martedì 10 luglio 2012

A cosa serve la spending review? A far vincere sempre il partito delle pensioni. Giuliano Cazzola

A conclusione dei Campionati europei di calcio, il CT della Nazionale Cesare Prandelli (osannato con qualche esagerazione per la buona performance dell’Italia perché è singolare che un squadra abbia esaurito le sostituzioni già al 16° minuto del secondo tempo) si è permesso un commento un po’ osé in presenza di un Presidente della Repubblica che aveva appena compiuto 87 anni: l’Italia è un Paese vecchio. In quelle stesse ore, l’Istat diffondeva la consueta rilevazione sulla disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni senza che nessuno si chieda mai se si tratti o meno di una coorte effettivamente rappresentativa del lavoro giovanile) denunciando un tasso superiore al 36%.

Le due circostanze hanno ovviamente trovato spazio nei commenti dei media e nelle dichiarazioni di esponenti politici e sindacali, con forti sottolineature sulle priorità che dovrebbero avere d’ora in poi le politiche pubbliche, con misure a favore dei giovani. Archiviata con poche speranze - circa il conseguimento di tale obiettivo - la legge Fornero sul lavoro, nonostante l’impegno assunto da Monti in persona di individuare “tempestivamente” delle modifiche presumibilmente inserite nel decreto sviluppo, vedremo se quest’ultimo provvedimento determinerà un minimo di ripresa produttiva in grado di riattivare anche il mercato del lavoro in modo da compensare, almeno in parte, gli effetti negativi che saranno prodotti, appunto, dalla riforma Fornero.

Nel frattempo, accompagnata dal solito frastuono mediatico, è arrivata la spending review, un provvedimento che dovrebbe tagliare 26 miliardi di spesa pubblica in un triennio, intervenendo sulla sanità e sul pubblico impiego. Di qui le proteste dei sindacati che hanno minacciato, in ordine sparso, il ricorso allo sciopero generale pur senza deciderne ancora la data. L’Italia è proprio un Paese strano.

Quando non si corrono rischi di tagli, tutti si scagliano contro gli ospedaletti di provincia, dicendo che, in realtà, sono poco più che infermerie, del tutto inadeguate ad affrontare patologie di una qualche gravità. I servizi televisivi, a caccia di episodi di malasanità, ci propinano casi di persone ricoverate in questi presidi, poi costrette ad andare altrove per poter disporre delle cure necessarie. Gli assessori regionali alla Sanità, quando sono in vena di dire la verità, raccontano, nelle tavole rotonde, le difficoltà che incontrano nel ristrutturare o chiudere i piccoli ospedali, divenuti centri di spesa pressoché inutili, perché si imbattano in numerosi ostacoli architettati dal personale dei nosocomi e soprattutto dai primari (veri e propri generali senza esercito) che riescono a sollevare le proteste delle autorità locali e delle comunità, per le quali avere un ospedale sotto casa è una questione di prestigio e di (apparente) comodità.

Ci raccontiamo queste storie da sempre, salvo dover constatare che, ogni qual volta si affronta il problema della chiusura di queste strutture, gli interessi colpiti si travestono da grandi questioni di principio. Lo avete notato ?

Se un datore di lavoro chiude una fabbrica e licenzia i lavoratori, i sindacati se la prendono con lui. Se invece si chiude un ospedale, eccoli pronti a denunciare che è in atto un pesante attacco al welfare, alla riforma sanitaria, al servizio pubblico a favore delle cliniche private, ai diritti fondamentali dei cittadini. In sostanza, ogni portantino, ogni usciere ed ogni bidello (chissà perché le pulizie nelle scuole non possono essere affidate in appalto?) impersonano in sé una particella di socialismo.

Ma il finale di questa storia italiana, ancorchè impersonata da attori travestiti da supertecnici (che nel caso della spending review hanno mobilitato un tecnico ancora più ‘super’ come nella pubblicità dell’acqua che elimina l’acqua), finisce in gloria, come tutti i salmi.

A che cosa serviranno i risparmi derivanti dai tagli ? In larga misura, a tutelare altri 55mila esodati (portando a 36 mesi il periodo di salvaguardia delle regole previgenti). In sostanza, le pensioni prima di tutto, anche se i sindacati insisteranno (farà loro eco il Pd) nel sostenere che il problema non è risolto. E come avverrà la riduzione dei pubblici dipendenti (che era pur sempre un punto della famosa lettera della Bce del 5 agosto scorso) ? Grazie ai pensionamenti anticipati del personale in esubero o in mobilità. Nella previdenza del pubblico impiego, negli ultimi anni, ne abbiamo viste di tutti i colori. Bruschi innalzamenti dell’età pensionabile insieme a misure di “pensionamento forzoso”.

Da ultimo, nella riforma Fornero persino lo “sconto” per i nati nel 1952 (che potranno andare in quiescenza a 64 anni) valeva soltanto per i settori privati, mentre ora, a quanto si dice, per favorire l’esodo dei dipendenti pubblici - in misura di 300mila - saranno ripristinati gli ordinamenti in vigore prima del decreto SalvaItalia.

Insomma, in Italia, le pensioni, tecnici o no, sono sacre. Alla fine vincono sempre. (l'Occidentale)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

il padrone si ricandida per il 2013

il resto è nulla

alleluia alleluia

Anonimo ha detto...

Una persona normale per quanti anni deve lavorare?

Secondo il mio modesto parere 40 anni effettivi di lavoro sono sufficienti.

Avete mai pensato cosa sono 40 anni di lavoro, invece li portano a 42 e i nostri politici (e non solo) si preoccupano di
Berlusconi ....