Quella carceraria non è un’emergenza, ma un’indecenza. Il ministro della giustizia, Paola Severino, fa bene a occuparsene. Ma faccia attenzione a non confondere le cause con gli effetti e a non immaginare soluzioni, come quelle di cui si sente parlare, che suonano come un favore ai colpevoli e un ulteriore sfregio per gli innocenti. Il fatto che il pontefice si sia recato a Rebibbia e qui abbia pronunciato parole dure (e giuste) contro il sovraffollamento, mi fa rizzare le orecchie, perché già le parole del suo predecessore, pronunciate in Parlamento, furono utilizzate per favorire un provvedimento oltraggioso e inutile, l’indulto.
Non sono un’emergenza, le carceri, come non lo è la spazzatura a Napoli: sono fenomeni d’inciviltà permanente, che talora tornano agli onori della cronaca, salvo restare tali anche quando non se ne parla. Nel caso delle galere, quel che causa il problema non è il moltiplicarsi del crimine, ma il crescere dell’inciviltà giuridica. La causa è la malagiustizia, l’effetto il sovraffollamento. Più della metà dei detenuti italiani non stanno scontando una pena, ma stanno aspettando di sapere se devono scontarla. Sono “in attesa di giudizio”, come il titolo del film con Alberto Sordi (regista il grande Nanny Loy), che più lo guardi più ti arrabbi, perché le cose sono peggiorate, restando immutabili. Più della metà dei carcerati, quindi, devono, secondo la Costituzione e la Convenzione Europea Diritti dell’Uomo, essere considerati innocenti. Non ci si deve chiedere dove metterli, ma come dar loro giustizia.
Se, invece, si parte dalle celle, saltando i tribunali, va a finire che si presentano proposte come quelle che il ministro ha formulato: mandare agli arresti domiciliari chi ha ancora 18 mesi da scontare, oppure rilasciare chi ha condanne inferiori ai 4 anni, pensando a pene alternative. Misure concepite per sfoltire le presenze, ma che portano a una singolare e abominevole conseguenza: escono i condannati e restano dentro gli innocenti. E’ già successo con l’indulto, e siamo fra i pochi che protestarono.
Il tema è così delicato, e di così rilevante portata, che tutti dovrebbero proibirsi le sparate propagandistiche. Aggiungo subito, quindi, che il ministro fa bene a dire che il tema dell’amnistia deve essere preso in considerazione, e vado oltre: è necessaria, si deve fare. Al contrario dell’indulto, che cancella solo la pena, l’amnistia cancella anche il reato e il procedimento, quindi evita che il sistema soffochi sotto al peso dell’arretrato. E’ un provvedimento ingiusto, repellente. E’ uno schiaffo in faccia alle persone oneste, una stilettata al cuore degli innocenti. Ma è necessario. Solo che deve essere fatta dopo la riforma della giustizia, non al suo posto. Deve prendere corpo dopo avere liberato i palazzi di giustizia dai corporativismi, dalle politicizzazioni e dalla nullafacenza, non materializzarsi quale succedaneo di ciò che non si è capaci di fare. Perché in questo secondo caso la vergogna sarebbe incancellabile e la rabbia incontenibile.
Ai non condannati il ministro pare abbia rivolto una sola attenzione, immaginando che gli arrestati possano restare per due giorni nelle celle di sicurezza delle polizie. Idea pessima. Consapevole di quel che significa pare lo stesso ministro abbia suggerito di cambiare loro il nome, denominandole “sale di custodia”. Ora, a parte il fatto, cui non voglio credere, che l’idea sarebbe venuta, a lei ed alla collega degli interni, nel mentre andavano alla prima del San Carlo (e vi garantisco, signori del governo, che si vive bene anche senza andare a teatro a scrocco, dimostrandosi già corrotti dall’effimera fama passeggera, così come vi avverto che i vostri predecessori sono stati travolti anche dall’incapacità di comprendere che il loro mondo era divenuto irreale), a parte ciò, dicevo, cambiare il nome alle cose non muta le cose stesse: la cella di sicurezza, senza controlli e garanzie, è roba medioevale. Toglietevelo dalla testa.
Ciascuna persona civile non può non sentirsi offesa dallo stato delle nostre carceri. Ciascun cittadino non può non avvertire che la soluzione deve portare maggiore giustizia, come anche certezza che i condannati scontino la pena. Noi che abbiamo dedicato alla giustizia tanta parte della nostra vita una cosa l’abbiamo imparata: la bontà delle intenzioni non conta nulla. Contano i risultati.
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