lunedì 19 dicembre 2011

Differenza tra crisi economica e crisi dei mercati. Gianni Pardo

Se un uomo si rompe una gamba ed ha la diarrea, soffrirà dell’ingessatura e del dover correre continuamente in bagno. Naturalmente ognuno dei due mali renderà peggiore l’altro, ma questo non significa che la frattura dipenda dallo stomaco o il mal di stomaco dipenda dalla frattura.

Nella crisi economica italiana si rischia una analoga confusione. Noi soffriamo del peso degli interessi sul debito pubblico e della recessione economica, ma i due fenomeni non sono eziologicamente collegati: l’unico punto comune è che l’uno aggrava l’altro.

La grande massa del debito pubblico si è formata in anni lontani, mentre negli anni recenti l’Italia è stata molto virtuosa: i proclami di Tremonti non erano infondati. Ma c’è stata la crisi mondiale cominciata nel 2008, si è avuta la crisi della Grecia, l’Italia si è avviata alla recessione, i mercati si sono preoccupati e la cosa ha fatto valanga: da questo l’aumento dei tassi di Bot e Btp. L’Italia aveva ed ha necessità di venderli per pagare col ricavato quelli in scadenza e abbiamo toccato picchi dell’8% di interesse: con impegni che domani potrebbero salassarci a morte.

Facciamo l’ipotesi che la crisi si fosse verificata mentre l’Italia andava a gonfie vele, il pil aumentava del 4% l’anno - non si sta dicendo niente di mitologico - e le prospettive economiche erano rosee. I mercati, pur preoccupati per la crisi mondiale, si sarebbero detti che, comunque, l’Italia rimaneva solida. È quello che pensano della Germania, e proprio per questo i suoi tassi d’interesse sul debito pubblico sono tanto più bassi dei nostri (il famoso spread). Se domani l’euro scoppiasse, non è che la Germania non piangerebbe: ma la sua situazione interna è più rassicurante e i mercati ne tengono conto.

In Italia siamo nei guai perché la crisi dell’euro e il macigno del debito pubblico pesano su una nazione che economicamente non progredisce più ed anzi indietreggia: si chiama recessione. La domanda diviene dunque: come se ne esce?

La formula scelta dalle autorità europee ed italiane, fino ad ora, è stata quella di un aumento della pressione fiscale. Gli italiani sono stati “invitati” a dare di più allo Stato e consumare meno per loro stessi. Solo che il denaro dato allo Stato è sterile, non produce ulteriore ricchezza, mentre consumando di meno gli italiani comprano di meno, i commercianti vendono di meno, gli industriali producono di meno e lo Stato intero tende ad impoverirsi, accentuando la recessione. Prosit.

Un’altra formula, molto in voga nel secolo scorso, era quella di John Maynard Keynes, se l’abbiamo capita bene. Lo Stato lancia (facendo debiti) enormi lavori pubblici, in modo da combattere la disoccupazione, far produrre di più le imprese, immettere liquidità nel sistema, e fa ripartire l’economia. Sempre se abbiamo capito la teoria di Keynes, questo “acceleratore” funziona se il piede su di esso è tenuto momentaneamente, mentre nel secolo scorso non lo si tolse più dal pedale e questo creò il debito pubblico. Oggi Keynes è visto come uno che aveva torto e non bisogna parlarne, mentre forse non è la teoria ad essere sbagliata ma l’applicazione che se ne dette.

Rimane l’ultima soluzione, quella di cui nessuno vuole parlare: un cambio di modello produttivo. Invece di invitare la Cina a fare come noi, noi dovremmo fare come la Cina. Attuare una liberalizzazione selvaggia del tutto dimentica delle famose “conquiste dei lavoratori” che ci hanno portato dove siamo, fino a rilanciare la nostra economia come una tigre. Ché poi, quando fossimo riusciti a riconquistare la prosperità economica, si potrebbe anche riparlare di salari minimi, stabilità del posto di lavoro, pensioni anticipate e ogni sorta di bonus. “Intanto guarisci dalla malattia e vai a lavorare, poi ti godrai le ferie a Montecarlo”.

Ma non c’è speranza. Il dogma corrente è che l’economia deve funzionare e produrre ricchezza anche se si fa di tutto per intralciarne il cammino. Se poi rallenta, la soluzione è aumentare la pressione fiscale e andare a cercare altri evasori. Il grande tecnico Monti non vede altro: da bravo antiberlusconiano, per lui uno Stato serio è uno Stato che impone tasse, e che, quando le cose vanno male, impone tasse, tasse e tasse. Come diceva lo scorpione alla rana, in un famoso aneddoto, “è la sua natura”. E, purtroppo, la natura dell’intera Italia. (il Legno Storto)

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