mercoledì 14 luglio 2010

Assolto Canale, i magistrati rispondano degli errori su via D'Amelio. Lino Jannuzzi

Nessun giornale, tranne due eccezioni (“Il Giornale di Sicilia” e ”Libero”), ha riportato la notizia dell’assoluzione definitiva di Carmelo Canale, oggi capitano dei carabinieri e per anni, da maresciallo e da tenente, il principale e più fidato collaboratore di Paolo Borsellino. Venerdì la quinta sezione della Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro Canale, già assolto in primo e in secondo grado, e ha posto la parola fine a un’indagine e a un processo infiniti, durati 14 anni (Canale è indagato dal 1996 ed è stato rinviato a giudizio nel 1999). “Quando questo processo al tenente Canale sarà finito - scrivevo otto anni fa (“Panorama”, 21 marzo 2002, pag.89) - non sapremo soltanto chi ha suicidato il maresciallo Lombardo. Sapremo pure ciò che tutti i processi celebrati finora per la strage di via D’Amelio non hanno saputo chiarire: chi e perché ha ammazzato Paolo Borsellino”.
Carmelo Canale, infatti, è stato perseguitato per 14 anni non solo perché aveva denunciato per calunnia e per istigazione al suicidio i diffamatori di suo cognato, il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, che si era sparato un colpo alla tempia con la pistola d’ordinanza il 4 marzo 1995 nel cortile della caserma, ma anche perché, 15 anni prima che lo confermasse il pentito di mafia Gaspare Spatuzza, aveva spiegato che le indagini e i processi per la strage di via D’Amelio erano stati un indescrivibile pasticcio e che i veri responsabili dell’assassinio di Paolo Borsellino e della scorta erano in libertà e in galera erano finiti gli innocenti.
Il maresciallo Lombardo, che aveva comandato per vent’anni la stazione dei carabinieri di Terrasini, il feudo del boss Gaetano Badalamenti, era stato inviato in missione negli Stati Uniti ed aveva convinto Badalamenti, detenuto nelle carceri americane, a venire a deporre in Italia al processo contro Giulio Andreotti, dove avrebbe smentito, come aveva preannunciato, le accuse di Tommaso Buscetta. Autorizzato a tornare negli Usa per prelevare Badalamenti e portarlo a Palermo, Lombardo, proprio mentre stava per partire, era stato accusato dall’ex sindaco di Palermo e leader della “Rete” Leoluca Orlando, ospite della trasmissione di Michele Santoro, di intelligenza con la mafia. La Procura di Palermo, sollecitata dai vertici dell’Arma dei carabinieri, si era rifiutata di smentire le accuse di Orlando e aveva fatto trapelare la voce che si accingeva ad arrestare Lombardo, e questi si era sparato nel cortile della caserma, dopo avere scritto una lettera, in cui denunciava che i suoi guai erano stati provocati dai “viaggi americani”, e cioè dall’avere lui convinto Badalamenti a venire a deporre e a smentire Buscetta.
Canale aveva subito parlato di “delitto di Stato” e, dopo aver denunciato per calunnia e istigazione al suicidio Orlando e Santoro, aveva rivelato il contenuto del rapporto fatto dopo il viaggio negli Usa al comando dell’Arma dei carabinieri da suo cognato Lombardo e dal suo superiore, il maggiore Mauro Obinu, in cui, dopo la conferma che Badalamenti era disposto a venire in Italia a smentire Buscetta, si denunciava che il sostituto procuratore di Palermo, che aveva accompagnato negli Usa i due carabinieri, aveva dimostrato “seria preoccupazione per la decisione di Badalamenti, pericoloso per l’impianto processuale” dell’accusa contro Andreotti poggiato sulle accuse di Buscetta, ed aveva esortato i carabinieri “a non insistere”. Canale sosteneva che qualcuno dalla Procura di Palermo aveva fatto conoscere a Orlando il rapporto segreto di Lombardo e del maggiore Obinu e che il cognato era stato appositamente diffamato e “istigato al suicidio” per impedirgli di andare a prendere Badalamenti e portarlo a deporre in Italia.
