizia che chiede gli atti per verificare se inviare un’ispezione a Milano non arriva la solita gragnuola di proteste, anche perché analoga richiesta è partita dal procuratore generale della Cassazione. Da ultimo, ma primo fra tutti per l’autorità, Giorgio Napolitano ammonisce che negli atti non bisogna scrivere pregiudizi, e (quasi) tutti i giornali applaudono. L’eccezione è rappresentata dalla Stampa, che nelle parole pronunciate dal presidente vede se non l’esistenza, almeno una parvenza di parzialità a favore del suo partito di origine.
Ognuno di questi inusitati comportamenti può avere una spiegazione diversa. L’atteggiamento della magistratura associata potrebbe essere il segnale che la campagna contro “i politici”, ripresa in grande stile per condizionare l’iter della legge sull’ordinamento giudiziario, adesso che questa è passata al Senato secondo i desideri della corporazione, può cessare, anche se la Forleo forse non se n’è accorta. Certo, nel comportamento del procuratore generale della Cassazione si potrebbe anche intravedere il riflesso di una rivincita generale degli alti magistrati: da un lato hanno vinto la battaglia per la nomina del presidente, dall’altro hanno sconfitto Magistratura democratica che si opponeva a Vincenzo Carbone. Anche l’atteggiamento balbettante delle grandi testate che, dopo aver contribuito a lanciare la campagna su Unipol-Bnl, avevano forse pensato di aver già ottenuto l’esclusione di D’Alema e Fassino dalla corsa nel Pd, si spiegherebbe con l’opportunità di non infierire su avversari sconfitti. Tuttavia è lecito sperare, a chi ha sempre creduto nel garantismo, che non ci sia solo una serie di coincidenze, e di convenienze, alla base del capovolgimento di posizioni del circuito mediatico-giudiziario, ma anche un pizzico di vera riflessione autocritica, seppure un po’ a senso unico.
Dopo la richiesta avanzata, in forme che fanno tanto discutere, dal giudice Clementina Forleo al Parlamento perché ammetta l’utilizzo delle intercettazioni subite da alcuni deputati e senatori, il circuito mediatico-giudiziario si è rimesso rapidamente in moto, però gira al contrario. L’associazione nazionale dei magistrati, per la prima volta a memoria d’uomo, invece di esprimere la solita solidarietà al giudice, la cui autonomia è minacciata dai politici ecc. ecc., comincia a sindacare sulla sua attività. Non si fa sentire neanche il Csm, costituzionalmente garante di quell’autonomia. Contro il ministro della Giustizia che chiede gli atti per verificare se inviare un’ispezione a Milano non arriva la solita gragnuola di proteste, anche perché analoga richiesta è partita dal procuratore generale della Cassazione. Da ultimo, ma primo fra tutti per l’autorità, Giorgio Napolitano ammonisce che negli atti non bisogna scrivere pregiudizi, e (quasi) tutti i giornali applaudono. L’eccezione è rappresentata dalla Stampa, che nelle parole pronunciate dal presidente vede se non l’esistenza, almeno una parvenza di parzialità a favore del suo partito di origine.
Ognuno di questi inusitati comportamenti può avere una spiegazione diversa. L’atteggiamento della magistratura associata potrebbe essere il segnale che la campagna contro “i politici”, ripresa in grande stile per condizionare l’iter della legge sull’ordinamento giudiziario, adesso che questa è passata al Senato secondo i desideri della corporazione, può cessare, anche se la Forleo forse non se n’è accorta. Certo, nel comportamento del procuratore generale della Cassazione si potrebbe anche intravedere il riflesso di una rivincita generale degli alti magistrati: da un lato hanno vinto la battaglia per la nomina del presidente, dall’altro hanno sconfitto Magistratura democratica che si opponeva a Vincenzo Carbone. Anche l’atteggiamento balbettante delle grandi testate che, dopo aver contribuito a lanciare la campagna su Unipol-Bnl, avevano forse pensato di aver già ottenuto l’esclusione di D’Alema e Fassino dalla corsa nel Pd, si spiegherebbe con l’opportunità di non infierire su avversari sconfitti. Tuttavia è lecito sperare, a chi ha sempre creduto nel garantismo, che non ci sia solo una serie di coincidenze, e di convenienze, alla base del capovolgimento di posizioni del circuito mediatico-giudiziario, ma anche un pizzico di vera riflessione autocritica, seppure un po’ a senso unico.
