martedì 4 ottobre 2011

Assoluzione che condanna. Davide Giacalone

Possiamo far finta di credere che sia solo una sentenza, un semplice ribaltamento del giudizio di primo grado, passando dalla colpevolezza per omicidio all’innocenza. Avviene più spesso di quel che si crede. Possiamo anche spingerci a dire che la sentenza di Perugia dimostra che la giustizia funziona e sa correggere i propri errori. Ma forse è meglio guardare in faccia la realtà: l’assoluzione di quei due ragazzi condanna il modo in cui sono state fatte le indagini, il modo in cui s’è condotto il processo di primo grado e l’intero baraccone vergognoso del giustizialismo spettacolare, compresi i libri che hanno arricchito presunti esperti, che spero, da oggi, non siano mai più chiamati a svolgere quale che sia perizia a spese del contribuente.

E’ facile che qualcuno scriva, oggi, che l’Italia fa una pessima figura agli occhi degli statunitensi, i cui mezzi d’informazione si sono mobilitati per sostenere l’innocenza di una loro concittadina. Dissento: facciamo una pessima figura, è vero, ma agli occhi di noi stessi. Che dovrebbe essere ancor più grave. In quanto allo scenario globale, la giustizia italiana è già stata umiliata da francesi e brasiliani, che hanno, del tutto a torto, rifiutato di consegnarci un assassino. E’ già esposta al ludibrio generale dal suo inarrestabile e infruttuoso tentativo di condannare chi governa. E’ troppo berlusconiano sostenere che questa caccia all’uomo è incivile? No, è grandemente barbaro far finta di niente.

Nelle sue dichiarazioni spontanee la giovane imputata statunitense (non mi caverete il nome neanche ora, perché non contribuisco neanche con una goccia al dilagare infame della giustizia spettacolo) non si è difesa, ha accusato. Le sue parole sarebbero potute essere quelle di un occidentale qualsiasi che si trova a fare i conti con un buco nero tribale, o con un tribunale islamico: io mi sono fidata degli inquirenti, loro erano lì per difendermi, invece mi hanno usata e manipolata. Di questo c’è uno strascico nella condanna per calunnia. Più mite il coimputato, italiano, forse geneticamente meno attrezzato a considerare repellente la messa in scena. Mi ha colpito un particolare: la loro relazione è stata posta a fondamento del movente, raccontata come un sabba, loro, proclamandosi innocenti, ci hanno tenuto a proteggere quei loro sentimenti di allora. Come normali ragazzi, come persone cui la natura e l’età consentono di credere nel valore di un sentimento. Fosse stato un processo iraniano ne parleremmo con le lacrime agli occhi. Ma era italiano. Dovremmo piangere a dirotto.

Ma non è finita, e disinteressandomi, ora, della sorte di quei due, la cui vita è già massacrata, rivolgo l’attenzione a quella di noi tutti. Non è finita: la Corte di cassazione potrà chiudere il caso, ma potrà anche annullare la sentenza e chiedere un nuovo giudizio. Dimenticatevi Perugia: questo modo di procedere è folle. Se, avendo scopiazzato dalla formula americana, abbiamo stabilito che si può condannare solo in assenza di “ragionevole dubbio”, come mai si può credere che il dubbio non sia ragionevolissimo, se una corte, in un qualsiasi grado di giudizio, assolve? Noi riusciamo a demolire la ragionevolezza solo in base ad una finzione: chiamiamo “processo” l’insieme dei giudizi, per questo possiamo cambiarli a piacimento, sempre all’interno del medesimo “processo”. Era più che giusto quel che stabiliva la legge Pecorella: chi viene assolto non può più essere processato. La Corte costituzionale provvide a chiudere questo spiraglio di civiltà. Molti, troppi, ne pagano le conseguenze.

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