Copione perfetto. Suggestivo, ma fuorviante: prima lo sfregio alle statue di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, poi quattro gatti alla marcia del “popolo dell’agenda rossa”, quindi il governo assente alle celebrazioni per l’anniversario della strage di via D’Amelio. Non c’è altro da aggiungere, sono ingredienti più che sufficienti per la stampa originalmente conformista, pronta a scrivere che Palermo è ripiombata nell’omertà e nella connivenza, che lo Stato si prostituisce ai depistaggi e che solo pochi uomini, puri e coraggiosi, reggono il vessillo della verità e dell’antimafia. Tutto totalmente falso. Come ieri i politici dell’antimafia (Leoluca Orlando Cascio in testa a tutti) si scagliarono contro i migliori nemici della mafia, oggi i professionisti della commemorazione, veri profanatori del ricordo, si dedicano a inquinare la memoria, cercando ancora di sfregiare il volto di due uomini che morirono isolati e sconfitti, da palermitani che credevano nello Stato e lo servivano con non ricambiata lealtà.
Il Presidente della Repubblica lo ha detto in modo autorevolissimo: “si deve fare luce”. Forse sarebbe meno scontato e retorico chiedersi da dove è giunto il buio, e fare l’elenco dei nemici di Borsellino e Falcone. Che furono tanti. Qualcuno occulto, ma tantissimi noti e palesi, dentro e fuori il Consiglio Superiore della Magistratura.
In tutti questi anni sono state raccontate panzane colossali, ripetutamente facendo fare a Falcone e Borsellino la parte degli stupidi o quella, a loro davvero estranea, dei cospiratori. Gli stessi che provvidero a togliere dalle mani di Falcone le inchieste contro la mafia poi si sono visti, in gramaglie e condolenti, piangere la sua scomparsa, quale irrimediabile danno ai siciliani e agli italiani onesti. Ah sì? E allora, di grazia, perché la magistratura politicizzata e la sinistra togata dedicarono tanto tempo e fatica all’opera di demolizione, isolamento e neutralizzazione di Falcone? Sono cose che ho già scritto, anche se si dovrebbe ristamparle ogni giorno. Vorrei porre, però, una questione ai congiunti di Borsellino, a quelli non si fanno mancare un’occasione per comparire, al punto da organizzare manifestazioni che non manifestano nulla: scusate, ma voi sapevate che il carabiniere Carmelo Canale era uno strettissimo collaboratore del magistrato, tanto stretto che questi lo chiamava “fratello”, e sapevate che detto carabiniere ha subito 14 anni di processo, accusato d’essere un traditore e un venduto alla mafia? Io lo sapevo, e scrivevo che quell’ipotesi d’accusa era, prima di tutto, un’offesa a Paolo Borsellino, un modo per descriverlo deficiente e incapace. Non ho sentito le vostre parole, fra le tante che avete avuto modo di dire. Oggi avete una possibilità: reclamate il suo reintegro nell’Arma, da definitivamente assolto, fatelo per la memoria di Paolo Borsellino. Che qui abbiamo difeso sempre, senza attendere le ricorrenze e senza farne strumento di personale affermazione.
L’ultima offesa a Borsellino, in ordine di tempo, consiste nel raccontare che egli morì perché si oppose alla trattativa fra la mafia e lo Stato. E’ offensivo perché banale (figuratevi se Falcone e Borsellino potevano anche solo concepire una simile trattativa fra “istituzioni”!), offensivo perché derivante dalle parole di un Ciancimino qualsiasi, discendente di un disonorato che si asservì al crimine per fare soldi, e lasciarli ai familiari, offensivo perché facendo finta di credere alla trattativa fra la politica e la cupola si occulta la trattativa vera, che ci fu, e consistette nel fermare le indagini sugli affari e scarcerare canaglie meritevoli della galera a vita. A questa roba Borsellino si oppose per davvero, ed è la ragione per cui, come prima Falcone, era visto come un ostacolo da chi intendeva utilizzare le inchieste per fare politica, anziché giustizia, per alimentare teoremi, anziché cercare prove, e pagò, Borsellino, in vita con l’isolamento (come Falcone) e con l’interdizione a compiere certi atti d’indagine (ritirata la mattina stessa in cui un’auto bomba lo aspettava), e pagò da morto, perché le preziose carte dell’inchiesta mafia-appalti finirono nelle mani della procura di Palermo, che provvide a spezzettarle, smembrarle, neutralizzarle. I carabinieri che le avevano condotte finirono, a vario titolo, sul banco degli imputati, accusati di mafia.
Il cacasottismo mafiologico, la mollezza mentale e spinale di tanti biascicabanalità, usò le accuse a quei carabinieri quasi a dimostrazione che i due eroi, tali perché morti, sarebbero giunti chissà dove, avrebbero scoperto chissà quali santuari, se solo non fossero stati così velenosamente circondati e infiltrati. Sfuggiva un dettaglio: se quei due potevano essere circondati da mafiosi è segno che non erano eroi, ma cretini. Questo hanno finito con il far credere, i tanti marciatori della memoria bugiarda. Ora vorrebbero anche darci a bere che se i palermitani non si gettano in massa a sfilare dietro alle loro spalle è segno che sono ricaduti nella loro natura sicula: apatica, scettica, collusa. Essi offendono i morti, con i vivi.
Ho l’impressione che Palermo, vergine baldracca, assista a riti, voci, cortei e fiaccolate senza né commozione né indignazione. Ha la colpa di non credere mai. Ha l’attenuante che non ne vale la pena. Un atteggiamento che fa rabbia e paura. Ma, e riconosco la mia debolezza di panormense, sempre meglio di quel mondo che disarmò i due grandi palermitani, li consegnò alla morte e pretende di piangerli. Questo, fa schifo.
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