Al direttore - Oggi salutiamo il proscioglimento dell’anestesista Mario Riccio. Ma se Piergiorgio Welby avesse perduto coscienza poche ore prima che il medico cremonese interrompesse, su sua richiesta, le terapie che lo mantenevano in vita, oggi, con molta probabilità, il militante radicale languirebbe ancora nel suo letto di tortura (così la considerava). Il testamento biologico, in fondo, è “solo” questo: consentire ai futuri Welby di poter impartire anticipatamente le proprie volontà, quando la loro consapevolezza non è stata ancora compromessa dalla malattia. Testamento biologico ed eutanasia sono due questioni distinte che possono e debbono essere affrontate separatamente, perché implicano diritti e responsabilità diverse sia a carico dei malati sia dei medici. Il diritto di rifiutare le cure (e di disporre in modo valido questo rifiuto per il futuro) e quello di morire attraverso un atto medico non sono, a tutta evidenza, la stessa cosa. Sarebbe, per me, una grave sottovalutazione della portata politica dei temi in gioco affrontare, come in molti nel centrodestra vorrebbero fare, le questioni bioetiche sul “fine-vita” in modo ideologicamente indistinto, dichiarando una “guerra totale” al principio del consenso informato che è già oggi la base deontologica e giuridica del rapporto tra medici e pazienti. Non credo proprio che il cento per cento degli italiani che hanno votato per la coalizione berlusconiana pensino, come un sol uomo, che il dottor Riccio sia un assassino, che la morte di Welby andasse impedita con la forza e che Nuvoli sia stato salvato da un “omicidio di stato”. Non è neppure vero, probabilmente, che la maggioranza di quegli italiani che hanno scelto il centrodestra – e che lo sceglieranno nel futuro – ritenga che sulle questioni eticamente sensibili tocchi allo stato e alla legge provvedere a risolvere i “dilemmi morali” che la vita porta con sé e impone alla coscienza degli individui. L’eutanasia di stato (che codifichi quando non vale più la pena di assistere un malato) e la “cura di stato” (che imponga comunque di curare un paziente, anche contro la sua volontà) sono i due estremi, uguali e contrari, a cui può portare la pretesa dello stato di surrogare, in virtù di una superiore saggezza e di un più alto sapere, la fragile volontà delle persone che soffrono.
Benedetto Della Vedova presidente Riformatori liberali e deputato FI
Benedetto Della Vedova presidente Riformatori liberali e deputato FI
martedì 24 luglio 2007
Tutti uniti con Magdi Allam, tutti uniti con Israele, tutti uniti contro il negazionismo, gli amici del terrorismo e gli amici del Kgb. Paolo Guzzanti
Stiamo andando verso una nuova forma di illiberalismo gravissima che somiglia a una dittatura strisciante, ma sempre più sfrontata e galoppante.
Magdi Allam è stato attaccato a sinistra dalla rivista “chic” Reset, ed è indicato come bersaglio a tutti i tagliagole.
Intanto apprendiamo che gente di centro destra e persino, se confermato, di Forza Italia, si schiera contro Israele e pratica il negazionismo come i nuovi antisemiti di Teheran.
Leggiamo di un segreto consesso di giornalisti che dentro la Rai praticherebbero la censura per conto di Prodi. E’ vero o è falso? I servizi segreti sono schierati ogni giorno di più con gli stessi russi contro i quali insorgono inglesi, americani e la nuova Francia di Sarkozy.
In Italia le notizie sono oscurate e relegate nei telegiornali in coda ai notiziari. Una maggioranza che si regge sui voti politicamente non legittimati (anche se legali) dei senatori a vita, traballa e i suoi stessi esponenti si vomitano reciprocamente insulti e odio.
Il caso Litvinenko-Mitrokhin è un caso mondiale e si assiste a una straordinaria gara per oscurare il fatto che Sasha veniva segretamente in Italia a portare notizie e che oggi è lecito supporre che sia stato assassinato per questo motivo, e non perché fosse un “dissidente”.
Dissidente non significa niente e non si prepara un omicidio per un anno usando un materiale che può essere prodotto soltanto da uno Stato, per far tacere un dissidente. I dissidenti vivono ben protetti, ma in tranquillità.
Perché hanno ammazzato Sasha?
