giovedì 27 agosto 2009

Berlusconi: Ghedini, brani libro Latella privi di fondamento.


Roma, 27 ago. (Adnkronos) - ''Alcuni brani di un libro di Maria Latella, apparsi quest'oggi sul sito di Repubblica e ripresi da molti quotidiani esteri, sono destituiti di ogni fondamento, totalmente inveritieri, scollegati da ogni fatto reale e frutto di valutazioni basate su erronee informazioni. Si diffida percio' chiunque dal riprendere o diffondere tali notizie''. Lo sottolinea in una nota Niccolo' Ghedini (Pdl), avvocato del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
"A tutto cio' -continua Ghedini- si aggiunga l' intervista a Tinto Brass le cui domande e risposte appaiono palesemente diffamatorie e per cui saranno esperite le azioni giudiziarie piu' opportune. Ancora una volta - conclude- si cerca con il gossip, nella totale carenza di serie argomentazioni politiche, di screditare, ancorche' senza successo visto il gradimento dell'elettorato, il presidente Berlusconi".

35 commenti:

Anonimo ha detto...

scopare oooh ohhh
cantare con Noemi al microfono ohhh ohhh ohh

nel blu scopavo di più
felice di trombare laggiù

PAPI ti presento mia figlia cosa mi dai in cambio?

Anonimo ha detto...

De Benedetti e Berlusconi

I giornali della scuderia debenedettiana non hanno mai risparmiato attacchi a Silvio Berlusconi, tempestandolo, da ultimo, con dieci domande sul virtuoso tema di bulli e pupe. La scuderia berlusconiana, che comprende il quotidiano che oggi pubblica questo articolo, è, solitamente, meno ossessiva e tenace, ma trova ora interessante occuparsi di Carlo De Benedetti. Spiacerebbe che il derby, fra il cavaliere e l’ingegnere, giocato per la gioia delle rispettive tifoserie, finisca con l’oscurare il senso del campionato. In questa sfida c’è un pezzo rilevante della nostra storia. So di avventurarmi in una duplice bestemmia, ma Berlusconi, in fondo, è un De Benedetti vincente. All’inizio la sfida non era fra loro due, ma fra De Benedetti ed il capitalismo italiano post bellico, costruito attorno ai patti di sindacato ed alla regia di Enrico Cuccia. Un capitalismo con pochi capitali, con Cuccia che difendeva i padroni dalla politica e le aziende dai padroni ladri.
Mentre il giovane Silvio tirava su case e s’illuminava di teleschermo, domandandosi che altro si potesse fare con i cavi di cui erano dotate le abitazioni costruite, il giovane Carlo già giocava in grande, sperando di fregare gli Agnelli. Se ne accorsero e lo mandarono via. Ebbe in cambio dei soldi, che gli servirono a continuare l’avventura, in Olivetti. Fece un gran lavoro, condendolo con visioni accattivanti e scenari suggestivi. Perché De Benedetti è un geniaccio, cinico ed intuitivo. Mentre Silvio spendeva per difendere Indro Montanelli, cui il Corriere della Sera sembrava in mano ai comunisti, Carlo aveva ben fiutato il vento e capito che le cose migliori si potevano fare prendendo per mano i compagni del Pci e spiegando loro come si sta al mondo. Repubblica fu la creazione vincente, capace di condizionare la sinistra ed allettare quanti, da veri fessi, ci tenevano a far la parte degli intelligenti.
Veniamo ad alcuni fatti, perché grazie alle suggestioni indotte da un plotone di commentatori modello Ikea, che costano poco e ti montano quello che vuoi, s’è diffusa l’impressione che Berlusconi sarà pure bravo, ma, insomma, si fa strada a suon di stecche ed amicizie politiche. Mica come De Benedetti! Davvero?
Geronimo ha ricordato la gara per la prima concessione di telefonia cellulare alternativa a Tim, raccontando che Ciampi consegnò la vittoria a De Benedetti. Vero. I particolari, però, sono interessanti. I concorrenti non erano due, ma tre. C’era un consorzio dove si trovavano Fiat e Fininvest, ma Agnelli ci credeva poco, e, del resto, quando poi gli regalarono Telecom Italia fece come peggio non si poteva, mentre Berlusconi, al momento culminante della gara, si avviava verso Palazzo Chigi.

Anonimo ha detto...

Gareggiava anche Pactel, un operatore di telecomunicazioni, statunitense, attorno al quale si era coagulata una cordata d’imprenditori italiani, con il nome di “Pronto Italia”. Forse erano i migliori (il lettore sappia che ero loro consulente), ma privi di padrini politici, e a vincere doveva essere De Benedetti. Uniamoci, propose loro. Pensate che bella gara: un candidato si fa fuori da solo e gli altri due si alleano. Il trionfo della trasparenza.
Nel 1997 il governo Prodi vende il controllo di Telecom Italia, per 11,82 miliardi di euro. Quattro anni dopo una società pubblica, l’Enel, rientra nel settore delle telecomunicazioni, acquistando Infostrada, che offre di pagare 11 miliardi. Abbiamo barattato un grattacielo per un fienile. Infostrada conteneva la rete delle Ferrovie dello Stato che, come Geronimo ha narrato, era stata comprata da Olivetti nel 1977, per 700 miliardi di lire, pagabili in quattordici anni, e rivenduta l’anno successivo, incassando 14 mila miliardi di lire, sull’unghia. Lorenzo Necci, allora amministratore delle Ferrovie, raccontò le pressioni politiche subite, da Giuliano Amato e Massimo D’Alema, affinché quella rete non venisse venduta al miglior offerente, ma all’unico autorizzato: De Benedetti.
Se mettete assieme i fatti qui riassunti, aggiungendo quelli che ciascuno ricorda e conosce, converrete che l’idea secondo la quale è in corso, da anni, un conflitto fra buoni e cattivi, onesti e disonesti, ammanicati e liberi, può albergare solo nella testa di gente che è bene cambi spacciatore.
La realtà è che De Benedetti sfidò per primo i salotti, ma Berlusconi li ha vinti. De Benedetti ha voluto contare in politica, Berlusconi l’ha fatta, vincendo. De Benedetti ha voluto la tessera numero uno di un partito, Berlusconi se n’è fatto uno dove conta solo la sua tessera, che manco ritira. De Benedetti voleva essere il più ricco, Berlusconi lo è diventato. De Benedetti voleva avere dalla sua la sinistra, per modernizzarla, Berlusconi ebbe dalla sua quella di Craxi, perché già moderna. Il tutto mentre i regnanti di un tempo si ritrovano a litigare in famiglia, contando poco in azienda e rinfacciandosi vari reati societari e fiscali. E, per favore, non si dica che queste cose si trovano qui scritte perché il papiro è berlusconiano, anzi, dovrebbero essere scritte, a caratteri cubitali, propri sui fogli della sinistra, in modo da porre le premesse della vittoria, non quelle del ridicolo.

www.davidegiacalone.it

Anonimo ha detto...

Si riapre il caso Sme De Benedetti nel mirino dei pm

Si riapre l’affaire Sme. Due Procure, Salerno e Nocera Inferiore, indagano in gran segreto laddove Milano e Perugia non vollero scavare in profondità. Ovvero sui misteri irrisolti dell’appalto Sme e della tentata svendita a Carlo De Benedetti da parte dell’amico Romano Prodi, all’epoca presidente dell’Iri. Più in particolare i pubblici ministeri Vincenzo Senatore ed Elena Guarino, supportati dalla Guardia di finanza, stanno ultimando gli accertamenti sul fallimento pilotato, da parte di un «potere economico-finanziario» in corso di definizione, della società Cofima risultata inizialmente vincitrice della gara per l’acquisizione del colosso alimentare, società che non doveva essere dichiarata insolvente poiché godeva di ottima salute tra patrimonio immobiliare e ingenti fidi. Sotto inchiesta sono dunque finiti i maggiori istituti di credito nazionali, noti banchieri e svariati funzionari. Lungo l’asse Salerno-Nocera al momento sarebbero decine gli indagati per reati che svariano dalla truffa all’estorsione fino all’usura. Una volta definito il capitolo bancario, fanno sapere fonti investigative, si passerà automaticamente a scandagliare tra i mandanti eccellenti che avrebbero ispirato l’azione concentrica dei colossi del credito finalizzata a colpire Giovanni Fimiani, patron della Cofima, l’imprenditore campano che con la sua maxi-offerta sbaragliò la concorrenza (in primis la Buitoni di De Benedetti, quindi la Iar del trio Berlusconi, Ferrero, Barilla, poi Conservitalia delle coop bianche e quindi la Lega delle Cooperative). De Benedetti, e dunque Prodi, sono destinati a tornare nel mirino. Anche perché il lavoro delle due Procure prende il la dalle conclusioni di una precedente perizia tecnica stilata nel 1998 dai consulenti dell’ex pm salernitano Raffaele Donnarumma (trasferito a Castellamare di Stabia quando si apprestava a chiedere il rinvio a giudizio anche per Prodi) che portavano il magistrato a concludere come «tutto induce a ritenere concreta l’ipotesi di un preciso disegno criminoso ordinato da ignoti e teso a eliminare Fimiani quale pericoloso concorrente in gara per l’aggiudicazione della Sme (...). Fimiani ha evidentemente rotto equilibri delicati e violato santuari finanziari tanto che non appare una fortuita coincidenza del concentrarsi, nello stesso periodo, di inique attività contro l’imprenditore».
Il 19 ottobre 1999 sempre il pm Donnarumma faceva presente, ai colleghi di Perugia presso i quali il procedimento veniva in quei giorni trasferito, che «dalle indagini e dalla consulenza svolta presso accessi e acquisizioni in numerosi istituti bancari, risultavano provate molte delle doglianze e delle circostanze denunciate dal Fimiani che avevano portato al fallimento delle sue aziende». A cominciare dalla capacità finanziaria di Fimiani, incredibilmente dichiarato fallito «attesa la dimostrata disponibilità dell’istituto di credito bancario tedesco che mise a disposizione la somma di un miliardo in marchi tedeschi», pari a 700 miliardi di lire.

Anonimo ha detto...

