mercoledì 26 agosto 2009

Dieci (o quasi) domande a Fini. Maria Neve di Sommojano

Avrei voluto intitolare questo pezzo “dieci domande a Gianfranco Fini”. Non so perché, mi piaceva, mi sembrava originale. Poi però mi sono accorto che non arrivavo a fare proprio dieci domande, ma solo qualcuna. Allora ho pensato di lasciar decidere il titolo agli amici de L’Occidentale.

Comunque le domande sarebbero: se un leader del centrodestra finisce per riscuotere ovazioni solo tra la gente del centrosinistra, cosa vuol dire? Se un leader del centrodestra viene accolto come il salvatore della patria alla festa del PD, cosa vuol dire? Se quelli del sinodo valdese dicono che prima invitavano Violante e adesso Fini, cosa vuol dire? Se uno fa il Presidente della Camera, deve per forza di cose dar contro alla maggioranza che lo ha eletto? Vero che una posizione istituzionale ha le sue esigenze di imparzialità, però questo equivale necessariamente, programmaticamente, a mettersi di traverso al Governo? Nessuno pretende ormai da Fini che egli dica cose “di destra”, ma perché – se è neutrale – deve dire cose “di sinistra”? E poi, perché mettersi a ripetere le banalità del politically correct, tipo “i nostri emigrati di un tempo sono come gli immigrati di oggi”? Come se i poveri minatori italiani morti a Marcinelle fossero paragonabili a certi tangheri che vengono da noi a sfruttare la prostituzione minorile.

Insomma, io non ho capito bene: se Fini aspira a prendere la successione di Berlusconi, perché non fa chiaramente politica dentro al pdl? Proprio lui che ha traghettato un partito dal ghetto al Governo dovrebbe sapere che in politica ci si muove “armi e bagagli” e con una certa lentezza, perché si tratta di portarsi dietro la propria gente, che è lenta a capire le evoluzioni della politica e restia a seguirle. Invece tutti questi strappi… Dice che dietro c’è una precisa strategia: puntare al Quirinale.

Ma anche qui non capisco e faccio due domande. Se al momento buono (più lontano possibile, per carità, perché io Napolitano me lo terrei stretto stretto) c’è ancora una maggioranza pdl che lui ha fatto in buona parte incazzare, spera davvero che lo voterebbero contenti? E invece, se ci fosse una maggioranza diversa (tipo D’Alema-Casini, con un trionfante sistema elettorale alla tedesca), perché dovrebbero mandare al Colle quello che resta pur sempre un avversario storico?

Insomma, proprio non capisco. Qualcuno può illuminarmi? (l'Occidentale)

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Quando De Benedetti tramava in politica: come ha fatto fortuna

La verità, come si sa, è sempre rivoluzionaria. Pochi la cercano e molti la temono. Altri, invece, pensano di poterla «governare» a proprio uso e consumo e tra questi, da sempre, ci sono gli amici di Repubblica. Ogni tanto partono in quarta come se fossero scesi qualche minuto prima dal monte Sinai sul quale avrebbero ricevuto, di volta in volta, le tavole della verità da comunicare al mondo. E come sempre è capitato nella storia dell’Uomo, chi inveisce moralisteggiando contro tutti dimentica di avere alle sue spalle ombre lunghe e inquietanti. Ma veniamo al fatto. Chi, come il Giornale ed altri, ha cominciato a indagare sui conti di casa Agnelli e sulle probabili evasioni fiscali lo ha fatto solo perché ha raccolto le notizie da uno dei massimi esponenti di quella famiglia, la figlia dell’Avvocato signora Margherita. Apriti cielo. Il simpatico Giuseppe D’Avanzo che sa sempre tutto su tutti tranne che sul suo editore Carlo De Benedetti, ha intimato di fatto al nuovo direttore del Giornale (ma perché solo a lui?) di dire anche tutte le malefatte, vere o presunte, di Silvio Berlusconi se voleva continuare le indagini sulle evasioni fiscali, anch’esse vere o presunte, di casa Agnelli. D’Avanzo sa che noi lo stimiamo e che per tale stima seguiamo passo dopo passo le sue orme.