Allam è una delle poche voci libere che vengono dal mondo arabo e sialmico, l’unico che conosce e riconosce la bontà di Israele.
Israele è nel cuore di tutti coloro che amano il genere umano, la vita e la civiltà. Non dirò che Israele è il baluardo dell’occidente perché non è vero: Israele è il baluardo del popolo ebraico sterminato e calpestato e vilipeso e offeso. Israele è la frontiera che divide chi ama la vita da chi ama la morte.
C’è qualcosa di molto grave e molto losco che sta accadendo intorno a noi.
Facciamo quadrato intorno a Magdi, chiamiamo tutti ad esprimere solidarietà a Magdi e a portare la solidarietà sui giornali, sui blog, nelle mailing list, ovunque.
Impediamo che il nazismo ritorni travestito da terrorista.
Tutti noi che cerchiamo e difendiamo la verità siamo attaccati e duffamati.Uniamoci e diamoci forza.
Vegliamo sulla democrazia italiana perché tira una bruttissima aria.
E’ estate, ma non abbassiamo la guardia soltanto perché è tempo di vacanze.
Magdi, sappi che noi ti siamo vicini e sappiamo che tu sei vicino a noi. Come siamo vicini a Israele per la cui sorte vegliamo e tremiamo, mentre altri tramano e preparano nuove oscene aggressioni.
Magdi Allam è stato attaccato a sinistra dalla rivista “chic” Reset, ed è indicato come bersaglio a tutti i tagliagole.
Intanto apprendiamo che gente di centro destra e persino, se confermato, di Forza Italia, si schiera contro Israele e pratica il negazionismo come i nuovi antisemiti di Teheran.
Leggiamo di un segreto consesso di giornalisti che dentro la Rai praticherebbero la censura per conto di Prodi. E’ vero o è falso? I servizi segreti sono schierati ogni giorno di più con gli stessi russi contro i quali insorgono inglesi, americani e la nuova Francia di Sarkozy.
In Italia le notizie sono oscurate e relegate nei telegiornali in coda ai notiziari. Una maggioranza che si regge sui voti politicamente non legittimati (anche se legali) dei senatori a vita, traballa e i suoi stessi esponenti si vomitano reciprocamente insulti e odio.
Il caso Litvinenko-Mitrokhin è un caso mondiale e si assiste a una straordinaria gara per oscurare il fatto che Sasha veniva segretamente in Italia a portare notizie e che oggi è lecito supporre che sia stato assassinato per questo motivo, e non perché fosse un “dissidente”.
Dissidente non significa niente e non si prepara un omicidio per un anno usando un materiale che può essere prodotto soltanto da uno Stato, per far tacere un dissidente. I dissidenti vivono ben protetti, ma in tranquillità.
Perché hanno ammazzato Sasha?
Allam è una delle poche voci libere che vengono dal mondo arabo e sialmico, l’unico che conosce e riconosce la bontà di Israele.
Israele è nel cuore di tutti coloro che amano il genere umano, la vita e la civiltà. Non dirò che Israele è il baluardo dell’occidente perché non è vero: Israele è il baluardo del popolo ebraico sterminato e calpestato e vilipeso e offeso. Israele è la frontiera che divide chi ama la vita da chi ama la morte.
C’è qualcosa di molto grave e molto losco che sta accadendo intorno a noi.
Facciamo quadrato intorno a Magdi, chiamiamo tutti ad esprimere solidarietà a Magdi e a portare la solidarietà sui giornali, sui blog, nelle mailing list, ovunque.
Impediamo che il nazismo ritorni travestito da terrorista.
Tutti noi che cerchiamo e difendiamo la verità siamo attaccati e duffamati.Uniamoci e diamoci forza.
Vegliamo sulla democrazia italiana perché tira una bruttissima aria.
E’ estate, ma non abbassiamo la guardia soltanto perché è tempo di vacanze.
Magdi, sappi che noi ti siamo vicini e sappiamo che tu sei vicino a noi. Come siamo vicini a Israele per la cui sorte vegliamo e tremiamo, mentre altri tramano e preparano nuove oscene aggressioni.
Il governo deve regalare Alitalia mentre i dipendenti scioperano. Milton
Mercoledì 18 Luglio. Fiumicino. Mezza Italia sta partendo per le vacanze e140 voli Alitalia sono stati cancellati. Motivo dello sciopero: lotta alla precarietà e allo “scalone”.