Come se non bastasse il pm osservò che «da numerosi fatti accertati emergevano comunque elementi che portavano alla necessità di completare le indagini sulle complesse vicende per accertare chi avesse beneficiato delle attività illecite poste in essere contro Fimiani». Già, chi ne aveva beneficiato? Per scoprirlo il pm Donnarumma fece presente ai colleghi umbri di aver dato incarico al consulente tecnico, in data 26 novembre 1998, di svolgere ulteriori accertamenti per verificare «il danno reale arrecato alla Cofima» e per scoprire se fra le cause del dissesto vi potesse essere una responsabilità di vari soggetti interessati all’operazione, fossero politici o imprenditoriali: «Ho chiesto al consulente – scriveva l’allora pm di Salerno - di verificare se dette attività dell’Iri abbiano procurato vantaggi a terzi e/o soggetti fisici nazionali e o esteri», specificando che l’indagine «su una delle più complesse operazioni di privatizzazioni mai avvenute in Italia» si era svolta sullo sfondo di «fatti e avvenimenti, interessanti attività commerciali nonché personaggi finanziari e politici del massimo rilievo nazionale ed internazionale».Per la cronaca, il suddetto consulente tecnico non è stato praticamente mai contattato dalla Procura di Perugia e mai sono stati utilizzati, integrati e sviluppati i suoi accertamenti. Undici anni dopo, altri magistrati di altri distretti giudiziari li hanno invece ritenuti meritevoli di approfondimento, con ciò sconfessando l’azione dell’allora titolare dell’inchiesta perugina su Prodi e la Sme, Silvia Della Monica, diventata recentemente senatore del Partito democratico.
Proprio a Perugia l’imprenditore Giovanni Fimiani nel 2002 depositò un esposto di fuoco nel quale snocciolava cifre, perizie e documenti per dimostrare come il fallimento «pilotato» in suo danno venne realizzato «con un’operazione speculativa realizzata con i metodi classici della criminalità organizzata» attraverso «uno stratagemma posto in essere in maniera del tutto ingiustificata da una banca dietro la quale operava uno sponsor di De Benedetti». Dichiarato fallito ingiustamente, e pure perseguitato mediaticamente. Lo aveva ripetuto a verbale lo stesso Fimiani: «Grazie a quanto da noi messo a nudo nelle sedi competenti sulle palesi irregolarità riscontrabili nel pre-contratto Prodi-De Benedetti che produceva danni immensi per lo Stato, improvvisamente è cominciata una campagna denigratoria, vendicativa, sapientemente orchestrata da chi aveva interesse a togliere di mezzo la società che aveva fatto l’offerta più alta, smascherando, carte alla mano, l’accordo al ribasso» vantaggioso solo per la Buitoni di Carlo De Benedetti. A fronte del vergognoso patto (privato) fra il Professore e l’Ingegnere per la svendita della Sme a soli 497 miliardi, fu provvidenziale l’azione di Fimiani che si aggiudicò la gara (stavolta pubblica) per 620 miliardi di lire.
Undici anni dopo la partita sulla Sme si riapre. Nel mirino le banche-strozzine e i mandanti occulti collegati. Contattato dal Giornale, Giovanni Fimiani risponde con un secco no-comment: «Quello che avevo da dire l’ho detto nelle sedi competenti. Addio». Anzi, arrivederci.

Anonimo ha detto...

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pipino ha detto...

Perché non mettete lo splendido scoop di Feltri sul direttore dell'Avvenire?

P.s: voi che siete così vicini all'Immmenso Onnnipotente Presidente del Consiglio mi potreste dire che pastiglia usa.
Io uso il Viagra ma ho già quarant'anni e non riesco nemmeno a soddisfare mia moglie.
Lui, Sua Grazia ne soddisfa a plotoni!
Che invidia!!!
Cos'é che usa?

Anonimo ha detto...

se hai quarant'anni e scrivi queste puttanate qua l unico posto adatto a te è un ospedale psichiatrico o un manicomio.

Anonimo ha detto...

Qui si va avanti a minacce di querele e querele, ovvero tutto in tribunale che poi si ricusa e si sceglie quello di proprio gradimento e alla fine si insabbia tutto.
Aldilà del patto tacito fra Berlusconi e la consorte, CI VOGLIAMO SVEGLIARE E CAPIRE CHE C'HABBIAMO UN PUTTANIERE COME PRESIDENTE DEL CONSIGLIO? eehh?? SVEGLIAAAA PECORONIIIIIIIIIIIIIII!

Anonimo ha detto...

Da quando il fisco indaga sulle denunce di Margherita Agnelli a proposito del presunto miliardo e mezzo nascosto in Svizzera dal padre Gianni, gli house organ di casa Berlusconi e dintorni hanno scoperto all’improvviso gli orrori dell’evasione. Dal Tg5 al Giornale, da Libero a Panorama al Riformista, è tutto un gongolare: evviva, l’Avvocato era peggio del Cavaliere. Sono soddisfazioni. In verità Agnelli non risulta aver corrotto giudici o testimoni, né ospitato mafiosi in casa sua e pare non sia mai stato capo del governo. Ma sono dettagli. Sul suo cadavere s’è subito avventato Vittorio Feltri, appena tornato al Giornale, con la leggiadria che gli è propria: “furfante”, “peccatore”, “cattivo maestro”, “modello per gli evasori”, “derubava gli azionisti” e “il popolo”. Tutto questo Agnelli, mentre quell’educanda del premier si limita - scrive il nobiluomo bergamasco - a “toccare il sedere a una ragazza cui va a genio farselo toccare”. Ergo: “Se un simile sospetto (le evasioni agnelliane, ndr) gravasse sulla testa di Berlusconi, i giornali non si occuperebbero d’altro”, perché “i soldi sottratti al fisco sono un danno allo Stato e ai cittadini”.

Purtroppo, un simile sospetto grava eccome sulla testa bitumata del suo padrone, imputato al Tribunale di Milano per aver sottratto a Mediaset 280 milioni di euro (appropriazione indebita), non averci pagato le tasse (evasione per 60 milioni) e aver falsificato i bilanci, ma improcessabile per Lodo ricevuto. Eppure i giornali, a cominciare dal suo, parlano d’altro. Come a metà degli anni 90, quando la Fiat era alla sbarra a Torino per fondi neri e tangenti ai partiti. Faceva eccezione Il Giornale di Feltri, che seguiva appassionatamente il processo. Ma per difendere dai giudici cattivi l’azienda di colui che oggi chiama “furfante”: a raccontare le udienze per l’organo feltriano erano la moglie del capufficiostampa Fiat e il pio Renato Farina, non ancora passato ai servizi segreti.

Ecco Betulla nel ’95 alle prese con l’interrogatorio di Cesare Romiti, puro rapimento mistico: “Ho visto Romiti nell’istante di eternità in cui ha varcato la porta degli uffici giudiziari e si è trovato nel sole del lavoro… con gli occhiali che dicono forza e la mascella quadrata del Colleoni rinascimentale… E’ un nonsenso. Mentre l’economia rialza la testa, ci si rivolge contro la gran madre di tutte le aziende in ripresa, cioè la Fiat…Come fa a saper tutto chi (Romiti, ndr) è alla testa di 1103 imprese, di cui 4 o 5 hanno pagato tangenti? A Roma i giudici han ragionato e prosciolto. Ma a Milano, ma a Torino?… Speriamo si cominci a ragionare e la si smetta, per togliere le macchie dal pavimento, di picconare la casa in cui viviamo tutti”. Feltri completava l’opera con titoloni del tipo: “I giudici spendono 14 miliardi per incastrare Fiat e Fininvest. E per i delitti più impressionanti non ci sono mezzi”. Era il 1996. Chissà cos’è cambiato, da allora a oggi, per l’impavido direttore del Giornale. A parte il fatto che Agnelli è morto, s’intende.

Anonimo ha detto...

Queste furbate non dimostrano un bel nulla .
ricordiamoci le parole di Gramsci

"Il trinomio Agnelli-Gualino-Ponti, col complesso di forze economiche rappresentate—la Fiat, la Snia viscosa, la Sip—dirige la più potente organizzazione capitalistica che esista in Italia. […] questa potentissima coalizione finanziario-industriale è naturalmente anche una potentissima macchina politica. La politica serve a creare le condizioni favorevoli per la prosperità delle speculazioni, e le speculazioni riuscite forniscono i milioni necessari per alimentare e mantenere l’influenza politica"

Sappiamo inoltre che de benedetti-agnelli si incontrarono nel 91 , quando il partito comunista stava per espellere rifondazione, di fatto per portare il centrosinistra al potere attraverso mani pulite.

Con la scusa dell antiberlusconismo qui si vuole
coprire il vero padrone del capitalismo e edella poloitica italiana , ovvero Agnelli .

Anonimo ha detto...

I miracolati dell’Avvocato che neppure lo difendono

Susanna Agnelli ha chiuso una dinastia. La sua morte ha segnato la fine di un'epoca, dopo le figure di Gianni e di Umberto, lei è stata l'ultima a rappresentare pubblicamente, storicamente, carismaticamente la famiglia. Gli eredi esistono, resistono, occupano ruoli importanti ma, oltre ad avere altri cognomi, percorrono altri itinerari, si sono sparpagliati, parenti, affini, e amici.

Dopo la scomparsa di Susanna Agnelli è scattato il libera tutti, sono saltate le marcature, il Paese ha voluto confermare la propria tendenza a passare da piazza Venezia e a piazzale Loreto, dunque Gianni Agnelli, gli Agnelli, sono diventati l'orso del luna park, tre palle cento lire, avanti il prossimo.

La gente mormora ma la corte resta in silenzio, il silenzio degli agnelli si potrebbe dire, traducendo alla lettera il titolo del film del 1991 di Jonathan Damme «The silence of the lambs» che fu così in spagnolo («El silencio de los corderos»), in francese («Le silence des agneaux») ma che, per motivi di mercato o di riverenza, diciamo così, da noi venne riadattato ne «Il silenzio degli innocenti».
agnelli romiti tribuna juve

Il silenzio di chi ricevette benefici e privilegi dal senatore e che oggi non apre bocca nel tentativo di tutelarne l'immagine, di rispettarne comunque la memoria. Il silenzio dei suoi parenti, da John che ha ricevuto in diretta l'eredità della Fiat ma si tiene alla larga dalle beghe che riguardano sua madre e il patrimonio del nonno;

a Lapo che concede un'intervista a Jovanotti ma si dimentica di suggerire a tutti, a se stesso, una riflessione sulle ultime vicende di casa. Il silenzio dei direttori de La Stampa che sono passati da Torino e dal sito hanno ricevuto denari e luce, potrei dire di Ezio Mauro che due domande, soltanto due, potrebbe porle a se stesso, dov'ero dal millenovecentonovantadue al millenovecentonovantasei e dove sono? Via Marenco? Corso Marconi?

Potrei dire di Marcello Sorgi che narrava storie di mafia all'Avvocato curioso di sapere tutto sui mammasantissima e che si illuminò d'immenso quando il Direttore della Stampa gli presentò Giovanni Falcone. Che cosa ha da dire Sorgi, oggi? Potrei citare Paolo Mieli al quale Agnelli affidò l'officina di un nuovo giornalismo, una specie di mandato per cambiare passo e abitudini in un'Italia che si prendeva a martellate con tangentopoli.


