martedì 12 agosto 2008

Un anno con la crisi mondiale. Domenico Siniscalco

Difficile dire come andrà a finire. Un anno fa, prima di Ferragosto, scoppiava una crisi globale di credito e liquidità che le autorità monetarie definiscono la più grave dal 1929. Oggi, a un anno di distanza, la situazione continua ad essere caratterizzata da segnali negativi.

L’inflazione ha superato il 10% in più di cinquanta Paesi, e anche da noi è in continuo rialzo, soprattutto per ciò che riguarda i prezzi alla produzione e i beni acquistati più frequentemente. La crisi politico-militare in Ossezia investe una regione crocevia di oleodotti strategici per l’Europa. La crescita dell’economia reale, infine, sta diventando negativa, dalla Germania, all’Italia, alla Spagna, con ripercussioni sulla qualità del credito. Negli Stati Uniti il clima economico negli ultimi giorni pare rasserenarsi, ma molti osservatori ritengono si tratti di segnali positivi lungo un sentiero di deterioramento. Parimenti, i minori prezzi di alcune materie prime, tra cui il petrolio, sono un segnale di recessione.

Il quadro negativo non sorprende. Con il passare dei mesi sta emergendo con chiarezza che il settore finanziario era l’anello debole, ma che la crisi che si sta dipanando è più grave e più estesa di una crisi finanziaria e creditizia. Ciò che si è rotto è un meccanismo di sviluppo, e questo deve essere aggiustato in vista di una ripresa duratura.

Cominciamo dagli Stati Uniti. Quel Paese è noto per la scarsa propensione al risparmio. Ma negli ultimi anni ha finanziato i consumi crescenti non solo con il reddito, ma con il proprio patrimonio.

Questo è stato possibile grazie al credito a buon mercato, che ha costituito una vera e propria droga. Contraendo più mutui sulla stessa casa e più debito su qualsiasi attività in grado di sopportarlo, i consumatori americani hanno aumentato il potere di acquisto sino al 9% del reddito disponibile, spingendo i consumi a livelli record. La maggiore domanda dei consumatori americani è stata soddisfatta in misura crescente dalle importazioni dall’Asia - e dalla Cina in particolare - che proprio l’anno passato ha superato gli Stati Uniti come maggior produttore mondiale di manufatti. Sempre l’Asia, acquistando titoli Usa, ha garantito l’afflusso di valuta necessario a finanziare lo sbilancio commerciale. I volumi sono senza precedenti: l’afflusso di valuta negli Usa per compensare la mancanza di risparmio deve superare i 3 miliardi di dollari al giorno. I flussi di valuta sono stati garantiti anche dalla politica dei Paesi asiatici di mantenere la parità del cambio col dollaro per tutelare la crescita del loro export.

Il modello americano, basato su debito e consumi, ha dunque trovato come controparte il modello asiatico, basato su credito e esportazione. Ma nessuna economia, nemmeno gli Usa con una valuta di riserva, può vivere per sempre al di sopra dei propri mezzi. E nessuna società, nemmeno la Cina, può comprimere indefinitamente i propri consumi, per dedicare il prodotto all’esportazione. Così, in sequenza, sono andati in crisi il mercato dei mutui e del credito, il mercato immobiliare e da ultimo l’economia reale. E in Cina è partita l’inflazione.

Anche se osserveremo rimbalzi e fasi di ripresa, non credo che l’economia si possa riprendere in modo duraturo sinché non aggiusteremo questo squilibrio di fondo. E le politiche americane, come osserva l’economista Stephen Roach, dovrebbero aiutare l’aggiustamento, anziché perpetuare al massimo il vecchio modello, ad esempio con pacchetti fiscali di stimolo al consumo.

L’Europa, nel quadro globale, presenta un caso diverso: sostanzialmente in equilibrio e fuori dagli sbilanci mondiali, se pure con scarsa crescita e scarso investimento, si è illusa di essere ai margini dei problemi. Questo apparente isolamento è durato meno di tre trimestri, per lasciare rapidamente spazio a crisi bancarie e a un inizio di recessione. Le spiegazioni sono molteplici: con mercati finanziari globali anche la più piccola banca di provincia può avere in portafoglio prodotti tossici; con l’inflazione globale si comprime il potere d’acquisto in ogni Paese; e con il rallentamento globale che si delinea nessun’area può restare immune.

La soluzione europea non sta dunque nell’isolarsi dall’economia mondiale, nemmeno se ciò fosse possibile. Sta nel contribuire con idee e soluzioni all’aggiustamento. Si discute spesso di una nuova Bretton Woods, di un grande accordo su scambi internazionali, valute e capitali. L’Italia, che l’anno prossimo avrà la presidenza del G8, dovrebbe mostrare che il regime di oggi è insostenibile e che occorre tornare verso un maggior equilibrio reale e finanziario in grado di promuovere la crescita duratura. (la Stampa)

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