Lo riscrivo per chi avesse il timore di non aver letto bene. Mentre l’ultimo potenziale acquirente di Alitalia ha appena dichiarato di ritirarsi dalla gara, il titolo sta a poco più di mezzo euro, il libri contabili sono sulla porta del tribunale, il personale di terra e gli assistenti di volo Alitalia che fanno? Scioperano contro il precariato e contro lo “scalone”. Sarebbe più o meno come se un condannato a morte chiedesse di spostare al giorno dopo la sua esecuzione, per andare in piazza a manifestare contro le aliquote fiscali troppo basse dei servizi di pompe funebri.
Questa è la tragica (nel senso greco), per niente inattesa conclusione della procedura di vendita di Alitalia, intentata dal Governo Prodi poco più di sei mesi fa. Un maldestro tentativo di consegnare al solito gruppo di amici i miseri resti della compagnia di bandiera a prezzo scontato. Soltanto che questa volta i resti sono davvero miseri e gli amici l’Alitalia la vogliono gratis, senza nessun impegno sul piano industriale.
E’ stato un susseguirsi di rinvii e regole di gara a geometria variabile, con le cordate estere che piano piano si sfilavano, non appena apparivano più chiari gli obiettivi del Governo sull’operazione: Alitalia a prezzo di saldo, nessun piano di rilancio, ma pre-accordo di ferro con i sindacati teso a mantenere l’occupazione e i privilegi. In cambio, lo sfruttamento del monopolio di fatto delle maggiori tratte domestiche con buona pace dei viaggiatori che si sarebbero (ma il rischio esiste ancora) visti chiedere 800 euro per un volo andata e ritorno Roma-Milano. E fra qualche anno? Si vedrà!
Il ministro dei Trasporti Bianchi, degno compare del ministro Padoa Schioppa, nella scellerata gestione di questo tentativo di vendita, dice che il Governo si è preso il week end appena passato per definire una decisione su come, a questo punto, procedere; come se fossero un tuffo in piscina o la calura estiva a dover ispirare le strategie di privatizzazione dell’attuale esecutivo.
Come andrà a finire? Nel solito modo già tentato da Prodi con la Sme. Fonti ben informate dicono che Alitalia verrà ceduta entro dodici mesi tramite trattativa privata (più o meno come si fa con un campo di patate), dove le condizioni verranno poste direttamente da chi compra e non da chi vende. Più o meno come doveva avvenire per la Sme ormai vent’anni fà, già promessa da Prodi a De Benedetti per quattro soldi. E si pensi che chi quella svendita ha evitato, ha dovuto subire dieci anni di processi, prima di essere completamente scagionato (da che cosa poi, non si è mai saputo).
L’attuale Presidente del Consiglio infatti gioca con gli asset dello Stato ormai da quasi trent’anni. Boiardo della prima generazione, ha passato la sua vita pre-politica saltellando dalla Presidenza dell'IRI alla consulenza per le Banche d’Affari che con l’IRI lavoravano, occupandosi in entrambi i casi di rilevanti privatizzazioni. Il caso Siemens pare sia lì a dimostrarlo, nel più totale silenzio degli organi di stampa amici.
Ma proviamo con l’Alitalia, signor Presidente del Consiglio, a fare un’eccezione. Che i sindacati ammettano le loro pesantissime responsabilità, che i partiti confessino i decenni di clientele proliferate soprattutto ai tempi di Alitalia-IRI, che il mercato faccia la sua parte. Si portino i libri in tribunale (gli americani lo chiamerebbero chapter 11) e si dia vita ad una nuova entità che possa operare secondo logiche di mercato, sulla base di piani industriali seri e di soldi veri, con sindacati e politici tenuti rigorosamente lontani e possibilmente imbavagliati. E poi, fare i tagli necessari, eliminare i privilegi vergognosi, concentrarsi su un solo hub senza campanilismi, ritagliarsi uno spazio nel segmento low cost e aumentare le frequenze, ed ancora, specializzarsi nelle tratte potenzialmente più remunerative, per esempio il lontano Oriente. E se chi è in grado di fare ciò non è una cordata italiana, pazienza, basta che non sia un amico.