Si potrebbe chiedere un chiarimento al silenzio di Gad Lerner impegnato nella protezione delle minoranze ma anche delle vacanze con De Benedetti; e, appunto, il silenzio dello stesso Ingegnere impegnato, non soltanto con Lerner, ma con il trasloco in Svizzera, e ancora il silenzio di Cesare Romiti che ha assistito in piedi all'officio funebre di Gianni Agnelli ma resta seduto oggi, mentre al posto dell'odore di incenso si respira l'aria e altro sputati dal ventilatore contro l'ex datore di lavoro di Cesarone.

Resta silenzioso Luca Cordero di Montezemolo con la testa alla formula 1 e al prossimo gran premio in politica o, ancora, agli affari con Della Valle. Resta con la bocca cucita e la penna scarica Furio Colombo che fu presidente di Fiat Usa ma oggi non ha tempo e voce furiosa per dire due cose, di sinistra ma due cose, su chi gli aveva fatto scoprire l'America e altri continenti.


Non parla Jas Gawronsky che dell'Avvocato aveva lo stile, l'eleganza e anche tentativi di dizione oltre a frequentazioni di salotto. Non tralascio nell'elenco il banchiere Bazoli, dormiente come certi conti corrente. L'afonia è arrivata prima dell'influenza suina, è malattia subdola, vigliacca, non sono disponibili in commercio farmaci in grado di annientarla.
Paolo Mieli Umberto Pizzi - Copyright Pizzi

Anonimo ha detto...

Ci ha pensato un uomo solo, al comando, Gianni Riotta, ha provato a tenere lontano le malelingue sui fondi neri, sul tesoro nascosto, sulle ombre fiscali, una voce nel deserto mentre tutt'intorno, politici compresi, anzi prima di tutti quelli dell'epoca dell'Avvocato i contemporanei del senatore, da Giulio Andreotti in giù, hanno fatto finta di nulla, omertosi, al massimo mormorando nei corridoi, dopo aver sbirciato tutto il possibile, letto e riletto, documenti e scoop, dandosi di gomito per dire «io lo sapevo già», tutti tremendamente indaffarati tra il contenzioso sul dialetto, i capricci sessuali del premier, i videogame della Lega, i respingimenti e le perdonanze.


Ecco perché il silenzio degli innocenti era una traduzione fasulla. Innocenti? Non era una casa automobilistica? Morta anche quella.

Anonimo ha detto...

L’eredità dell’Avvocato alla signora De Benedetti

«Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che parlano di donne e quelli che parlano con le donne». Gianni Agnelli, pronunciando queste parole, già sapeva a quale gruppo era iscritto, dalla nascita. In verità lo sapevano le donne da lui frequentate e oggi, con il testamento aperto e il tesoretto nascosto, mille sono le voci, mille le insinuazioni e diecimila le sospettate. Quando l’avvocato dell’Avvocato, al secolo Franzo Grande Stevens, suggerì a Margherita de Pahlen, figlia ed erede del succitato, di rinunciare alla contestazione delle donazioni fatte dal presidente della Fiat a persone estranee all’asse ereditario, la domanda sorse spontanea: e chi sono costoro? Donne, secondo lo stesso Grande Stevens, anzi amanti che in francese si traduce maitresses, non con il significato volgare del nostro dire. Amanti e non fidanzate, essendo l’Avvocato già consorte e soprattutto ritenendo, con perfidia da repertorio, che «ci si innamora a venti anni, poi si innamorano soltanto le cameriere». La belle epoque di Gianni Agnelli coincise comunque con la frequentazione di giovani signore, soprattutto attrici, femmine dello spettacolo, alcune di fascino discreto, come Monica Guerritore dalla quale lo dividevano trentasette anni (lei 18enne, lui 55enne) ma non certo il piacere della vita e la vita di piacere. Secondo i pettegoli e i paparazzi dell’epoca, la Guerritore, tenendo fede al proprio cognome, aveva strappato Agnelli ai desideri di Dalila Di Lazzaro, friulana spettacolare nello sguardo e in tutto quanto. Erano gli anni ruggenti vissuti a Roma, tra la dimora di XX Settembre e il Grand Hotel, tra Dominque Bosquerò, che una notte si calò da una finestra dell’albergo, e Anita Ekberg che, sentendosi tradita da una attricetta francese, liquidò Agnelli che da Tokyo l’aveva destata di notte, mentre era coricata con un regista nostrano: «Tu non ama me, tu maiale italiano, io non ti ama più», buttò giù la cornetta del telefono e mandò a quel paese, il Nostro ma anche, direbbe Veltroni, quell’innocente regista che gli stava di fianco: «Tu italiano, tutti stronzi». Erano anni belli e allo stadio Comunale, ex Benito Mussolini, di Torino, l’Avvocato si presentava puntualmente in tribuna d’onore per assistere alle partite della sua Juventus («Qualcosa per la domenica...» aveva definito così la squadra di famiglia). Non era mai solo, lo accompagnavano amici, tifosi, cortigiani e soprattutto donne bellissime, Silvia Monti era una di queste, era la più solare, affascinante, bionda, fresca di set cinematografici. Era il momento della svolta, a ventisei anni, la veneziana signorina Cornacchia aveva scelto il nome d’arte Monti per interpretare i film che si intitolavano Il domestico, Finché c’è guerra c’è speranza, Metti una sera a cena, Una lucertola con la pelle di donna, Racconti proibiti... di niente vestiti, Il corsaro nero, Il clan dei calabresi ma le attenzioni di Gianni Agnelli erano da oscar, la sua fama, il suo fascino non avevano uguali, Silvia Monti, secondo leggenda metropolitana, entrò così nel cuore dell’Avvocato che ricevette in dono Agneta, la magica barca con le vele di un marrone scuro vissuto, due alberi, legno e ottoni, il cui nome si prestò al gioco, Agne(lli)-(Margheri)ta? In verità si trattava del nome della figlia dell’architetto navale svedese che aveva disegnato l’imbarcazione. La leggenda coincise con le nozze della signorina Silvia Cornacchia Monti con Luigino Donà delle Rose, inventore, fondatore, creatore di Porto Rotondo, con tutti gli annessi e connessi. La traversata si è conclusa con il successivo matrimonio con Carlo De Benedetti. Va da sé che altre figure sono apparse negli anni a fianco dell’Avvocato, si malignava su Sandra Monteleone, reduce da Luca di Montezemolo, si sussurrava di una biondina vicina di casa, consorte presenzialista di un alto dirigente del gruppo Ifi, del resto ci sono uomini che parlano di donne e uomini che parlano con le donne ma soprattutto donne che vogliono stare e fare con certi uomini.

Anonimo ha detto...

Ora si gioca a individuare la, anzi le vincitrici del superenalotto agnelliano, a completare l’identikit delle favorite di quella donazione che spetta alle maitresses dell’Avvocato. Considerati certi cognomi, certe carriere, certe esistenze non proprio sofferte e di margine, si potrebbe infine ritenere che, anche nel piacere, Gianni Agnelli abbia fatto del bene. O no?

Anonimo ha detto...

C’È ANCHE EXOR NEL MIRINO DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE CHE INDAGA SULLA PRESUNTA EVASIONE FISCALE DI CIRCA 1,5 MILIARDI - IL FISCO DEVE FAR PRESTO. C’È INFATTI LA SPADA DI DAMOCLE DEL 15 SETTEMBRE (DOPODICHE È POSSIBILE AVVALERSI DELLO SCUDO FISCALE)…

Rosario Dimito per Il Messaggero

C'è anche Exor nel mirino dell'Agenzia delle Entrate che da giugno ha avviato indagini sul pianeta Agnelli a seguito della denuncia fatta da Margherita promuovendo un processo civile: mio padre aveva 1,463 miliardi, ditemi dov'è finito questo tesoro che mi è stato tenuto nascosto nel 2004 quando è stata fatta la divisione ereditaria con mia madre Marella.

E il fantasma delle investigazioni in corso da parte degli uomini di Attilio Befera aleggiava ieri nel consiglio della finanziaria di proprietà della Giovanni Agnelli Sapaz e che possiede il 30% del Lingotto. Consiglio che ha licenziato il bilancio a giugno dove pesano i conti della Fiat: perdita di 261,9 milioni contro un utile a giugno 2008 di 301,3 milioni.


Lo scostamento di 563,2 milioni è imputabile alla riduzione dei risultati delle partecipate (- 496,2 milioni), e ad altre componenti. Ma più che ai conti l'attenzione generale è stata polarizzata dai sospetti che su alcuni dei personaggi di Exor (dal presidente onorario Gianluigi Gabetti al presidente John Elkann) possa materializzarsi l'accusa di essere coinvolti a vario titolo nella presunta evasione fiscale di circa 1,5 miliardi davanti all'Erario.

L'intera attività della task force di Befera è avvolta dal massimo riserbo e le esplorazioni si dipanano in lungo e in largo dall'Italia all'estero fino ai paradisi fiscali seguendo i rivoli delle destinazioni di queste somme.

Gli ispettori del fisco devono far presto pur dovendosi muoversi in uno spazio sconfinato. C'è infatti la spada di damocle del 15 settembre, termine entro il quale l'Agenzia delle Entrate deve - se emergono rilievi di evasione fiscale - promuovere un accertamento. Cioè avviare il procedimento di contraddittorio con le controparti accusate di non aver denunciato questa somma.
margherita agnelli costume vanity

Da metà settembre, però, è possibile avvalersi dello scudo fiscale, la normativa varata dal governo per regolarizzare ricchezze detenute oltre frontiera. Ecco perchè è una corsa contro il tempo per risalire al quadro RW, cioè il documento che Gianni Agnelli avrebbe dovuto compilare per denunciare all'Erario il possesso di soldi all'estero. E l'indagine delle Entrate punta a ricostruire l'origine di questi 1,5 miliardi e dopo la spartizione fra gli eredi, capire che fine hanno fatto i soldi.

Exor è una holding nata ad ottobre scorso dalla fusione di Ifil in Ifi cui è stato dato il nome di una società sulla quale nel '98 la Sapaz ha lanciato un'opa. Secondo la denuncia di Margherita l'offerta servì per far affluire liquidità ad alcune società off shore azioniste: dietro alcune di queste, c'era l'Avvocato. E siccome i "genitori" della Exor di oggi sono Ifi e Ifil che all'epoca erano in qualche modo coinvolte, ecco perchè è stato acceso il faro. Che ha illuminato anche il cda di ieri.

Anonimo ha detto...

Il mistero di casa Agnelli: chi comanda alla Fiat?



Di chi è la Fiat? Questa domanda inquietante discende dal fatto che la vicenda dell’eredità di Gianni Agnelli che ne deteneva la quota di controllo, passata tramite complessi giri esteri al nipote John Elkann, sta diventando una vicenda kafkiana, in cui più si leggono le carte disponibili, meno si capisce. Salvo una cosa chiara, anzi lapalissiana, ossia che Margherita Agnelli, un tempo sposata Elkann e ora contessa de Pahlen, dal nome del nuovo marito, contesta la successione ereditaria, in cui ritiene di essere stata ingannata. E quindi contesta tutta la situazione attuale, dell’eredità in questione.

Sino a poco tempo fa, la tesi principale di Margherita, una signora molto riservata, molto religiosa che concepisce il matrimonio come una severa missione familiare, tanto da avere messo al mondo otto figli, nelle due legittime unioni, era che le era stata nascosta una parte del patrimonio del padre, che essa adorava e da cui pensava di essere ricambiata. E che pertanto l’accordo, definito tombale, con cui nel 2004 aveva accettato 583 milioni, provenienti dalle Isole Vergini, come quota ereditaria, rinunciando a ogni altra pretesa, comprese quelle che danno diritto a quote di controllo di società che controllano Fiat, sarebbe nullo perché l’asse ereditario che era stato posto alla base di tale accordo, era gravemente incompleto. In altri termini era stata ingannata. Ma si trattava di una affermazione e di una pretesa, ancora da dimostrare. Mentre la vertenza, ormai nelle mani di avvocati andava avanti, Margherita ha anche ricevuto, da un mittente sconosciuto, tramite la banca Morgan Stanley 109 milioni di euro, come invito a lasciar perdere la controversia. Ma un po’ perché la contessa de Pahlen non ha desistito, un po’ perché il fisco di Tremonti ci vede e ci sente, anche con i big, a differenza di quello precedente, molto più occupato con i personaggi di seconda e terza schiera, è stato individuato un tesoro nascosto di Gianni Agnelli nei meandri delle banche estere di paradisi fiscali. E ora, anche se tutto è confuso e kafkiano, è chiaro che Margherita aveva ragione a sostenere che le era stato occultato una parte dell’asse ereditario del padre. E ciò comporta che l’accordo «tombale» è nullo. Il sepolcro in cui esso doveva esser sepolto per sempre è stato scoperchiato. Ed era un sepolcro ipocrita.

Ma esiste una volontà testamentaria dell’avvocato Gianni Agnelli? Dai documenti resi disponibili non si riesce a capirlo. E si legge, invece, che egli aveva una volontà, manifestata oralmente e con testi, non definitivi, ma rilevanti, consistente nel concentrare nel nipote John Elkann la quota di controllo della società in accomandita per azioni (in gergo Sapaz), che a sua volta controlla il gruppo di cui fa parte la Fiat. Ma nel labirinto oscuro di questa lettura, c’è per fortuna un fascio di luce. Costituito dal documento di accordo con cui Margherita ebbe 583 milioni più il bonus di 109 milioni successivo, per tacitarla. Se ci fosse una carta testamentaria chiara, se non ci fossero queste società possedute su conti in banche off shore (cioè non regolamentate) detenuti da banche serie come Morgan Stanley, quale mezzano, non ci sarebbe bisogno di stilare «compromessi» di 583 milioni e non ci sarebbe bisogno di rafforzarli con assegni di origine ignota di 109 milioni. Se le carte testamentarie fossero chiare, ossia se si potesse dire «carta canta», il discorso ereditario sarebbe concluso. Rimarrebbe aperta una rognosa faccenda di evasione fiscale internazionale, ma si saprebbe se Margherita Agnelli de Pahlen, unica legittima erede di Gianni, a seguito del tragico suicidio del fratello Edoardo, ha ricevuto ciò che le spetta o no. Si saprebbe se è stata o no lesa una volontà testamentaria. O se con tale testamento è stata lesa la sua quota di legittima o se, mancando testamenti ed essendo nulle alcune donazioni in vita, per vizi legali, Margherita sia l’erede quasi unica di tutto, salvo l’usufrutto alla madre Marella, vita natural durante.

Anonimo ha detto...

Da società come Dicembre, come Alkyone, come Sapaz si dirama la catena di controllo di Fiat, la maggiore impresa industriale manifatturiera italiana, si dirama il potere di comando di Fiat in Confindustria, si dirama il potere del gruppo torinese in Mediobanca. Dipendono, da ciò, tre nobili giornali: La Stampa, Il Sole 24 Ore, il Corriere della Sera e una parte importante della nostra economia e del listino di Borsa. Non è una curiosità da salotto o da portineria e nemmeno da bar sport, quella che riguarda le catene di comando e controllo dell’impero finanziario e industriale del Lingotto e delle sue diramazioni. È una richiesta di chiarezza, che riguarda l’economia e la finanza nazionale.

Anonimo ha detto...

1 - DIECI DOMANDE AGLI AGNELLI
Maurizio Belpietro per Li bero
gabetti

Sono trascorsi dieci giorni da quando abbiamo cominciato a occuparci dei conti esteri di Gianni Agnelli. Come i lettori sanno, fummo i soli, il 13 agosto, a dare con grande evidenza la notizia che l'Agenzia delle entrate voleva vederci chiaro nella storia dei 2 miliardi di euro che l'Avvocato avrebbe accumulato nei paradisi fiscali.

Altri giornali preferirono liquidare il fatto con una breve in prima pagina, dimenticandosene immediatamente il giorno dopo. Quando ci accorgemmo della straordinaria discrezione con cui era stata trattata la questione, invitammo i colleghi a un sussulto di coraggio nei confronti di uno dei veri poteri forti di questo Paese, quello che ruota intorno alla sacra famiglia torinese.
xv22 maurizio belpietroMARGHERITA AGNELLI - Copyright Pizzi

Non perché volessimo fare i maestrini, semplicemente perché ritenevamo che un'indagine su 2 miliardi di euro di presunta evasione non fosse una bagatella da liquidare in poche righe, ma meritasse approfondimenti degni del caso. Dopo il nostro articolo, invece di rompersi, il silenzio è continuato. Sarà la calura estiva o molto più verosimilmente la paura lavorativa, che, in un periodo di crisi dell'editoria, fa temere a molti colleghi per il posto, sta di fatto che giornaloni e giornalini continuano a non fiatare.
Margherita e Gianni Agnelli

Il solo a rompere il silenzio è stato ieri Vittorio Feltri, su il Giornale. Benvenuto, caro Vittorio, fra quelli che hanno voglia di saperne un po' di più sulla vicenda. Che attenzione, non è solo una questione di tasse non pagate, anche se dalle dimensioni di una manovra tremontiana.

E neppure è semplicemente una banale lite per l'eredità, che vede una figlia contrapposta alla madre perché ritiene che le spettino più soldi oltre ai molti che ha già avuto. Sì, ci sono le imposte e perfino le beghe di famiglia, che fanno scendere gli Agnelli dal piedistallo cui certa stampa li ha issati per anni e li collocano fra noi, che quotidianamente smoccoliamo contro il Fisco e se ci riusciamo evadiamo un po' di tributi, litigando pure con i parenti quando ci sentiamo fregati.

Ma la storia non è solo questa. Più si approfondisce e più si capisce che il punto vero della faccenda è un altro.
Se avete seguito gli articoli di Gigi Moncalvo, che spiegano le tesi di Margherita, avrete notato che tutto ruota intorno alle decisioni prese subito dopo la scomparsa di Gianni Agnelli.


Scelte che di fatto incoronano alla guida del gruppo Fiat John Elkann, il nipote dell'Avvocato, tagliando fuori sua madre, che era la legittima erede, e i suoi fratelli. In pochi giorni egli diviene il padrone, perché gli viene donata la quota di maggioranza della cassaforte di famiglia.

Lui e solo lui è l'erede. Chi ha deciso tutto ciò? Gianni Agnelli, è la risposta. Ma Margherita non ci crede, perché non ci sono disposizioni testamentarie, perché a dire che John è l'erede sono due arzilli vecchietti che collaborarono con il padre, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens.

Il sospetto della figlia dell'Avvocato è insomma che i due abbiano favorito suo figlio, contando sulla giovane età e l'inesperienza per condizionarlo, o, addirittura, plagiarlo. Margherita è una pazza che s'inventa tutto, spinta da un marito, Serge de Pahlen, avido e rancoroso come lo descrivono gli uomini di casa Agnelli, oppure ha ragione e la legittima erede e gli altri figli sono stati scippati del controllo del più grande gruppo industriale del Paese?

Anonimo ha detto...

Ecco, questo è il punto. Sono balle quelle della figlia dell'Avvocato, sono invenzioni di una mente fervida che non si raccapezza più tra le decine di società finanziarie costituite all'estero, o davvero a Torino qualcuno ha sfilato il controllo dell'azienda alla discendente diretta di Agnelli?

Voi capirete che la domanda non è peregrina e, al di là degli interessi della signora de Pahlen, come con disprezzo la chiamano Gabetti e Franzo Grande Stevens, c'è anche un interesse giornalistico. Si tratta di un colpo di stato aziendale, con i colonnelli che hanno preso il potere dentro la Fiat, o di un colpo di sole dell'erede del signor Fiat?

Finora, di fronte alle contestazioni di Margherita, a Torino hanno mantenuto un riserbo assoluto, evitando i commenti, un po' come si fa quando un parente dà di matto.

Naturalmente capisco l'imbarazzo, raddoppiato dal fatto che si parli di questioni venali come i soldi. Ma io credo che una risposta ci voglia e che questa storia un po' di chiarezza la meriti. E' ora di far luce su sei anni di veleni e di dubbi e di mettere in chiaro cosa è successo quando ancora la salma dell'Avvocato era calda.

Chi ha deciso cosa e perché? Chi ha pagato Margherita, chi ha scelto di donare le azioni a John, quante fondazioni gestiscono il patrimonio dell'Avvocato e chi le controlla?

Per questo Libero ha preparato dieci domande che gira alla famiglia, alla vedova Marella, a John, a Gabetti e a Grande Stevens. Bastano poche parole chiare. Dieci risposte che ci aiuteranno a capire se c'è da chiamare la polizia

Anonimo ha detto...

LE DIECI DOMANDE DI LIBERO AGLI AGNELLI

Perché è stata creata una fondazione all'estero, la Alkyone, per gestire una parte del patrimonio dell'Avvocato e la figlia Margherita ne è stata tenuta all'oscuro?

Perché Margherita esce dalla Dicembre, la cassaforte di famiglia, nonostante lo zio Umberto Agnelli l'avesse definita "l'unica erede"?

Perché all'Avvocato è stato consigliato da Gabetti e Grande Stevens di escludere Edoardo e Giovannino Agnelli dalla Giovanni Agnelli Sapaz?
agnelli, 1986

Perché Marella ha tagliato i ponti con la figlia Margherita?

Perché le azioni della Dicembre vengono donate a John Elkan e i fratelli Lapo e Ginevra vengono esclusi?

C'è un documento che dimostra la volontà dell'Avvocato di designare John principale azionista della Dicembre?
agnelli umberto e suni

In base all'accordo del 2004 Margherita Agnelli riceve 583 milioni da un trust delle Isole Vergini che non risulta nella fondazione Alkyone. Perché e chi lo gestisce?

Quali altri trust o fondazioni gestiscono il patrimonio degli Agnelli?

Chi ha disposto il bonifico da 109 milioni a Morgan Stanley in favore di Margherita?

Quanti giorni trascorre Marella Agnelli in Italia? Più di 187?

Anonimo ha detto...

GIANNI AGNELLI ERA DAVVERO UN TIPINO ELEGANTE? COME NO, ERA ‘ESTERO-VESTITO’… - dal patrimonio dichiarato all’estero I controlli del Fisco sui redditi di MR. FIAT - Punto chiave (da scardinare) la fondazione Alkyone con sede in Lichtenstein - “MI OFFENDONO”: Il carteggio INFUOCATO Tra MARGHERITA E GABETTI E GRANDE STEVENS - CHI è L’EREDE dELL’AVV.? Gabetti glissa - Grande Stevens tassativo su John Elkann


Mario Sechi per Libero

C'è lo scudo e anche lo spadone. Il Fisco è armato di tutto punto per combattere l'evasione, il problema semmai è quello di scendere sul campo di battaglia. Il governo punta a far rientrare i capitali e nello stesso tempo colpire chi quei capitali li ha tenuti all'estero per non pagare le tasse in patria.


L'eredità Agnelli rischia di diventare un caso da manuale perché è finita sotto la lente dell'Agenzia delle Entrate dopo che la guerra in famiglia ha acceso un faro sui beni all'estero dell'Avvocato, che non erano compresi nel testamento.

Una sorpresa non solo per Margherita Agnelli, la figlia di Gianni, definita da Umberto «l'unica erede», ma anche per il Fisco. Due miliardi di euro detenuti oltreconfine sono una cifra enorme, una valanga di soldi che probabilmente senza la disputa familiare sarebbe rimasta nei caveau segreti di qualche paradiso fiscale e nelle scatole cinesi che l'ingegneria finanziaria progetta proprio a questo scopo. Ma così non è stato e oggi la macchina del fisco lavora a pieno regime per ricostruire i passaggi patrimoniali e reddituali dell'Avvocato e delle sue società.

La storia
Gianni Agnelli prima, e dopo la sua morte i suoi fedelissimi collaboratori Franzo Grande Stevens e Gianluigi Gabetti, curavano il patrimonio di una fondazione con sede a Vaduz, in Lichtenstein, la ormai celeberrima Alkyone. Il primo punto da appurare è se la fondazione sia un semplice castello di carte, tipico delle "estero-vestizioni".
agnelli suni e gianni

Il Fisco dovrà accertare preliminarmente questo punto. Agnelli non risiedeva certo all'estero, ma sulla verdeggiante collina torinese, era pure senatore a vita. Marella risiedeva in Svizzera, ma dalle carte dei professionisti la preoccupazione - come rivelato da Libero - era grande visto che si scrivevano memorie tecnico-giuridiche perfino sulla presenza in Italia dei cani e della servitù.

Dalla lettura delle carte e dalle dichiarazioni di Margherita Agnelli, dai memoriali, emerge che il patrimonio di Alkyone è nella piena disponibilità dell'Avvocato e dei suoi collaboratori italiani. La fondazione dunque non è autonoma, continua a dipendere dalle volontà degli stessi soggetti che l'hanno creata. Soggetti italiani.

È chiaro che il Fisco di fronte a una situazione di questo tipo ha il dovere di indagare e cercare la prova. Se l'Agenzia delle Entrate accerterà che siamo di fronte a un caso di "estero-vestizione" e dunque smonterà il castello di carta, a quel punto il passaggio sul Modello Unico dell'Avvocato e in particolare sul temutissimo quadro RW sarà automatico.

Anonimo ha detto...

La svolta
Uno snodo fondamentale di questa intricatissima matassa diventerà appunto il Modello Unico, l'evoluzione del 740, il tirannosaurus rex del Jurassic Park fiscale. Perché il quadro RW è così temuto? Fondamentalmente perché costringe il contribuente a esporre in pubblico - cioè allo Stato - i suoi beni e movimenti di capitali all'estero. Figlio del patto di Maastricht e della globalizzazione dei mercati finanziari, il quadro è un semplice elenco che condensa il patrimonio e i redditi oltreconfine.

La sua finalità teorica è chiara: serve a evitare occultamenti di ricchezza e di imponibile oltre che a scoraggiare l'esportazione di valuta. Se gli elementi indicati non corrispondono alla realtà, scatta l'accertamento, con tanto di sanzioni e interessi.
Ecco l'undicesima domanda di Libero: Agnelli quel quadro l'ha mai compilato?


Le lettere di Margherita: «Mi offendono»
Il carteggio fra la figlia dell'Avvocato e i due manager di famiglia. Lei si lamenta: mi hanno trattato male e non ho ricevuto risposte chiare sulla volontà di mio padre, Gabetti glissa e delega la seccatura, Grande Stevens tassativo sulla designazione di John Elkann

Dal libro (mai pubblicato da Longanesi) di Gigi Moncalvo - da Libero

Margherita e Gabetti si sono incontrati per la prima volta nel 1972, qualche tempo prima che l'Avvocato gli affidasse un ruolo nel gruppo. Lei aveva quasi diciassette anni, Gabetti era andato a casa Agnelli a colazione con la moglie. Doveva prendere il posto di Bobbio all'IFI come amministratore.


«Si è infilato a poco a poco in tutti gli interstizi che individuava o che si aprivano per una ragione o per l'altra. Ai tempi del lungo regno di Cesare Romiti penso che lui e Gabetti si odiassero e ancora si odino. Gabetti era pià addentro agli affari di Famiglia, mentre Romiti ha sempre creato un muro invalicabile tra la Fiat e la Famiglia.

Gabetti per più di venticinque anni si è occupato di affari di famiglia, non ci sono dubbi. Ricordo un episodio. Nel '96-'97 chiesi a mio padre: "Forse sarebbe il caso che io sapessi come stanno le cose nella nostra famiglia dal punto di vista patrimoniale. Papà, non sarebbe utile se potessi avere qualche informazione?".

"Va' a parlarne con Gianluigi, con Gabriele (Galateri di Genola), con Franzo (Grande Stevens)", mi rispose. "Sono loro ad occuparsi di questi affari. Cerca di vederli uno alla volta, fai i confronti con quello che ognuno di loro ti dice, e ri torna da me che ne parliamo"».


Torniamo ai momenti successivi all'infuocata seduta dal notaio. Due giorni dopo Margherita scrive una lettera a Gabetti e Grande Stevens. Usa un sistema che irrita molto i due "grandi vecchi". Indirizza la lettera al notaio Morone, affinché ne abbia una copia e la trasmetta ai due destinatari.

Scrive al notaio
"Questa lettera è per me il modo di dirvi tutto il mio stupore dinnanzi a tanta incomunicabilità. Prima di venire alla riunione del 24 febbraio scorso presso il notaio Marone, espressi chiaramente al dottor Gabetti la necessità di comprendere appieno ogni aspetto del testamento di mio padre, e che non avrei voluto firmare alcun documento o prendere atto formale di qualsiasi cosa sinquando questa chiarezza non fosse serenamente presente.

Anonimo ha detto...

Come prevedevo, alcuni aspetti non mi erano chiari. La lettera scritta a Monaco non è stata qualificata come testamento per delle ragioni che non so. Le disposizioni spiegatemi telefonicamente non erano le stesse che furono applicate successivamente. Quando mi sono azzardata a ribadire che, proprio per evitare confusione, avevo bisogno di quel minimo di tempo per poter capire, a quel momento mi sono trovata di fronte ad una tale violenza che per me è andata al di là dell'accettabile.

Ho saputo poi che voi vi eravate parlati, avete avuto il modo e il tempo con mia madre e con John di spiegarvi del perché e del percome di queste modifiche. Per di più, dottor Gabetti, lei si è permesso di offendere quel che in me è stato ed è il sentimento più sacro: l'amore per mio padre. In nome di questo le ho chiesto più volte di darmi gli elementi attendibili affinché io fossi in misura di comprendere, ma questo lei non me lo ha mai concesso nemmeno ieri.

Vi porgo i miei migliori saluti grata per l'attenzione e l'effetto che mi dismotrate nel ricordo di mio padre.
Margherita Agnelli de Pahlen".

La lettera è durissima. La tesi di Margherita si scontra con la assoluta contrarietà di Gabetti. Margherita aveva manifestato questo suo dissenso e ora lo ribadisce. E' ancor più sospettosa. Vuole chiarezza anche sulla volontà di Gabetti di ignorare la lettera a fini successori, e si chiede: come è possibile che prevalga la volontà di Gabetti su quella espressa, nero su bianco, dall'Avvocato? Ma che cosa è stato modificato e perché? Quali sono i motivi per cui Margherita on viene informata né consultata prima di apportare queste "modifiche"?Dopo 15 giorni
solo il 9 marzo, quindi ben undici giorni dopo, il diretto interessato risponde con quella che è la sua unica e ultima lettera a Margherita. La risposta di Gabetti è scritta col computer su carta intestata personale. Nel corso della lettera per ben cinque volte, parlando di Margherita, Gabetti usa l'abbreviazione "M.A.d.P.", come se si trattasse della sigla o del logo di una società.


Con grande dolore ho letto il messaggio datato 26 febbraio pervenutomi soltanto la sera del 6 marzo. Al dolore si unisce lo sgradevole ricordo della riunione del 24 febbraio, che si era peraltro svolta nel rispetto scrupoloso delle procedure notarili nonché delle norme dello Staturo della Scoeità Dicembre.