Se dobbiamo fare la storia di Mediaset o quella personale di Berlusconi, come chiede D’Avanzo è giusto che anche lui faccia la storia personale e politica di Carlo De Benedetti, l’editore autorevole e illuminato del gruppo Repubblica-Espresso. Se dobbiamo sposare la Verità, e noi più di altri ne siamo affascinati, volgiamo dunque lo sguardo a 360 gradi cominciando proprio da chi predica legalità e santità e cioè dall’editore di Repubblica. In questa ricerca vogliamo dare una mano al caro D’Avanzo che forse non ricorda alcune vicende della storia italiana, quelle vicende che pure tanta devastazione produssero sul sistema politico-economico italiano. Per brevità non vogliamo ricordare la vicenda del gruppo alimentare Sme che De Benedetti stava acquistando per poche lire e che Giuliano Amato, per nome e per conto di Bettino Craxi, impedì con un intervento durissimo nella commissione Bilancio della Camera dei deputati.

Vedremo tra poco come Giuliano Amato, anni dopo, si fece perdonare dall’amico Carlo. Partiamo, invece, dal progetto «politico» che Carlo De Benedetti, con l’accordo anche di Gianni Agnelli, mise a punto nei primi mesi del 1991 per cambiare gli assetti politici che l’Italia si era democraticamente dati e per portare al governo del Paese il vecchio Pci che a Rimini stava «espellendo» la sua area più dura, quella che poi assunse il nome di Rifondazione Comunista. Nel marzo del ’91 De Benedetti chiese all’allora ministro del Bilancio Cirino Pomicino se voleva «essere il suo ministro» dopo avergli spiegato le ragioni del progetto e i suoi protagonisti. Quell’offerta, tra l’altro, per come fu fatta, dimostrò la concezione «proprietaria» che De Benedetti aveva della politica e che si impose in Italia sin da quegli anni anche se, per l’eterogenesi dei fini, con altri protagonisti.

Anonimo ha detto...

Ma la vocazione proprietaria della politica di Carlo De Benedetti era sempre finalizzata a questioni economiche. E, infatti, il 28 marzo 1994 il carissimo Carlo Azeglio Ciampi quando stava per lasciare Palazzo Chigi perché gli amici sponsorizzati da De Benedetti (Occhetto e compagni) erano stati sconfitti alle elezioni un giorno prima da Berlusconi, decise il vincitore della gara d’appalto per il secondo gestore dei telefonini in Italia. Il vincitore fu naturalmente Carlo De Benedetti. Gli sconfitti, la cordata Fiat-Fininvest. Siccome «ciascun dal proprio cuor l’altrui misura» Carlo De Benedetti immaginò che il proprietario della Fininvest sconfitta, una volta arrivato a palazzo Chigi, avrebbe di fatto revocato alla Olivetti la licenza di secondo gestore della telefonia mobile. Così naturalmente non fu e il moribondo governo Ciampi, figlio dell’intrigo di palazzo, si comportò come i generali nazisti che con gli americani alle porte fuggivano bruciando le ultime carte e fece nascere la Omnitel di Carlo De Benedetti che realizzò uno dei migliori affari della sua vita. Ma all’ingegnere d’Ivrea non bastava. Il compianto Lorenzo Necci presidente delle Ferrovie di Stato, aveva concluso nel dicembre del 1993 con la Telecom pubblica di Ernesto Pascale la vendita della rete telefonica ferroviaria per 1.100 miliardi di vecchie lire.

Anonimo ha detto...

Ma Giuliano Amato, nominato alcuni mesi dopo da Silvio Berlusconi presidente dell’Antitrust, si mise di traverso suggerendo addirittura a Lorenzo Necci quale dovesse essere il destinatario della rete telefonica ferroviaria e cioè la Omnitel di Carlo De Benedetti probabilmente per farsi perdonare il suo acerrimo contrasto all’acquisto della Sme di alcuni anni prima. E così fu. Il prezzo concordato fu di 750 miliardi di lire (350 in meno del prezzo pattuito tra Stet-Telecom e Fs) e il pagamento fu rateizzato in 14 anni con rate annuali di 76 miliardi sempre di vecchie lire. Roba un po’ da ridere.