Lo riscrivo per chi avesse il timore di non aver letto bene. Mentre l’ultimo potenziale acquirente di Alitalia ha appena dichiarato di ritirarsi dalla gara, il titolo sta a poco più di mezzo euro, il libri contabili sono sulla porta del tribunale, il personale di terra e gli assistenti di volo Alitalia che fanno? Scioperano contro il precariato e contro lo “scalone”. Sarebbe più o meno come se un condannato a morte chiedesse di spostare al giorno dopo la sua esecuzione, per andare in piazza a manifestare contro le aliquote fiscali troppo basse dei servizi di pompe funebri.
Questa è la tragica (nel senso greco), per niente inattesa conclusione della procedura di vendita di Alitalia, intentata dal Governo Prodi poco più di sei mesi fa. Un maldestro tentativo di consegnare al solito gruppo di amici i miseri resti della compagnia di bandiera a prezzo scontato. Soltanto che questa volta i resti sono davvero miseri e gli amici l’Alitalia la vogliono gratis, senza nessun impegno sul piano industriale.
E’ stato un susseguirsi di rinvii e regole di gara a geometria variabile, con le cordate estere che piano piano si sfilavano, non appena apparivano più chiari gli obiettivi del Governo sull’operazione: Alitalia a prezzo di saldo, nessun piano di rilancio, ma pre-accordo di ferro con i sindacati teso a mantenere l’occupazione e i privilegi. In cambio, lo sfruttamento del monopolio di fatto delle maggiori tratte domestiche con buona pace dei viaggiatori che si sarebbero (ma il rischio esiste ancora) visti chiedere 800 euro per un volo andata e ritorno Roma-Milano. E fra qualche anno? Si vedrà!
Il ministro dei Trasporti Bianchi, degno compare del ministro Padoa Schioppa, nella scellerata gestione di questo tentativo di vendita, dice che il Governo si è preso il week end appena passato per definire una decisione su come, a questo punto, procedere; come se fossero un tuffo in piscina o la calura estiva a dover ispirare le strategie di privatizzazione dell’attuale esecutivo.
Come andrà a finire? Nel solito modo già tentato da Prodi con la Sme. Fonti ben informate dicono che Alitalia verrà ceduta entro dodici mesi tramite trattativa privata (più o meno come si fa con un campo di patate), dove le condizioni verranno poste direttamente da chi compra e non da chi vende. Più o meno come doveva avvenire per la Sme ormai vent’anni fà, già promessa da Prodi a De Benedetti per quattro soldi. E si pensi che chi quella svendita ha evitato, ha dovuto subire dieci anni di processi, prima di essere completamente scagionato (da che cosa poi, non si è mai saputo).
L’attuale Presidente del Consiglio infatti gioca con gli asset dello Stato ormai da quasi trent’anni. Boiardo della prima generazione, ha passato la sua vita pre-politica saltellando dalla Presidenza dell'IRI alla consulenza per le Banche d’Affari che con l’IRI lavoravano, occupandosi in entrambi i casi di rilevanti privatizzazioni. Il caso Siemens pare sia lì a dimostrarlo, nel più totale silenzio degli organi di stampa amici.
Ma proviamo con l’Alitalia, signor Presidente del Consiglio, a fare un’eccezione. Che i sindacati ammettano le loro pesantissime responsabilità, che i partiti confessino i decenni di clientele proliferate soprattutto ai tempi di Alitalia-IRI, che il mercato faccia la sua parte. Si portino i libri in tribunale (gli americani lo chiamerebbero chapter 11) e si dia vita ad una nuova entità che possa operare secondo logiche di mercato, sulla base di piani industriali seri e di soldi veri, con sindacati e politici tenuti rigorosamente lontani e possibilmente imbavagliati. E poi, fare i tagli necessari, eliminare i privilegi vergognosi, concentrarsi su un solo hub senza campanilismi, ritagliarsi uno spazio nel segmento low cost e aumentare le frequenze, ed ancora, specializzarsi nelle tratte potenzialmente più remunerative, per esempio il lontano Oriente. E se chi è in grado di fare ciò non è una cordata italiana, pazienza, basta che non sia un amico.
Da forcaioli che erano. Mario Cervi
L’uragano Clementina scuote i palazzi della politica. Li scuote a tal punto che nel palazzo più autorevole, il Quirinale, s'è ravvisata la necessità d'un intervento. Pur non avendo riferimenti specifici e nominativi al caso Forleo, esso era facilmente collegabile a quel caso. E infatti da tutti è stato collegato. Il gip milanese Clementina Forleo - questo l'antefatto - ha chiesto al Parlamento di poter utilizzare le intercettazioni telefoniche sulle scalate bancarie riguardanti tre deputati - tra loro Fassino e D'Alema - e tre senatori. Nella sua ordinanza la signora ha avanzato l'ipotesi che i parlamentari fossero consapevolmente «complici di un disegno criminoso». Donde l'ira Di Fassino e D'Alema, nonché degli altri onorevoli coinvolti: e un susseguirsi di prese di posizione - pro o contro la Forleo - in cui sono tornati gli argomenti d'obbligo nelle polemiche sulla giustizia.Questo era scontato. Meno scontato era che dicesse la sua anche il capo dello Stato. Il quale, trovandosi nella sede del Csm - il «palazzo dei marescialli» - per la nomina di Vincenzo Carbone a primo presidente della Cassazione, ha voluto «lanciare un richiamo alla massima responsabilità e riservatezza nello svolgimento di tutte le funzioni proprie dell'autorità giudiziaria»; e in particolare un richiamo «a non inserire in atti processuali valutazioni e riferimenti non pertinenti e chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti».
Nulla da eccepire. Se non fosse che abbiamo assistito al massacro di questi principi e al trionfo dei processi mediatici, con i magistrati divi e i pool posti sugli altari: e inoltre alla sfacciata e mirata propalazione degli avvisi di garanzia e d'altre notizie, se infangavano personaggi «eccellenti». A chi criticava la magistratura per questi sconfinamenti dall'ambito dei suoi poteri e per l'arroganza con cui erano perpetrati si rispondeva che era bene così, che il cittadino doveva essere informato sulle malefatte della classe dirigente. Addebitate, le malefatte, o ai partiti governativi o al centrodestra di Berlusconi.
Ma adesso uomini il cui schieramento si distinse in quegli anni per furia forcaiola sono messi nei guai, e allora i Violante, i D'Ambrosio e compagnia lamentano la spregiudicatezza con cui gli sfoghi telefonici sono stati messi in piazza (solo Antonio Di Pietro e Furio Colombo, cui va riconosciuta coerenza, non rinnegano le loro passate pulsioni giustizialiste). Può darsi che Clementina Forleo - imprevedibile e ingovernabile, come s'è visto - abbia usato termini impropri, nella motivazione della sua ordinanza. Prima di lei l'hanno fatto - mossi, loro, da faziosità politica, e senza attirarsi rampogne - innumerevoli suoi colleghi. Con tutto il rispetto e la stima per Gorgio Napolitano, oso definire non pertinente, o almeno eccedente, la sua bacchettata: non ad ignoti ma a una nota, Clementina Forleo.
Nulla da eccepire. Se non fosse che abbiamo assistito al massacro di questi principi e al trionfo dei processi mediatici, con i magistrati divi e i pool posti sugli altari: e inoltre alla sfacciata e mirata propalazione degli avvisi di garanzia e d'altre notizie, se infangavano personaggi «eccellenti». A chi criticava la magistratura per questi sconfinamenti dall'ambito dei suoi poteri e per l'arroganza con cui erano perpetrati si rispondeva che era bene così, che il cittadino doveva essere informato sulle malefatte della classe dirigente. Addebitate, le malefatte, o ai partiti governativi o al centrodestra di Berlusconi.
Ma adesso uomini il cui schieramento si distinse in quegli anni per furia forcaiola sono messi nei guai, e allora i Violante, i D'Ambrosio e compagnia lamentano la spregiudicatezza con cui gli sfoghi telefonici sono stati messi in piazza (solo Antonio Di Pietro e Furio Colombo, cui va riconosciuta coerenza, non rinnegano le loro passate pulsioni giustizialiste). Può darsi che Clementina Forleo - imprevedibile e ingovernabile, come s'è visto - abbia usato termini impropri, nella motivazione della sua ordinanza. Prima di lei l'hanno fatto - mossi, loro, da faziosità politica, e senza attirarsi rampogne - innumerevoli suoi colleghi. Con tutto il rispetto e la stima per Gorgio Napolitano, oso definire non pertinente, o almeno eccedente, la sua bacchettata: non ad ignoti ma a una nota, Clementina Forleo.
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