In conclusione della riunione si prese atto che il contenuto del documento olografo redatto a Monaco dall'Avvocato, pur manifestando una volontà precisa, non poteva avere esecuzione testamentaria. D'altro canto Donna Marella, nell'intento di rispettare le volontà espresse in quel documento, e più volte ribadite dall'Avvocato sia all'Avv. Grande Stevens che al sottoscritto, decise di donare al nipote John a carico della propria quota personale, una quota della Società Dicembre quasi equivalente alle quote già di pertinenza dell'Avvocato stesso.


In quel momento, credendo, forse ingenuamente, di interpretare il pensiero di tutti i presenti, dissi che potevamo prendere atto con soddisfazione che venivano in tal modo ad essere rispettate per intero tutte le volontà dell'Avvocato in questa materia.
Ricordo benissimo che, avendo riscontrato qualche perplessità da parte di M.A.d.P., spiegai attentamente alla stessa come l'intervento di Donna Marella non ledesse minimamente gli interessi di M.A.d.P..

Anonimo ha detto...

Come tutta risposta M.A.d.P. passò da un atteggiamento di perplessità alla aperta dichiarazione di avere dei sospetti. E poiché non posso accettare di essere oggetto di sospetti mi sentii profondamente offeso e umiliato, anche di fronte al Notaio (che è Pubblico Ufficiale), colpito proprio nei valori ai quali ho uniformato la mia vita personale e professionale.

Non dissi nulla di tutto ciò e mi limitai a dichiarare che da parte mia intendevo con la mia firma dare atto che le volontà dell'Avvocato erano state adempiute. Non feci commento alcuno e lasciai la riunione fortemente turbato. E' addirittura inconcepibile che io intendessi in qualsiasi modo offendere i sentimenti di M.A.d.P. per il proprio Padre (un Uomo al quale, per parte mia, ho dedicato per oltre trent'anni qualcosa in più di un semplice rapporto di lavoro). Se il mio atteggiamento è stato interpretato diversamente da M.A.d.P.me ne dolgo sinceramente.

Alla luce di questa sorprendente esperienza non mi rimane che sperare che i più giovani collaboratori (Siegfried Maron e Gianluca Ferrero) che si occupano di questa pratica possano riscuotere miglior riguardo di quello riservato al sottoscritto e diventare un presidio prezioso di tutela degli interessi della Famiglia Agnelli.
In silenzio, se necessario, la mia lealtà non verrà mai meno, nel ricordo indelebile dell'Avvocato.
Gianluigi"Le sue squadre
Margherita capisce che ormai la sua famiglia è divisa in due spezoni: da una parte c'è lei sola e dall'altra il quartetto Gabetti-Stevens-Marella-John.
Questa lettera di Gabetti è molto importante anche da altri punti di vista, soprattutto perché continua a non portare quella chiarezza tanto invocata da Margherita.
agnelli umberto e suni

Le risposte, anche in questo caso, non vengono date. Per esempio, sulla "Dicembre" Gabetti evita di dare spiegazioni e mette invece dei punti fermi dando per acquisite e immodificabili decisioni che sarebbero state prese e che Margherita seppure attenta e tutt'altro che sprovveduta, non si è accorta siano state assunte. Gabetti peraltro non nega di sapere che Margherita era contraria, ma sembra che non ne fosse preventivamente informato.

Gabetti glissa ma non può evitare la risposta più difficile di fronte al passaggio più indignato e scabroso, per lui, della lettera di Margherita. Quello in cui lei chiede conto delle parole da lui pronunciate davanti al notaio: "Lei non è degna di essere la figlia di suo padre! Non essendo degna non può capire la volontà di suo padre. Ma io che la so, firmo".
Assistiamo al rovesciamento della situazione da parte di Gabetti: è lui piuttosto ad essere offeso e di dolersi.


Tuttavia "alla luce di questa sorprendente esperienza" non gli rimane che passare la patata bollente "ai più giovani collaboratori che si occupano questa pratica" nella speranza che "possano riscuotere miglior riguardo di quello riservato al sottoscritto e diventare un presidio prezioso di tutela degli interessi della Famiglia Agnelli".

L'altro protettore
La risposta di Grande Stevens arriva il giorno dopo quella di Gabetti.

"Gentile Margherita,
Gianluigi mi ha passato copia della Sua lettera datata 26 febbraio 2003 e pervenutagli il 6 marzo successivo, indirizzata anche a me.
Grazie, anzitutto, della Sua bella frase finale: Suo padre è stato (come per Gianluigi) una delle persone più importanti della mia vita e per la quale ho avuto ed avrò sempre un sentimento di affettuosa gratitudine.

La sua figura sarà accanto a me finché vivo così com'è stato in quarant'anni di consuetudine di lavoro e di sodalizio intellettuale.
Mi spiace che Lei abbia la sensazome che non Le sia stato detto tutto ed in modo da assicurarsi che Lei avesse ben compreso. Sono, naturalmente, a Sua disposizione (occorrendo, anche venendo da Lei) per rispondere ad ogni Sua richiesta.

Frattanto ricordo che Suo padre (seguendo il paradigma del nonno con Lui) aveva scelto John come il Suo successore, negli affari aziendali e nella famiglia, perché - sono le Sue parole - bisogna che a decidere e comandare sia uno solo alla volta.

Anonimo ha detto...

Per questa ragione, asuo tempo (il 10 aprile 1996) gli aveva attribuito per il 25% in nuda proprietà dela capitale della società Dicembre s.s. riservanto a sé stesso l'usufrutto, ed aveva manifestato a Gabetti ed a me che desiderava che la Sua quota (anch'essa del 25% circa) alla sua morte andasse a John.

Questo lo aveva scritto anche nella lettera di Monaco (17 luglio 1996) prima di sottoporsi ad un'operazione chirurgica.
Tuttavia questo Suo desiderio, ripetutamente e così chiaramente manifestato, non era vincolante giuridicamente perché:


a) una clausola dello statuto della società semplice (l'art.9) - introdotto per ragioni fiscali perché soltanto recentemente è stata abolita in Italia la tassa di successione - imponeva che la quota del socio defunto si consolidasse nella società statte (la quale aveva soltanto l'obbligo di rimborsare gli eredi - Sua mamma e Lei - del suo valore nominale e, pertanto il capitale della società Dicembre apparteneva per un terzo a ciascuno dei tre soci superstiti (Sua madre, Lei e John);

b) suo padre aveva successivamente deciso di lasciare la sua quota del 25% a Edoardo, se non fosse sopraggiunto il noto tragico evento.


Ciò premesso si sarebbe potuto - se si voleva dar corso ai desideri di Suo padre -
a) far donare da Sua madre e da Lei una parte delle loro quote a John;
b) lasciare invece - com'è apparso più giusto per Lei che è giovane ed ha una grande famiglia - che Lei incrementasse la Sua quota di capitale nella società Dicembre (dal 25 al 33% circa e ricevesse inoltre la metà di quanto la società deve versare alle due eredi per il consolidamento della quota di Suo padre);

c) lasciare che Sua madre decidesse a Suo piacimento - come ha fatto - una donazione di parte della sua quota a John.
Se non sono stato chiaro mi consideri a Sua disposizione per parlarne e darLe ogni spiegazione.

Ho ricevuto da Suo padre anche il gesto di fiducia della nomina ad esecutore testamentario ma, come Le dissi ed è già capitato in altre occasioni, non penso che sia necessario che io assuma questo ruolo quando in una famiglia vi sia armonia ed affetto e tutto si risolva in questo spirito tra i familiari.
Resto a disposizione e La saluto con grande cordialità.
Avv. Franzo Grande Stevens".


Anche qui, si deve registrare un nuovo aggiramento del cuore del problema. Ma Grande Stevens aggiunge qualcosa di molto importante: "Suo padre aveva deciso di lasciare la Sua quota del 25% a Edoardo, se non fosse sopraggiunto il noto tragico evento".

D'accordo è sopraggiunto il tragico evento, ma ciò che prevale, e viene continuamente invocata, è "la volontà dell'Avvocato". E dunque se egli, successivamente alla lettera di Monaco del 196, aveva deciso di lasciare il suo 25% a Edoardo, questo significa che Margherita e Marella, essendo le due uniche eredi, hanno diritto a questa quota, divisa a metà per ciascuna, cioè il 12,5% in aggiunta alla quota di cui già sono titolari.

Anonimo ha detto...

E poi posso dichiarare che sono obiettore di coscienza, cioè non sono un patriota e credente della Fiat? Posso dire che guardando alla storia del Novecento, soprattutto nella seconda parte, trovo che i benefici resi dalla Fiat siano superati dai benefici resi alla Fiat e dai danni che ha procurato al Paese? Un Paese disegnato a immagine degli interessi Fiat, che è stata la continuazione del regno sabaudo con altri mezzi, di trasporto. Quante pagine brutte di economia pilotata e assistenziale, svendite e casse integrazioni, statalismo e sindacalismo, rapine pubbliche e private, vetture inquinanti e di scarsa qualità, ferrovie negate e piani di sviluppo deviati, ingerenze nefaste e stampa manipolata, democrazia tradita e vendita d’armi, asservimenti odiosi, tangentopoli frenate e verità rimosse pure in tribunale, marchette di Stato e politica estera al suo servizio, perfino campionati alterati, sono state firmate nel nome della Fiat….Un Paese intero piegato ai suoi interessi. E non mi piace, anche se è chiara la ragione, la servitù della stampa italiana verso tutto quel che proviene dalla Fiat, dall’auto alla ribeatificazione di Lapo Elkann…Scusatemi se non partecipo alla festa nazionale per la conquista americana della Fiat. Lasciatemi pure diffidare che si tratti di una vittoria nostra di cui andare orgogliosi. Naturalmente spero abbiate ragione voi e che mi sbagli io, e questo è altamente probabile . Però lasciatemi dire che quando si celebrano unanimi e retorici trionfi, a me sorgono invece i dubbi. E poi, che volete, in tutto questo sento odor di zolfo e puzza di bruciato

Anonimo ha detto...

1 - DIECI DOMANDE AGLI AGNELLI
Maurizio Belpietro per Li bero
gabetti

post delle 12.19


poveretto, così intento a copiare ed incollare che non si è accorto di aver incollato anche una pubblicità...che cretino

Anonimo ha detto...

Interessi e conflitto
Così i poteri forti controllano la stampa (e s'infiltrano in politica)

Il gruppo RCS, di cui il Corriere della Sera è la corazzata, fa capo a una grande banca d’affari, Mediobanca. A sua volta La Stampa appartiene al gruppo finanziario industriale controllato dagli eredi Agnelli, che ha, in Mediobanca un ruolo rilevante. Da anni il giornale è schierato a favore del PCI, poi dei DS, ora del PD. Repubblica è controllata, assieme a l’Espresso, dal gruppo finanziario industriale che fa capo a Carlo De Benedetti che, almeno sino a ieri si vantava di avere idealmente la tessera numero 1 del Pd.

