Che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanni l’Italia non fa notizia, avviene spesso. Ma la condanna per la scarcerazione di Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, costata la vita a due donne, è di quelle che strappano un grido di rabbia e vergogna. Se il dibattito sulla giustizia, sulla necessità di riforme profonde, volesse avere un andamento serio, se volesse occuparsi di quel che riguarda tutti, senza sconti per nessuno, dovrebbe ripartire proprio da qui, da questa condanna. Che ora, a noi cittadini, costa anche 45 mila euro di danni morali, che paghiamo, prelevandoli dalle casse statali, alla famiglia delle vittime. Troppi, se si calcola che la responsablità non è delle leggi, ma di chi le ha male amministrate. Troppo pochi, se si riferiscono a due vite, violentemente recise.
Siamo stati condannati, noi italiani, noi Italia, per avere violato il “diritto alla vita”, sancito dall’articolo due della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come abbiamo fatto? Leggete appresso, ed indignatevi, per favore. Abbiamo violato il diritto alla vita di quelle due donne perché avevamo in custodia, presso le patrie galere, un condannato all’ergastolo, già dimostratosi uomo violento. Un torturatore. Le nostre leggi stabiliscono che anche il peggiore dei delinquenti può redimersi. E’ giusto. Lo riconosce anche la Corte, che non contesta affatto quella legge, non contesta l’ipotesi che un detenuto possa avere la semilibertà, anche se condannato per omicidio. Contesta il modo in cui è avvenuto: è stata non applicata, ma violata la legge.
Il detenuto Izzo godeva della semilibertà, anche se ne aveva già tradito le regole e, pertanto, doveva essergli revocata. Ma i giudici di Palermo lo misero in libertà nonostante le violazioni. Ed i giudici di Campobasso non informarono il tribunale di sorveglianza di ulteriori, gravi infrazioni. Quindi, un po’ perché i giudici agirono con leggerezza, un po’ perché omisero di fare il loro dovere, trasmettendo a chi di dovere informazioni vitali (in senso letterale), è andata a finire che il detenuto Izzo era in libertà pur non avendone diritto. In questo modo lo Stato ha violato l’articolo due, che non solo prevede l’obbligo di non procurare la morte, ma anche quello di prendere le misure necessarie per preservare la vita.
La malagiustizia è costata la vita a due donne, e, ora, costa la condanna a noi tutti. Poniamoci ancora una domanda, per darci una risposta raccapricciante: perché i familiari sono ricorsi a Strasburgo? Risposta: perché, come ha ricordato la Corte di Strasburgo, nei confronti dei magistrati di Palermo fu avviata un’azione disciplinare, ma non ci fu nessuna sanzione, neanche amministrativa, e nei confronti di quelli di Campobasso fu la famiglia delle vittime ad avviare un’azione penale, ma fu archiviata.
Chi uccise è tornato ad uccidere, ma secondo la nostra giustizia nessuno ne è responsabile. Fra irresponsabilità e caos burocratico, fra approssimazione e arroganza autoprotettiva, la giustizia muore. Ma di queste cose non si parla, quando si discute di riforme, forse perché riguardano tutti e non solo qualcuno. Di questo non si tiene conto, quando ci si lamenta per l’immagine dell’Italia nel mondo, forse perché si presta poco alle inutili polemiche.
Da qui, allora, si dovrebbe ripartire, azzerando speculazioni e corporativismi, cercando di restituire un senso alla giustizia.
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