I giovani manifestanti dei cortei indignati, così come i giovani industriali si fanno un punto d’onore del non avere politici fra i piedi. Quel che hanno da dire preferiscono dirlo da soli e non trovano, fra i politici d’oggi, qualcuno con cui valga la pena discuterne. In più ci tengono, entrambe le gioventù, a mostrarsi indisponibili al fornire ad altri una tribuna. Sembrano l’incarnazione dell’indipendenza e della libertà, invece sono la pietrificazione della solitudine e dell’inefficacia. Alla fine si ha l’impressione che fatichino a fare i conti con la realtà.
Jacopo Morelli, che guida i giovani confindustriali, dice che siccome dalla politica arrivano “zero risposte” loro preferiscono starsene con “zero politici”. Aggiunge che tale posizione non deve essere considerata un cedimento all’antipolitica, ma una sollecitazione al passare dal dire al fare. Spero la prenda come un’autoesortazione, in modo che anche loro comprendano la necessità di passare dal lamentarsi all’agire. Gli propongo un piccolo test (sono ancora riuniti a Capri, per il loro annuale convegno): chieda ai presenti di alzare la mano se sono dei giovani imprenditori che hanno avviato una propria iniziativa e di tenerla abbassata se figli d’industriali. Gli auguro di contare molte mani, ma temo se ne sollevino poche. Nell’essere figli d’imprenditori, ovviamente, non c’è nulla di male, e se, in tale condizione, ci s’impegna nel lavoro anziché nel gozzovigliare con le ricchezze di famiglia si è degni di buona considerazione, ma il problema, appunto, è che il nostro mercato è troppo poco elastico e i giovani che fondano le imprese sono troppo pochi. Crede che tutta la colpa sia della politica? Si sbaglia, di molto.
I manifestanti di sabato scorso, al netto dell’esercito terrorista, cui si risponde con la repressione, chiedono che non si paghi il debito, che si offrano garanzie agli esclusi, che si assicuri un posto di lavoro a chi lo chiede. Sono stati in moltissimi, in questi giorni zuppi di viltà ed ipocrisie, a pronunciare la seguente e ridicolissima frase: ci si deve sforzare di comprendere le loro ragioni. No, si deve provare a trovare qualcuno che abbia la testa e la faccia per dire loro che non stanno né in cielo né in terra. Quei ragazzi chiedono di potere proiettare nel futuro il mondo storto dei loro padri e dei loro nonni, colmo degli errori che oggi ci costano un così alto debito pubblico. Più che dei rivoluzionari sono dei reazionari. Credono, loro, che i guasti con cui dobbiamo fare i conti siano tutti colpa della politica? Si sbagliano, alla grande.
La colpa della politica, da molto tempo a questa parte, consiste nel non essere stata migliore del mondo di cui era espressione. Di avere amministrato il consenso senza essere capace di aggregarlo attorno a idee nuove, in questo modo illudendo e illudendosi che il tirare a campare fosse già un risultato apprezzabile. Tale colpa ce la trasciniamo dietro dall’eclissi dell’ultimo sforzo riformista, più o meno coincidente con l’appannarsi del centro sinistra (preistoria, me ne rendo conto, ma senza conoscerla sarà complicato costruire un futuro che non sia la mesta riproposizione del presente). Ci sono stati alti e bassi, ma da troppo ci trasciniamo senza mettere in campo un ideale che non degeneri in ideologia. Questa colpa politica, però, coincide con l’avere aderito a quel che gran parte della società chiedeva: dai sussidi alle imprese bollite, che avrebbero meritato di fallire, al mantenimento di posti di lavoro improduttivi, dagli appalti pubblici gestiti in regime di connivenza fra amministratori e imprese, all’allargamento della spesa pubblica per proteggere intere fasce sociali dal mercato. Pensare che si possa fuggire alle responsabilità dicendo che è tutta colpa della politica equivale a credere che si possa ripulire il mondo con la mannaia giustizialista, come si fece nel biennio 1992-1994, con il risultato di ritrovarsi con una politica peggiore e una corruzione superiore. Un capolavoro.
Il problema, allora, non è quello di stabilire se invitare, o meno, un politico a un convegno, o consentire che sfili in un corteo, contorniato dal solito nugolo di telecamere alla ricerca di qualcosa da trasmettere e non di qualcosa da raccontare. E il problema non è neanche quello di schierarsi da una parte o dall’altra, anche perché, se ne saranno accorti, i non schierati si ritrovano su fronti opposti, il che dimostra l’inutilità del disallineamento. La sfida, se hanno l’ambizione di coglierla, è ben diversa: prendere atto che gli ostacoli al cambiamento non sono i cattivoni della politica, i quali, più che altro, sono dei ciarlieri incapaci allo sbaraglio, ma il fatto che gli interessi alla conservazione sono diffusi, permeando anche le sale capresi e i cortei multicolori, e limitarsi a declinare l’elenco dei diritti o quello delle doglianze è cosa di fenomenale inutilità, perché si deve essere capaci di costruire consenso e alleanze in grado di forzare il blocco del sempre uguale e aprire il Paese e il mercato all’ossigeno della realtà. Che è dura, ma promettente.
Dalla politica non si deve fuggire né sfuggire, ma essere capaci di farla. Il resto è propaganda, non meno stucchevole di quella politicante.
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