Roberto Calderoli ha sostenuto che i recenti attacchi ricevuti dalla Lega Nord da parte di importanti organi di stampa che hanno diffuso in modo capzioso affermazioni di Umberto Bossi allo scopo di screditarlo, traggono origine dai poteri forti del mondo bancario. Questa affermazione sarebbe potuta sembrare una battuta polemica dettata da malumore. Ma si sono successivamente verificati una serie di eventi, che avvalorano la tesi che esista una campagna sistematica rivolta a screditare i leader della attuale coalizione di governo e a cercare di creare zizzania nella maggioranza, con tesi e messaggi che sembrano prodotti con lo stampino.

Nel caso di Bossi che vorrebbe differenziare i salari del Nord e del Sud in rapporto al costo della vita ed usa - in modo chiaramente non tecnico - il termine “gabbie salariali”, si è sostenuto che lui vuole resuscitare il meccanismo di determinazione di imperio a livello centrale del divario territoriale di salari che fu abrogato dal Ministro del lavoro Giacomo Brodolini negli anni '70. Volutamente si è ignorato che Bossi rilanciava la proposta fatta da Calderoli, di contratti di lavoro differenziati regionalmente, cosa ben diversa dalla fissazione dei salari per legge. Con il sistema di riportare in modo identicamente deformato il pensiero di Bossi, si è generata una sorta di verità fittizia da parte di un gruppo ben determinato di organi di stampa, tre per la precisione, che sono La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Stampa.

La sensazione che ci sia una campagna orchestrata si è accresciuta con due recenti episodi: quello riguardante la pubblicazione della sentenza di condanna per molestie a una signora sposata a carico di Dino Boffo, direttore de l’Avvenire, da parte de Il Giornale e di Libero e quello della querela di Silvio Berlusconi nei confronti di Repubblica, che gli aveva posto dieci pseudo domande, che erano e sono un assieme di malignità tendenziose che hanno fatto il giro della stampa internazionale. Anche in questi due casi si è verificato una orchestrazione analoga a quella relativa alle esternazioni estive di Umberto Bossi. Ma ancora più assordante.

Potrebbe sembrare sorprendete che questi giornali esprimano lo sdegno non per ciò che ha fatto il direttore de L’Avvenire e per il modo con cui si è difeso ma per il presunto attacco ai vescovi o alla Chiesa cattolica che ciò comporterebbe da parte de Il Giornale e, per illazione, dello stesso Silvio Brelusconi. Ciò tralasciando la circostanza che il direttore de Il Giornale, Vittorio Feltri è noto per la sua indipendenza e quella ulteriore che ciò che è stato pubblicato era un fatto, per sua natura pubblico, ossia una sentenza di condanna passata in giudicato. La cosa forse più sorprendente è che i tre giornali, che si preoccupano del danno che ciò secondo loro può provocare alla Chiesa cattolica sono tradizionalmente laicisti. Il fatto mi ricorda di quando, alla Farnesina io avevo messo sotto inchiesta alcuni diplomatici e loro collaboratori che non operavano correttamente con il pubblico denaro: "Lei - mi disse un autorevole diplomatico - sta macchiando la reputazione del Ministero degli esteri". "Al contrario - io gli risposi - con la mia azione penso di migliorarla perché faccio sapere che chi sgarra non la passa liscia. Il medico pietoso fa la piaga cancrenosa".

Anonimo ha detto...

Assurdamente, Boffa a sua difesa adduce di essersi assunto le colpe di un giovane drogato che disturbava una signora usando il telefonino che lui gli aveva dato. Il che se fosse vero implicherebbe da parte del Boffa di avere commesso il reato di simulazione di reato per avere difeso una persona che, presumibilmente non sarebbe stata condannata ma sarebbe stata rinviata a centro di assistenza. Il disprezzo per la legalità che Boffa ha dimostrato con questa difesa fa capire che non si tratta di una persona in grado di dare lezioni di etica a nessuno.E quanto alla querela di Berlusconi a Repubblica, la tesi che gli abbia così attentato alla libertà di stampa, indica la medesima sordità ai principi dello stato di diritto. Se Repubblica ha agito nell’ambito del diritto di libertà di stampa e di cronaca non ha da temere alcunché, salvo nel caso di giudici parziali verso Berlusconi, un evento che sarebbe veramente straordinario nelle cronache giudiziarie italiane.

Dunque ha ragione Calderoli a ritenere che sia in atto una azione concertata dei poteri forti del mondo bancario contro Berlusconi e contro chi è reo di condividerne gli indirizzi generali? L’intreccio esiste, ma è più complesso, viene da lontano, come ha spiegato Renato Altissimo in una intervista a Il Giornale pubblicata domenica. Di certo, il gruppo RCS, di cui il Corriere della Sera è la corazzata, fa capo a una grande banca d’affari, cioè a Mediobanca, il cui obbiettivo dichiarato in relazione a questo gruppo editoriale non è di ottenere il massimo profitto. A sua volta La Stampa appartiene al gruppo finanziario industriale controllato dagli eredi Agnelli, che ha, in Mediobanca un ruolo molto rilevante. Da molti anni il gioirnale è schierato a favore del PCI, poi dei DS, ora del PD. Repubblica è controllata, assieme a l’Espresso, dal gruppo finanziario industriale che fa capo a Carlo De Benedetti che, almeno sino a ieri si vantava di avere idealmente la tessera numero 1 del Pd.

A differenza degli altri due gruppi editoriali, il gruppo di De Benedetti avrebbe il compito di produrre utili, oltreché di far politica. Ma è anche il gruppo di punta della sinistra impegnata. Al tempo di mani pulite, i direttori delle tre testate si telefonavano ogni pomeriggio per concordare la linea da seguire. E del resto si sono anche scambiati i direttori. Il direttore attuale de La Stampa Calabresi viene da Repubblica mentre il direttore di Repubblica Ezio Mauro è stato direttore de La Stampa come Paolo Mieli, che ha esordito in potere operaio, poi è passato al gruppo Repubblica-Espresso, e dopo avere diretto La Stampa ha diretto il Corriere della Sera, e in tale ruolo ha fatto un esplicito invito a votare nelle elezioni per la coalizione guidata da Romano Prodi. Per un ampio periodo ha fatto il direttore editoriale del gruppo ed ora dirige RCS libri.

Sono molto stretti i rapporti fra Unicredit e Mediobanca tanto che la prima potrebbe cercare una fusione con la seconda ove continuassero le sue difficoltà finanziarie. Ed è noto che l’amministratore delegato di Unicredit Profumo fece la coda per votare alle primarie del Pd, essendo un sostenitore di Romano Prodi. Il Monte dei Paschi controllata dall’ala ex comunista del Pd considera strategica la sua quota in Mediobanca.

Quanto a Intesa San Paolo, l’altra grande banca italiana, il suo amministratore delegato Corrado Passera è stato a lungo un top manager del gruppo Cir di Carlo De Benedetti, ove si è occupato, inizialmente, proprio del settore editoriale. Ha poi lanciato Omnitel. Ed il governo Prodi lo ha nominato capo delle Poste Italiane, che ha risanato finanziariamente facendone una banca anomala, senza curarsi del miglioramento del servizio postale. E’ membro influente del consiglio di amministrazione di RCS.

Anonimo ha detto...

Dunque l’intreccio banca-editoria-centro sinistra è palese. Tuttavia non è così sicuro che esista una strategia del Gotha bancario italiano contro Berlusconi per delegittimarlo e per delegittimare chi è al vertice della coalizione che egli guida. Infatti le banche hanno il fiato grosso e hanno bisogno di benevolenza del governo. Certo hanno l’amaro in bocca perché il governo di centro destra italiano non ha mostrato verso di loro la generosità che hanno invece mostrato i laburisti inglesi, i socialisti spagnoli, i democratici americani e anche qualche governo conservatore. Si ha la sensazione che questo attacco sistematico a Berlusconi e ai leader della sua coalizione abbia essenzialmente una origine politica e serva come linea di difesa del Pd e dei suoi intellettuali impegnati per mascherarne le difficoltà. L’imprinting è quello della “diversità morale”, la bandiera storica dei comunisti e dei catto comunisti. Una superiorità morale che non è mai esistita. Ed ora appare la bandiera della superiorità morale che queste comari sventolano appare per quello che è: un vessillo pieno di macchie di ogni genere di un esercito in ritirata.

Anonimo ha detto...

gruppo RCS, di cui il Corriere della Sera è la corazzata, fa capo a una grande banca d’affari, Mediobanca. A sua volta La Stampa appartiene al gruppo finanziario industriale controllato dagli eredi Agnelli, che ha, in Mediobanca un ruolo rilevante. Da anni il giornale è schierato a favore del PCI, poi dei DS, ora del PD. Repubblica è controllata, assieme a l’Espresso, dal gruppo finanziario industriale che fa capo a Carlo De Benedetti che, almeno sino a ieri si vantava di avere idealmente la tessera numero 1 del Pd.

Roberto Calderoli ha sostenuto che i recenti attacchi ricevuti dalla Lega Nord da parte di importanti organi di stampa che hanno diffuso in modo capzioso affermazioni di Umberto Bossi allo scopo di screditarlo, traggono origine dai poteri forti del mondo bancario. Questa affermazione sarebbe potuta sembrare una battuta polemica dettata da malumore. Ma si sono successivamente verificati una serie di eventi, che avvalorano la tesi che esista una campagna sistematica rivolta a screditare i leader della attuale coalizione di governo e a cercare di creare zizzania nella maggioranza, con tesi e messaggi che sembrano prodotti con lo stampino.

Nel caso di Bossi che vorrebbe differenziare i salari del Nord e del Sud in rapporto al costo della vita ed usa - in modo chiaramente non tecnico - il termine “gabbie salariali”, si è sostenuto che lui vuole resuscitare il meccanismo di determinazione di imperio a livello centrale del divario territoriale di salari che fu abrogato dal Ministro del lavoro Giacomo Brodolini negli anni '70. Volutamente si è ignorato che Bossi rilanciava la proposta fatta da Calderoli, di contratti di lavoro differenziati regionalmente, cosa ben diversa dalla fissazione dei salari per legge. Con il sistema di riportare in modo identicamente deformato il pensiero di Bossi, si è generata una sorta di verità fittizia da parte di un gruppo ben determinato di organi di stampa, tre per la precisione, che sono La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Stampa.