Qualche tempo dopo Omnitel-Infostrada governata a quel tempo dal duo Colaninno-De Benedetti fu venduta ai tedeschi della Mannesman per 14mila miliardi senza, naturalmente, alcuna rateizzazione. Potremmo continuare a «spigolare» qui e là a cominciare dalla scandalosa vicenda Seat-Pagine Gialle che in poco più di 30 mesi passò dalla Telecom pubblica alla società Otto e poi di nuovo alla Telecom privata con una plusvalenza di oltre 14mila miliardi. Nella cordata iniziale che si candidò a comprare la Seat dalla Telecom c’erano insieme a Comit, De Agostini, Bain Cuneo, B.C. partner, Cvc partner, Investitori associati, anche il gruppo editoriale Espresso-Repubblica, che comunque ne uscì prima che l’acquisto fosse concluso.

Resta il fatto che ben il 42% della società che acquistò la Seat e che quindi realizzò la scandalosa plusvalenza era nelle mani di azionisti sconosciuti e collocati nei paradisi fiscali. Carlo De Benedetti e il principe Caracciolo non c’erano più nella cordata ma un tarlo malizioso c’è sempre nella nostra testa. E, come dice il vecchio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma si indovina. Ci fermiamo qui lasciando al nostro amico D’Avanzo di continuare la carrellata. Se ha difficoltà potrà sempre chiamarci, ricordandogli, in ultimo, che senza l’iniziale progetto politico di De Benedetti, Berlusconi non sarebbe mai sceso in politica.

Anonimo ha detto...

Insomma, proprio non capisco. Qualcuno può illuminarmi?


si chiama libertà di pensiero cosa che all'occidentale poco capiscono alle prese come sono per leccare il culo al padrone

Anonimo ha detto...

libertà di pensiero è criticare un personaggio che ha rinnegato tutto per la smania di potere .

Anonimo ha detto...

Dopo Marcinelle
Modeste riflessioni su immigrazione, rispetto e politica del Presidente Fini
di
Milton

Mio padre ha fatto il minatore per 41 anni, tre dei quali passati a Marcinelle. I fumi tossici della miniera non gli hanno permesso di raccontarmi direttamente quegli anni di stenti, lavoro duro e emarginazione. Li chiamavano ovviamente “mafiosi”, aspettavano mesi il consenso per partire per il Belgio (grazie ad un accordo bilaterale Italia-Belgio, in cambio di tonnellate di carbone per il nostro Paese), il ricongiungimento era caldamente sconsigliato, pena il licenziamento, e ogni mese spedivano in Italia i soldi, al netto delle tasse pagate in Belgio. La domenica (se non erano di turno) andavano a Messa ed era un momento pieno di nostalgia, perché il “latinorum” del sacerdote gli ricordava la parrocchia di casa; nel pomeriggio riparavano il tetto della canonica in cambio di improvvisate lezioni di francese e poi con dignità andavano a bersi un bicchiere al bar, fieri delle vittorie di Coppi. Mia madre mi racconta che lui imparò a fare la carbonade (una sorta di stufato allungato con la birra) tipico piatto della Vallonia ed era un maestro a friggere le patatine, altra leccornia tradizionale del luogo. Tornò in Italia e quando seppe che un'italiana sarebbe diventata Regina del Belgio, fu, per lui, come vincere il mondiale.

In questo turbinio di affetti, valori, identità, tradizione, dignità, la retorica politically correct sull’immigrazione che ha accompagnato la celebrazione della strage di Marcinelle dove morirono 262 minatori (tra cui 136 italiani), mi ha procurato un senso di noia verso queste frasi fatte, parole di circostanza, piene di utilitarismo politico e di moralismo trito e ritrito.

Il Presidente della Camera Fini ci dice, con un’intuizione pedagogica senza precedenti: “il lavoratore merita rispetto anche se non ha il papier”. Purtroppo Presidente Fini, il rispetto non è una categorie della politica, appartiene a ciascuno di noi, al grado di rispetto che riceviamo nel quotidiano, dipende dalle nostre paure e dalle nostre insicurezze, dal nostro senso civico del quale il Presidente della Camera in quanto tale (che ci sia qualche antico rigurgito di stato etico?) non è il custode. A meno che per rispetto non si intenda chiudere un occhio sul lavoro nero degli immigrati, sul loro sfruttamento, sullo stato di insicurezza in cui operano, sullo sfruttamento dei minori o sui matrimonio combinati.

