lunedì 16 giugno 2008

Tortora e la giustizia che peggiora. Davide Giacalone

17 giugno 1983. Non s’era ancora fatto giorno quando, venticinque anni fa, entrarono nella sua camera d’albergo ed arrestarono Enzo Tortora. Da allora ad oggi il buio s’è fatto più pesto, la giustizia si chiama ancora tale, ma a dispetto di quel che è. Il numero di quanti, innocenti, finiscono nel tritacarne è aumentato. L’incapacità di punire i colpevoli è, oramai, cronica. Eppure, in tanti, fanno ancora spallucce. Sì, è un problema serio, ma non li riguarda, non li tocca. Certe cose, si sa, succedono solo agli altri. E se succedono, in fondo in fondo, una ragione c’è. Non vi pare? Non è lo schifo della giustizia italiana, ma tale immondo atteggiamento che mi fa credere la storia di Tortora sia stata inutile, non sia valsa a far capire.

A far imbufalire. In tanti, del resto, credono di conoscerla, ma se prenderanno in mano il libro di Vittorio Pezzuto, “Applausi e sputi” (Sperling & Kupfer), misureranno quanto, invece, c’è ancora da sapere.
17 settembre 1985. Il processo scivola veloce, con una conclusione scritta nel suo inizio: Tortora è condannato a dieci anni di reclusione. Colpevole, quindi, d’aver vissuto con camorra e cocaina. Pezzuto ci consente di rivivere quel dibattimento, di ripassare quelle udienze. Fatelo, fatevi venire l’orticaria e la nausea. Ma non fatevele passare, non crediate che poi si sia rimediato, perché quei magistrati e quei giudici hanno fatto carriera. Quello che amministrarono non fu un verdetto sbagliato, che può capitare, ma un processo sbagliato, che non deve capitare. Ne hanno organizzati altri, altri ne organizzano. La loro bussola furono i pentiti, a loro volta guidati da quanti li amministravano. Furono in pochi a non volere dipendere dai pentiti, fra questi Giovanni Falcone, isolato, diffamato, additato in televisione quale colluso con la mafia, infine fatto saltare in aria.
9 dicembre 1985. Il Parlamento europeo respinge, all’unanimità, la richiesta di procedere contro Tortora, divenuto parlamentare, per oltraggio contro un magistrato. In udienza di lui avevano detto che era stato eletto con i voti della camorra. “E’ un’indecenza”, gridò Tortora. Chiesero di processarlo, ed il Parlamento, più che giustamente, osservò che l’offeso era il parlamentare, non certo il magistrato.
31 dicembre 1985. Subito dopo, però, Tortora si dimette da parlamentare, rinuncia all’immunità e soggiace agli arresti domiciliari. Una cosa, per lui, è sempre stata ferma: da innocente voleva che fosse riconosciuta l’innocenza. E questo è un uomo.
15 settembre 1986. Assolto. Per la Corte d’Appello non solo l’innocenza sua è piena, ma la condanna precedente è da attribuirsi a dichiarazioni di pentiti che parlavano solo per avere in cambio qualche cosa. Più che una sentenza d’assoluzione per Tortora, è una sentenza di condanna per i giudici di primo grado e per la procura di Napoli. Ma, come detto, è tutta gente che farà carriera.
20 febbraio 1987. Tortora torna in televisione, comincia Portobello con la una citazione: “Dove eravamo rimasti …”. No, non è un lieto fine, perché quell’uomo violentato ha conservato la lucidità della mente, ma perso quasi tutto il resto. Il 17 giugno 1987, ancora lo stesso giorno, la Cassazione gli consegna l’assoluzione definitiva. Il 18 maggio 1988 muore, come un guerriero che ha vinto la battaglia, ma ha lasciato sul campo troppo sangue.
Il libro di Pezzuto racconta, spiega, lascia la parola al protagonista. Fa accapponare la pelle a chi ancora ne ha una. Ma, alla fine, dobbiamo tutti ammettere d’essere stati sconfitti. La giustizia italiana è oggi peggiore di quella che volle uccidere Tortora. La politica, se possibile, è ancora più vile.

Nessun commento: