Il generale Bruno Ganzer non può restare al suo posto. Trovo incredibile che questa evidenza non risulti tale agli occhi dei vertici istituzionali e del generale stesso. Così come trovo necessario sottolineare la follia di un Paese che ha appena finito di condannare, in sede penale, Gianni De Gennaro, all’epoca dei fatti capo della Polizia, ora condanna il capo del Raggruppamento Operativo Speciale, mentre sta ancora processando il suo precedessore in quel medesimo posto, il generale Mario Mori. La giustizia condanna i vertici della sicurezza, lo Stato condanna lo Stato, in una spirale devastante rispetto alla quale le posizioni personali dei diretti interessati rappresentano ben poca cosa.
Il cittadino Ganzer resta coperto dalla presunzione d’innocenza, naturalmente, che viene meno solo nel caso di condanna definitiva. Ma si deve essere ciechi alla luce della sensibilità istituzionale per non capire che non può restare a guidare il Ros una persona condannata, in primo grado, a 14 anni di carcere, e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per traffico di droga. Vorrei che legislatori e governanti ricordino di avere approvato una legge (dalla quale dissentivo e dissento) secondo la quale i dipendenti pubblici possono essere allontanati dal loro ufficio in pendenza di una condanna, sebbene non definitiva. E vorrei far presente che il carabiniere Carmelo Canale (di cui ci siamo occupati domenica), assolto fin dal primo grado, ha subito la sospensione dal servizio per il periodo massimo previsto dalla legge, cinque anni, al punto che ne è stata bloccata la carriera e anticipato il pensionamento (a proposito: il sempre innocente ha fatto domanda di riammissione, per avere il diritto di uscire dall’Arma a testa alta e dal portone principale, sicché chi di competenza farebbe bene a sbrigarsi, per fare il meno che lo Stato deve a questo suo servitore). Perché un tenente dovrebbe essere sospeso, senza mai essere incorso in una condanna, e un generale restare al suo posto, che comporta delicatissime responsabilità? Non c’è legge, né ragione, che consenta una simile disparità. Semmai il contrario.
La sentenza che condanna Ganzer è una botta micidiale alla credibilità delle istituzioni, ma il rimedio non consiste nel far finta di nulla, che è impossibile e controproducente, ma nell’affrontare il problema vero e serio: questo tipo di giustizia può mettere in scacco lo Stato, può bloccare gli uomini della sua sicurezza, può sovraordinarsi a qualsiasi potere. Il che non è il trionfo del diritto, ma la sua sopraffazione e il suo piegarsi alla logica della forza togata. Un pericolo enorme, specie con una politica che perde tempo a parlare d’inutili e controproducenti leggi sulle intercettazioni, al punto che anche un ufficio dell’Onu si permette di mettere bocca nelle nostre faccende interne, per giunta sparando sciocchezze sesquipedali.
Da quel che leggo della sentenza Ganzer, che riguarda anche altri ufficiali, ne traggo l’impressione che sarà riformata, a vantaggio degli imputati. Ma le impressioni mie, come di ciascuno, non valgono un tallero, quel che conta è la sentenza. La procura ha accusato, pesantemente, e il tribunale le ha dato ragione. Come si può pensare che il comandante generale dell’Arma e il ministro degli Interni confermino la fiducia al condannato senza, al tempo stesso, fissare la più totale sfiducia in chi ha giudicato? E come si può pensare che i carabinieri agli ordini del condannato collaborino, nella veste di polizia giudiziaria, con i magistrati che hanno accusato e condannato chi li comanda? Un totale cortocircuito, che non si rimedia lasciando le dita ben ficcate nella presa di corrente.
Trovo grave che il generale resti un minuto di più dove si trova, perché vedo in questo il tentativo di salvare capra e cavoli, di mettere la testa sotto la sabbia, di non volere prendere atto del divorzio istituzionale in atto, di far finta che non esista il conflitto palese fra pezzi dello Stato. Tanta incoscienza porta male, perché lascia che i problemi crescano fino ad esplodere, nell’incapacità di governarli. Così procedendo lasceremo il governo della cosa pubblica ai magistrati amministrativi e contabili, e quello della collettività ai magistrati penali, chiudendo i battenti della politica e riducendo la società a un insieme di temporaneamente non intercettati, non inquisiti e non condannati.
La politica ha colpe gravissime, fra le quali quella di cincischiare sulla robetta e lasciare impunita un’amministrazione giudiziaria che delle lungaggini e dell’inefficienza ha fatto le basi del proprio potere. Qual è il potere di un procuratore, vigente l’obbligatorietà dell’azione penale? Quello di perseguire chi gli pare e di lasciar languire, in attesa della prescrizione, chi gli piace. Può impressionare leggerlo in maniera così ruvida, ma questa è la realtà. Scientificamente costruita in venti anni di giustizialismo fascistoide. Qual è il potere dei tribunali? Quello di sentenziare senza mai rispondere degli errori, frapponendo decenni fra la sentenza sbagliata e il suo essere rosa dai sorci della derubricazione e della prescrizione. Tocca alle vittime, eventualmente, chiedere che la tortura continui, alla ricerca di un’assoluzione piena che non ha alcun valore.
Quali rimedi sono stati approntati, in tanti anni? Uno solo: la legge Pecorella, che stabiliva non potersi processare ancora chi era già stato assolto. Giustissimo. Ha provveduto la Corte Costituzionale a farla fuori, esercitando un potere politico che non le compete. Per il resto, il deserto. Concitato, rissoso, rovente, come quello che si dispiega sulle intercettazioni, ma che resta deserto.
Ganzer deve lasciare il comando dei Ros, non ci sono alternative serie. Anche perché è già da tempo passata l’ora in cui è necessario riprendere il controllo del diritto e della giustizia.
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