Il monito poi prosegue con una passaggio degno della miglior storiografia: “Nel ’56 (anno della strage di Marcinelle, ndr) la parola extracomunitari non esisteva ancora, ma se ci fosse stata i lavoratori italiani che morirono in quella strage sarebbero stati definiti extracomunitari e magari qualcuno l’avrebbe fatto con disprezzo”. Non so, semanticamente, in quale epiteto, tra extracomunitario o mafioso resieda il maggior grado di disprezzo, ma misurare le politiche sull’immigrazione partendo dalla semantica, sembra quantomeno banale (a proposito sindaco Alemanno le chiami come vuole: servizi spontanei oppure pippo o topolino, ma le istituisca queste ronde, senza più pruriti linguistici).

Le reazioni delle comunità ai flussi migratori sono frutto dei cambiamenti che questi impongono ai tessuti sociali, delle paure e delle incomprensioni che generano. Questi cambiamenti vanno governati, regolamentati, favorendo la reciprocità dei comportamenti e delle identità. Difficilmente lo si può fare tollerando la clandestinità. Questo è il ruolo della politica, che poco ha a che fare con la semantica applicata alla sociologia. L’integrazione ha bisogno di trasparenza e i buchi neri della clandestinità non la favoriscono di certo. Anzi, rigettano semplicemente l’immigrato in quello stato di disperazione e fragilità per il quale ha scelto di andar via dal suo paese.

Anonimo ha detto...

Per finire ed a proposito di rispetto, ci piacerebbe Presidente Fini che lo mostrasse per una legge approvata anche dall’assise che Lei presiede: o le prerogative del Parlamento meritano rispetto a geometria variabile? D’altronde è una legge i cui contenuti stavano tutti nel programma di coalizione con il quale Lei è stato eletto e che Le ha consentito di presiedere Montecitorio. Uno scranno da cui è fin troppo facile lanciare moniti.

Anonimo ha detto...

FINI TROVA CASA: LA STESSA DEL PD

Lungamente sospirato, arrivò in un pomeriggio d’agosto all’altare della sinistra perduta, la Sposa del Partito Democratico, al secolo Gianfranco Fini. Due ali di folla che si allargano per far passare il Presidente della Camera con il suo velo invisibile che suscita tra i compagni commossi invisibili lanci di riso. Un tifo caloroso in platea dopo giorni di marcia nuziale su la Repubblica e le sue sorelle, in attesa euforica del Convertito, salutato come antifascista, anticlericale ma soprattutto antiberlusconiano. Poi la Sposa firma autografi ai compagni e si ferma a parlare con loro, come evita di fare negli incontri con il Popolo della libertà. Articolesse di elogi, attestati di ammirazione e fiumi di paragoni in suo onore con l’Orco feroce Umberto Bossi, con l’Assatanato Silvio Berlusconi, e con i sette nani del suo vecchio partito, i suoi luogotenenti costretti a un’indecorosa difesa del cadavere, la destra buonanima. Loro le bestie, lui la Vergine Rifatta, venuta a Genova, città tremenda per chi viene dal Msi, a miracol mostrare. Un tifo della madonna per la nuova sposa che non ha tradito le premesse, limitandosi a tradire i suoi elettori e il suo passato anche più recente. Stimolato da Mario Orfeo, nuovo direttore del Tg2, a lui assai caro e non a caso venuto da la Repubblica e da sinistra, Fini ha parlato da prete progressista della legge Bossi-Fini, quel suo omonimo bestiale e razzista di qualche anno fa. Poi ha parlato da laicista progressista del testamento biologico, con implicito disprezzo della pessima accozzaglia cattolico-conservatrice-tradizionalista che fino a pochi anni fa un suo omonimo cercava di rappresentare. Infine ha parlato da leader della sinistra soffusa contro la Lega, Berlusconi e la destra italiana. Con toni misurati, come s’addice al personaggio. Ma a Genova Fini ha perfezionato il suo lungo viaggio da Almirante a ET, l’extraterrestre.
Non lasciamoci trasportare dall’euforia dei compagni, ricomponiamoci. Dunque, per cominciare, Fini ha fatto bene ad andare alla festa del Partito Democratico. È il presidente del Parlamento, ha un ruolo bipartisan e non può seguire la decisione, discutibile, di Berlusconi e del suo governo di disertare la festa perché i democratici hanno perfidamente alluso ai suoi festini. Fini ha fatto bene ad andarci, come farà bene ad andarci l’altra figura istituzionale, Schifani. Ha fatto bene Fini a mazzolare alcune posizioni radicali della Lega, l’infelice battuta - poi rientrata - sul ripensamento del Concordato con la Chiesa, insomma alcune cadute nel rozzismo. Fa bene Fini a difendere l’unità d’Italia, anche se lo fa in modo assai più moscio di Napolitano e Ciampi, con cadute nell’internazionalismo catto-progressista. E fa bene, dal suo punto di vista, a smarcarsi da posizioni di partito, fa bene a dialogare... Però che volete, a me fa qualche impressione vederlo ridotto al ruolo di Cristoforo Colombo della sinistra, scopritore genovese di un Partito che non c’è più. E mi fa impressione pensare che pochi anni fa parlai pubblicamente assieme a Fini proprio lì, a Genova, in quei luoghi precisi dove è riapparso dopo il lifting mentale. Era una festa di Alleanza nazionale e quel Fini lì mi scavalcò, come era ovvio, a destra. Sui temi classici della destra, immigrazione inclusa. O magari sulla legge anti droga, che Fini firmò con Giovanardi; ma evidentemente Giovanardi falsificò la sua firma, perché lui ora dice cose opposte. E così vale per il presidenzialismo, che piaceva da matti a Fini e alla sua destra, fino a pochi anni fa: ma ora il decisionismo è sparito e quel che conta per il Fini bis è il Parlamento.