La sensazione che ci sia una campagna orchestrata si è accresciuta con due recenti episodi: quello riguardante la pubblicazione della sentenza di condanna per molestie a una signora sposata a carico di Dino Boffo, direttore de l’Avvenire, da parte de Il Giornale e di Libero e quello della querela di Silvio Berlusconi nei confronti di Repubblica, che gli aveva posto dieci pseudo domande, che erano e sono un assieme di malignità tendenziose che hanno fatto il giro della stampa internazionale. Anche in questi due casi si è verificato una orchestrazione analoga a quella relativa alle esternazioni estive di Umberto Bossi. Ma ancora più assordante.

Potrebbe sembrare sorprendete che questi giornali esprimano lo sdegno non per ciò che ha fatto il direttore de L’Avvenire e per il modo con cui si è difeso ma per il presunto attacco ai vescovi o alla Chiesa cattolica che ciò comporterebbe da parte de Il Giornale e, per illazione, dello stesso Silvio Brelusconi. Ciò tralasciando la circostanza che il direttore de Il Giornale, Vittorio Feltri è noto per la sua indipendenza e quella ulteriore che ciò che è stato pubblicato era un fatto, per sua natura pubblico, ossia una sentenza di condanna passata in giudicato. La cosa forse più sorprendente è che i tre giornali, che si preoccupano del danno che ciò secondo loro può provocare alla Chiesa cattolica sono tradizionalmente laicisti. Il fatto mi ricorda di quando, alla Farnesina io avevo messo sotto inchiesta alcuni diplomatici e loro collaboratori che non operavano correttamente con il pubblico denaro: "Lei - mi disse un autorevole diplomatico - sta macchiando la reputazione del Ministero degli esteri". "Al contrario - io gli risposi - con la mia azione penso di migliorarla perché faccio sapere che chi sgarra non la passa liscia. Il medico pietoso fa la piaga cancrenosa".

Anonimo ha detto...

gruppo RCS, di cui il Corriere della Sera è la corazzata, fa capo a una grande banca d’affari, Mediobanca. A sua volta La Stampa appartiene al gruppo finanziario industriale controllato dagli eredi Agnelli, che ha, in Mediobanca un ruolo rilevante. Da anni il giornale è schierato a favore del PCI, poi dei DS, ora del PD. Repubblica è controllata, assieme a l’Espresso, dal gruppo finanziario industriale che fa capo a Carlo De Benedetti che, almeno sino a ieri si vantava di avere idealmente la tessera numero 1 del Pd.

Roberto Calderoli ha sostenuto che i recenti attacchi ricevuti dalla Lega Nord da parte di importanti organi di stampa che hanno diffuso in modo capzioso affermazioni di Umberto Bossi allo scopo di screditarlo, traggono origine dai poteri forti del mondo bancario. Questa affermazione sarebbe potuta sembrare una battuta polemica dettata da malumore. Ma si sono successivamente verificati una serie di eventi, che avvalorano la tesi che esista una campagna sistematica rivolta a screditare i leader della attuale coalizione di governo e a cercare di creare zizzania nella maggioranza, con tesi e messaggi che sembrano prodotti con lo stampino.

Nel caso di Bossi che vorrebbe differenziare i salari del Nord e del Sud in rapporto al costo della vita ed usa - in modo chiaramente non tecnico - il termine “gabbie salariali”, si è sostenuto che lui vuole resuscitare il meccanismo di determinazione di imperio a livello centrale del divario territoriale di salari che fu abrogato dal Ministro del lavoro Giacomo Brodolini negli anni '70. Volutamente si è ignorato che Bossi rilanciava la proposta fatta da Calderoli, di contratti di lavoro differenziati regionalmente, cosa ben diversa dalla fissazione dei salari per legge. Con il sistema di riportare in modo identicamente deformato il pensiero di Bossi, si è generata una sorta di verità fittizia da parte di un gruppo ben determinato di organi di stampa, tre per la precisione, che sono La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Stampa.

La sensazione che ci sia una campagna orchestrata si è accresciuta con due recenti episodi: quello riguardante la pubblicazione della sentenza di condanna per molestie a una signora sposata a carico di Dino Boffo, direttore de l’Avvenire, da parte de Il Giornale e di Libero e quello della querela di Silvio Berlusconi nei confronti di Repubblica, che gli aveva posto dieci pseudo domande, che erano e sono un assieme di malignità tendenziose che hanno fatto il giro della stampa internazionale. Anche in questi due casi si è verificato una orchestrazione analoga a quella relativa alle esternazioni estive di Umberto Bossi. Ma ancora più assordante.

Potrebbe sembrare sorprendete che questi giornali esprimano lo sdegno non per ciò che ha fatto il direttore de L’Avvenire e per il modo con cui si è difeso ma per il presunto attacco ai vescovi o alla Chiesa cattolica che ciò comporterebbe da parte de Il Giornale e, per illazione, dello stesso Silvio Brelusconi. Ciò tralasciando la circostanza che il direttore de Il Giornale, Vittorio Feltri è noto per la sua indipendenza e quella ulteriore che ciò che è stato pubblicato era un fatto, per sua natura pubblico, ossia una sentenza di condanna passata in giudicato. La cosa forse più sorprendente è che i tre giornali, che si preoccupano del danno che ciò secondo loro può provocare alla Chiesa cattolica sono tradizionalmente laicisti. Il fatto mi ricorda di quando, alla Farnesina io avevo messo sotto inchiesta alcuni diplomatici e loro collaboratori che non operavano correttamente con il pubblico denaro: "Lei - mi disse un autorevole diplomatico - sta macchiando la reputazione del Ministero degli esteri". "Al contrario - io gli risposi - con la mia azione penso di migliorarla perché faccio sapere che chi sgarra non la passa liscia. Il medico pietoso fa la piaga cancrenosa".

Anonimo ha detto...

gruppo RCS, di cui il Corriere della Sera è la corazzata, fa capo a una grande banca d’affari, Mediobanca. A sua volta La Stampa appartiene al gruppo finanziario industriale controllato dagli eredi Agnelli, che ha, in Mediobanca un ruolo rilevante. Da anni il giornale è schierato a favore del PCI, poi dei DS, ora del PD. Repubblica è controllata, assieme a l’Espresso, dal gruppo finanziario industriale che fa capo a Carlo De Benedetti che, almeno sino a ieri si vantava di avere idealmente la tessera numero 1 del Pd.

Roberto Calderoli ha sostenuto che i recenti attacchi ricevuti dalla Lega Nord da parte di importanti organi di stampa che hanno diffuso in modo capzioso affermazioni di Umberto Bossi allo scopo di screditarlo, traggono origine dai poteri forti del mondo bancario. Questa affermazione sarebbe potuta sembrare una battuta polemica dettata da malumore. Ma si sono successivamente verificati una serie di eventi, che avvalorano la tesi che esista una campagna sistematica rivolta a screditare i leader della attuale coalizione di governo e a cercare di creare zizzania nella maggioranza, con tesi e messaggi che sembrano prodotti con lo stampino.

Nel caso di Bossi che vorrebbe differenziare i salari del Nord e del Sud in rapporto al costo della vita ed usa - in modo chiaramente non tecnico - il termine “gabbie salariali”, si è sostenuto che lui vuole resuscitare il meccanismo di determinazione di imperio a livello centrale del divario territoriale di salari che fu abrogato dal Ministro del lavoro Giacomo Brodolini negli anni '70. Volutamente si è ignorato che Bossi rilanciava la proposta fatta da Calderoli, di contratti di lavoro differenziati regionalmente, cosa ben diversa dalla fissazione dei salari per legge. Con il sistema di riportare in modo identicamente deformato il pensiero di Bossi, si è generata una sorta di verità fittizia da parte di un gruppo ben determinato di organi di stampa, tre per la precisione, che sono La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Stampa.

La sensazione che ci sia una campagna orchestrata si è accresciuta con due recenti episodi: quello riguardante la pubblicazione della sentenza di condanna per molestie a una signora sposata a carico di Dino Boffo, direttore de l’Avvenire, da parte de Il Giornale e di Libero e quello della querela di Silvio Berlusconi nei confronti di Repubblica, che gli aveva posto dieci pseudo domande, che erano e sono un assieme di malignità tendenziose che hanno fatto il giro della stampa internazionale. Anche in questi due casi si è verificato una orchestrazione analoga a quella relativa alle esternazioni estive di Umberto Bossi. Ma ancora più assordante.

Potrebbe sembrare sorprendete che questi giornali esprimano lo sdegno non per ciò che ha fatto il direttore de L’Avvenire e per il modo con cui si è difeso ma per il presunto attacco ai vescovi o alla Chiesa cattolica che ciò comporterebbe da parte de Il Giornale e, per illazione, dello stesso Silvio Brelusconi. Ciò tralasciando la circostanza che il direttore de Il Giornale, Vittorio Feltri è noto per la sua indipendenza e quella ulteriore che ciò che è stato pubblicato era un fatto, per sua natura pubblico, ossia una sentenza di condanna passata in giudicato. La cosa forse più sorprendente è che i tre giornali, che si preoccupano del danno che ciò secondo loro può provocare alla Chiesa cattolica sono tradizionalmente laicisti. Il fatto mi ricorda di quando, alla Farnesina io avevo messo sotto inchiesta alcuni diplomatici e loro collaboratori che non operavano correttamente con il pubblico denaro: "Lei - mi disse un autorevole diplomatico - sta macchiando la reputazione del Ministero degli esteri". "Al contrario - io gli risposi - con la mia azione penso di migliorarla perché faccio sapere che chi sgarra non la passa liscia. Il medico pietoso fa la piaga cancrenosa".

Anonimo ha detto...

Dunque l’intreccio banca-editoria-centro sinistra è palese. Tuttavia non è così sicuro che esista una strategia del Gotha bancario italiano contro Berlusconi per delegittimarlo e per delegittimare chi è al vertice della coalizione che egli guida. Infatti le banche hanno il fiato grosso e hanno bisogno di benevolenza del governo. Certo hanno l’amaro in bocca perché il governo di centro destra italiano non ha mostrato verso di loro la generosità che hanno invece mostrato i laburisti inglesi, i socialisti spagnoli, i democratici americani e anche qualche governo conservatore. Si ha la sensazione che questo attacco sistematico a Berlusconi e ai leader della sua coalizione abbia essenzialmente una origine politica e serva come linea di difesa del Pd e dei suoi intellettuali impegnati per mascherarne le difficoltà. L’imprinting è quello della “diversità morale”, la bandiera storica dei comunisti e dei catto comunisti. Una superiorità morale che non è mai esistita. Ed ora appare la bandiera della superiorità morale che queste comari sventolano appare per quello che è: un vessillo pieno di macchie di ogni genere di un esercito in ritirata.