Non solo. Deponendo dinanzi allo commissione parlamentare antimafia, allora presieduta da Ottaviano Del Turco, Canale aveva sostenuto che la vicenda Badalamenti-Lombardo-Orlando-Procura di Palermo era intrecciata con la strage di via D’Amelio e che Borsellino era stato ucciso perché, lontano dalla Procura, di cui diffidava, e chiuso nella caserma dei carabinieri, stava indagando sull’assassinio del suo amico Giovanni Falcone con l’ausilio del maggiore Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, autori dell’indagine “mafia e appalti”, una indagine vanificata per la fuga di notizie dalla Procura e ritenuta da Borsellino la vera causa della strage di Capaci.
Canale non aveva finito di deporre dinanzi alla commissione parlamentare antimafia, tra le proteste dei membri comunisti della commissione, che abbandonarono la seduta, che spuntò il primo mafioso “pentito” ad accusarlo. Rapidamente i “pentiti” divennero cinque, poi sette, poi dodici, e accusarono Canale di aver fornito ripetutamente “informazioni” alla mafia in cambio di danaro, che gli era servito prima per curare una figlia malata e poi per costruirle la tomba al cimitero. Il pubblico ministero Massimo Russo (che poi è entrato in politica e oggi è assessore alla Sanità nella giunta Lombardo) aveva chiesto per Canale “che è un Giano bifronte - aveva gridato nella requisitoria finale - che ha indossato per anni la divisa di servitore dello Stato, ma al tempo stesso violava il giuramento di fedeltà alle istituzioni perché faceva parte della mafia, una mafia che è diventata il mostro che è grazie a individui abietti come lui”, la condanna a dieci anni di galera. Canale è stato assolto in primo e secondo grado con formula piena, e i giudici d’appello hanno respinto il ricorso di Russo, rilevando nel pm “preconcetti e ansia colpevolista” e “atteggiamenti ingenerosi”.
E tuttavia ci sono voluti 14 anni e Canale, nel frattempo, è andato in pensione senza poter recuperare la progressione in carriera, che per lui si è fermata al grado di capitano. Ora che è finita, i magistrati di Caltanissetta, competenti per i reati commessi dai magistrati a Palermo, dovrebbero riaprire i verbali segretati delle deposizioni rese all’epoca da Canale, che parlò per nove ore, e iscrivere nel registro degli indagati, sia il pm citato nel rapporto Lombardo-Obinu, che li voleva far “soprassedere” dal portare a Palermo Badalamenti, sia il pm, sempre della Procura di Palermo, che fece intendere che stavano per arrestare Lombardo e provocò il suo suicidio (e il suo nome è nel verbale della deposizione resa dall’allora colonnello Mario Nunzella, comandante dei Ros, dinanzi alla commissione parlamentare antimafia).
Nel frattempo, la commissione parlamentare, oggi presieduta dal senatore Pisanu, anche se è molto occupata a cercare i responsabili della presunta “trattativa” tra lo Stato e la mafia, potrebbe riaprire il plico della deposizione resa a suo tempo da Canale e indagare seriamente sulle responsabilità degli errori madornali commessi nelle indagini e nei processi per la strage di via D’Amelio, senza prendersela con i tre poveri poliziotti oggi indagati a Caltanissetta, ma chiedendone conto, come di dovere, a quella dozzina di pm che hanno indagato nei tre processi e a quella trentina di giudici del primo grado e dell’appello, responsabili delle aberranti sentenze che hanno condannato all’ergastolo gli innocenti e lasciato in libertà i colpevoli. Dal canto suo, il ministro della Giustizia farebbe bene a mandare gli ispettori alla Procura di Palermo per far cessare lo scandalo di questo accanimento giudiziario contro i carabinieri che, dopo il caso Canale, continua con le sedute spiritiche organizzate col figlio di Vito Ciancimino ai danni del generale Mori e, guarda caso, del colonnello Mauro Obinu. (il Velino)

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