Anonimo ha detto...

Fa impressione incontrare uno che gli somiglia tanto, persino con lo stesso cognome, che ora ti scavalca a sinistra e dice cose opposte a quelle che diceva, non da ragazzo, non da missino, ma da leader della destra moderna italiana del terzo millennio. Era vice di Berlusconi all’epoca in cui parlammo insieme al pubblico di Genova; ora ha fatto carriera e fa il vice di Napolitano o il fratello maggiore di Franceschini che è la sua versione parrocchiale, un Fini minore che ha studiato dalle monache.
Sono contento che la sinistra abbia finalmente trovato un leader su cui non si divide ma che elogia compatta. È un buon auspicio per le primarie. Fino a ieri ero convinto che Pdl volesse dire semplicemente Partito del Leader, inteso come Berlusconi; e Pd volesse invece dire Partito del, ma non si sapeva di che cosa. Ora finalmente viaggia in Pdf, come Partito di Fini. Sono contento per loro, anche se le posizioni di Fini non sono nemmeno di sinistra, sono neutre come il sapone dei bambini; forse terziste, cerchiobottiste, e approdano nella terra di nessuno. Ma sono contento per la sinistra che ha trovato finalmente un leader con cui condivide l’assenza di idee. Meno contento sono per la destra, lo dico ormai da turista curioso e disinteressato. Ecco, vorrei chiedervi: chi è il leader della destra oggi in Italia? Non riesco a trovare una risposta. Mi arrampico e deliro: Ratzinger? Calderoli? Arisa? Non so, non mi sovviene nessun leader della destra, nuova, vecchia, surgelata. Intanto, auguri a Fini l’astronauta per il suo lungo viaggio verso Marte. Come i fascisti di una celebre satira di Corrado Guzzanti...

Anonimo ha detto...

Ci ha traghettato nel Pdl, ci ha quindi coinvolti nel governo nel bene e nel male ci ha messo in una coalizione che, anche se maldestra su alcune posizioni, cerca affannosamente di soddisfare il proprio elettorato.
Scrivo di getto, non posseggo quella dialettica “scritta” di voi articolisti, ma il mio trasporto è dovuto dalla sofferta assimilazione in un altro movimento politico e dell’inevitabile scomparsa di un’ identità di partito e del suo simbolo, avente una tradizione e un passato storico ben diverso dal Pdl.
Comunque abbiamo accettato tentando di trovare con impegno legami paralleli e analogie in un movimento simile al nostro ma non basato necessariamente sulle stesse fondamenta.
Si è creduto in punti e risorse comuni per impiantare una linea politica collettiva e questo è stato condiviso, approvato e votato, lui beneficiando di una carica istituzionale eccellente ………..e noi ?
Non mi addentro nei merito dei suoi interventi “Genovesi” fatto è che oltre all’identità e al simbolo si è perso anche il leader.
Saluti

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie