Sono passati quasi vent’anni dalla fine della prima Repubblica, ne sono passati più di quindici dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi. La legislatura finirà nel 2013, giusto nel ventennale della discesa in campo.
Come racconteranno questo lungo periodo gli storici di domani?
Fino a qualche tempo fa pensavo che questi anni sarebbero stati ricordati come l’era del berlusconismo. Un periodo in cui il costume ha subito mutazioni profonde, la politica si è personalizzata, i media sono stati militarizzati, la Tv è diventata sempre più volgare, il privato ha invaso la sfera pubblica, i rapporti fra le istituzioni si sono ingarbugliati. Un periodo in cui la figura del leader politico è cambiata profondamente: non più espressione di un partito e di un’ideologia, ma personaggio carismatico che trae il suo consenso dal rapporto con la «gente».
Ma molti dei caratteri che si è soliti associare al berlusconismo si sono manifestati ben prima del suo avvento e non solo in Italia. La deriva delle Tv (il Grande Fratello è un format internazionale), la messa in scena del privato (Bill Clinton e Monica Lewinsky), il declino dei partiti tradizionali, la personalizzazione della politica, il modo di porsi dei leader, la ricerca del contatto con la gente, l’insofferenza per i protocolli, l’informalità, gli atteggiamenti irrituali: tutte cose che esistono da tempo anche all’estero, e che in Italia sono cominciate con i presidenti della Repubblica Pertini e Cossiga (non per nulla chiamato il «picconatore»), e sono culminate nel pontificato di papa Wojtyla.
Ecco perché, oggi, penso invece che lo specifico del ventennio 1992-2013 gli storici del futuro lo troveranno semmai nell'antiberlusconismo, inteso come imperativo etico e come stato d’animo collettivo. E’ questo, almeno sulla scena politico-culturale, il tratto dominante dell’epoca che ora va tramontando in Italia. E lo è per le ragioni che in questi giorni cominciamo lentamente a mettere a fuoco: quale che sia la responsabilità degli attori in campo, non esiste, nella storia repubblicana, alcun leader presente o passato che abbia attirato sulla propria persona tanto astio, disprezzo e odio. Né Togliatti né Moro, né Andreotti né Cossiga, né Craxi né Prodi sono mai stati investiti da un simile sentimento di ostilità. Un sentimento certo coltivato soltanto da una minoranza (a mio parere valutabile fra l'1% e il 5% del corpo elettorale), ma pur sempre una minoranza cospicua. L'ostilità reciproca fra i due schieramenti corre sia lungo la direttrice che va da destra a sinistra, sia nella direttrice opposta. Da questo punto di vista anti-comunismo e anti-berlusconismo sono speculari e gemelli. Ma solo in quest’ultimo caso, quello del sentimento antiberlusconiano, la corrente dell’ostilità si coagula contro un solo individuo, percepito come la personificazione e la sintesi di ogni male. Non era mai successo in passato, non succede in nessun altro Paese democratico.
Perché l’odio va a bersaglio solo a destra?
Ci sono ragioni ovvie. La prima è che Berlusconi non è solo un leader politico, ma è innanzitutto il padrone di un impero economico-mediatico. La seconda è che Berlusconi è sospettato di gravi reati e si sottrae ai processi. Ma esiste anche un’altra ragione, su cui è venuto il tempo di farsi domande vere, non retoriche. Dietro l’odio per Berlusconi, che quotidianamente si manifesta su Internet ed episodicamente si incarna nel gesto di qualche sconosciuto (ieri il lancio del treppiede, oggi quello della statuetta del Duomo di Milano), c'è un’analisi precisa della società italiana. Io ho cominciato ad ascoltarla con le mie orecchie nel lontano 1994, quando il mio preside, un illustre storico della Resistenza, cominciò ad arringare il Consiglio di Facoltà perché in Italia stava rinascendo il fascismo: la colpa di Berlusconi, allora, era quella di aver sdoganato Fini, quello stesso Fini che oggi con autoironia la sinistra chiama «compagno Fini». Poi vennero gli allarmi sul razzismo, perché Berlusconi era tornato con la Lega, quella stessa Lega che poco prima, dopo la rottura fra Bossi e Berlusconi, D'Alema aveva definito «una costola della sinistra». Poi, prima delle elezioni del 2001, vennero l’appello di Bobbio per salvare la democrazia e l’appello-profezia di Umberto Eco: secondo lui, se il centro-destra avesse vinto (come in effetti avvenne), Berlusconi sarebbe divenuto proprietario di tutti i principali quotidiani e periodici, Corriere della Sera, La Stampa, Repubblica, Unità, Espresso. Ora si parla di regime, dittatura dolce, grave pericolo per le istituzioni democratiche. Ma anche di indulgenza verso gli evasori, rapporti con la mafia, responsabilità nelle stragi del 1992-1993. Persino gli effetti della crisi, i licenziamenti, le difficoltà economiche, l’inquinamento atmosferico sono messi in conto a Berlusconi: il governo «sta rovinando l’Italia», e sarebbe questo che spiegherebbe il clima di ostilità nei suoi confronti. E il bello è che questa incessante attività di costruzione di una certa rappresentazione della società italiana non è condotta da un’équipe di studiosi, fatta di storici, sociologi, economisti, scienziati politici, statistici, criminologi, bensì da una compagnia di giro formata in massima parte da giornalisti, conduttori televisivi, politici, cantanti, attori, registi, comici, vignettisti, scrittori, letterati, filosofi.
Ebbene, di fronte a questa opera dell’ingegno collettiva è difficile sfuggire al dilemma. O l’analisi è sostanzialmente esatta, e allora è venuto il momento di imbracciare le armi e iniziare la resistenza. Come ha ricordato Antonio Polito ieri sul Riformista, «persino la dottrina liberale prevede il tirannicidio»: se credessimo anche solo alla metà di quello che più o meno obliquamente ci suggeriscono i detrattori di Berlusconi, sarebbe naturale emigrare o darsi alla macchia. Sottoscrivere quell’analisi e invocare il confronto civile è semplicemente illogico, e infatti il confronto civile non decolla mai.
Oppure quell'analisi è gravemente distorta, e allora è venuto il momento di separare le critiche che stanno in piedi (e che sono tante) dal quadro apocalittico che le incornicia e che alimenta un clima da ultima spiaggia, da resa dei conti finale. Se non lo faremo, anche le critiche più serie finiranno per apparire sterili e preconcette. E gli appelli ad «abbassare i toni», a tornare a un confronto civile, non sortiranno alcun effetto: perché è vero che alla fine del suo lungo percorso l’antiberlusconismo si è raggrumato in un sentimento viscerale, ma all’origine è stato soprattutto un’idea, una costruzione intellettuale, una descrizione dell’Italia lungamente coltivata e ribadita. E’ con questa ricostruzione che è arrivato il momento di fare i conti, con pacatezza e amore per la verità. (la Stampa)
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