Leo Longanesi disse, “I fascisti si dividono in due categorie: fascisti ed antifascisti”. Alla seconda categoria apparteneva Giorgio Bocca, che per la verità fino al 1943 è appartenuto anche alla prima, dopo aver firmato nel 1938 il Manifesto in difesa della razza a sostegno delle leggi razziali e che ancora nel 1942 scriveva “Sarà chiara a tutti … la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù”.
Dopo l’8 settembre, dimostrando ottimo intuito, divenne antifascista e come partigiano nella divisione “Giustizia e Libertà” attese le truppe americane che risalivano la penisola per liberare l’Italia. Il contrappasso lo raggiunse a guerra finita(!), quando come responsabile dei Tribunali del Popolo partigiani, una sorta di industria della vendetta e dell’odio, condannò a morte per fucilazione presunti traditori e repubblichini.
Nel 1975 quando già si contavano i primi morti, dopo aver firmato, con la solita compagnia di giro che a tutt’oggi ci fa la morale, l’appello contro il commissario Calabresi, sostenne, assieme al PCI, che le Brigate Rosse fossero una favola raccontata agli italiani dagli inquirenti e servizi segreti. Nel marzo del 1980 disse ancora “la nascita del terrorismo è stata tenuta a bagnomaria per costruire la teoria degli opposti estremismi”, erano gli anni di piombo e il sangue di giudici, politici, cittadini scorreva ormai da un decennio.
Più tardi, con un linguaggio da far arrossire anche un tipo come Borghezio, vomitò odio anche sul Sud “Durante i miei viaggi al sud c’era sempre questo contrasto tra paesaggi meravigliosi e gente orrenda, un’umanità repellente”. Un commento insomma da razza padana, cinico e sprezzante, non dissimile a quello che riservò, dimostrando un’acerrima omofobia, a Pasolini.
Negli anni ottanta fu uno dei primi giornalisti di un certo nome a frequentare con successo, anche economico, gli studi Fininvest e le tipografie Mondadori, per poi considerare servi tutti gli altri che l’hanno fatto dopo, e definire Berlusconi, in un afflato di lirismo, “un maiale”. Si vantava di essere senza padroni, scordandosi che nel 1976, fondò assieme a ad Eugenio Scalfari “Repubblica”.
Ci lascia un opportunista scaltro, cinico, fascista quando Mussolini era all’apice, partigiano quando il regime cadde e le sorti della guerra erano segnate, leghista quando Bossi predicava la secessione e conquistava il Nord, Berlusconiano quando c’era da mangiare a Fininvest, protagonista di Repubblica quando c’era da strisciare al fianco del fallimentarista De Benedetti.
Insomma il classico percorso di tanti intellettuali nostrani, un percorso a tratti indecente, viscido, fatto di opportunismi e convenienze. Umana pietà per chi non c’è più e per chi ha lasciato, ma ci si risparmi il frignare delle prèfiche inconsolabili che oggi lo definiscono, con la solita ipocrisia, “Maestro”. (l'Occidentale)
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