lunedì 4 agosto 2014

La faccia tosta e le tante colpe dei maestrini ambientalisti. Franco Battaglia


Fa un poco di pena e molta rabbia ascoltare il presidente onorario di Legambiente, Ermete Realacci, sdottorare sugli eventi tragici. Sui quali plana come fanno gli avvoltoi che, non paghi della carne di cui si sono già saziati, cercano di succhiare altro sangue dalle vittime.
Sentite qua le dichiarazioni che l'onorevole, chili di bronzo sulla faccia, non ha il pudore di risparmiarci: «La bomba d'acqua nel Trevigiano conferma purtroppo tragicamente la necessità di contrastare i mutamenti climatici e gestire bene il territorio.

Una politica utile e lungimirante deve dare priorità alla riduzione dei gas a effetto serra e considerare la manutenzione del territorio la prima grande opera che serve all'Italia. La nostra economia può ripartire anche da qui».

Questo signore è tra i responsabili morali dei fatti, sui quali dovrebbe almeno tacere. Per ben trent'anni è stato cattivo maestro, strepitando che bisognava proteggersi dagli eventi climatici impegnando denaro pubblico con la green economy . Che consiste nel finanziare l'installazione di impianti eolici e fotovoltaici, sui quali quelli di Legambiente devono aver fatto lucrosi affari, come ha denunciato Il Fatto Quotidiano dello scorso 10 giugno: «Legambiente ha quote in società coinvolte negli affari della riduzione della CO2». Una di queste è la Sorgenia dei De Benedetti che, recita il sito web di Legambiente, «sostiene le attività» dell'associazione ambientalista. Già: come la Volpe zoppa sostiene il Gatto cieco.

E cieca è stata l'isteria ambientalista a portare il Paese nel baratro economico e ambientale, inducendolo, prima, a rinnegare la fonte nucleare d'energia, l'unica che avrebbe messo la parola fine ad ogni discussione di politica energetica; e poi a terrorizzare la popolazione con lo spettro dei cambiamenti climatici, inducendo i governi ad affrontare il presunto problema impegnando centinaia di miliardi su presunte soluzioni.

Perché bisogna aver chiaro che il problema della CO2 è finto e, anche fosse vero (ma non lo è), neanche centinaia di migliaia di miliardi impegnati su quelle tecnologie potranno mai scalfirlo. La piovosità del luglio 2014 è del 70% maggiore della piovosità media del periodo 1970-2000. E allora? Chissenefrega! Perché, se è vero quanto appena detto, è anche vero che il luglio 1932 fu il 50% più piovoso del luglio 2014, e dal 1800 a oggi ci sono stati altri 12 luglio più piovosi. Questo luglio è stato più fresco del solito? Chissenefrega: i lugli del 1993 e del 1996 furono ancora più freschi. Alla faccia del riscaldamento globale sul quale quelli di Legambiente hanno costruito la propria fortuna politica ed economica.

Ciò di cui invece non dovremmo fregarcene è che il clima fa i capricci: in ogni stagione di ogni anno v'è sempre stato e sempre vi sarà quel giorno, anche uno solo, in cui quei capricci hanno conseguenze tragiche.

Abbiamo una sola via da percorrere, ed è quella che proprio Realacci - per mettere una foglia di fico sulle proprie vergogne - ha indicato: considerare la manutenzione del territorio una grande opera che serve all'Italia. Ma servono tanti soldi. È cruciale innanzitutto interrompere, anche retroattivamente se necessario, lo sperpero delle sovvenzioni a eolico e fotovoltaico: sono diverse centinaia di miliardi che andrebbero riversate nelle tasche degli ingegneri e dei geologi in cambio della messa in sicurezza del nostro povero territorio abbandonato per troppi decenni. E poi bisogna isolare e mettere da parte gli ambientalisti e togliere dalle loro irresponsabili mani il giocattolo pericoloso di cui si sono impossessati.

(il Giornale)



mercoledì 30 luglio 2014

Calcio, zingari e l'ipocrisia del vocabolario. Vittorio Feltri

Il nostro eccellente Giuseppe De Bellis si è già esibito sul Giornale scrivendo cose giuste sul caso Carlo Tavecchio, un cognome che ha una componente offensiva: in una società nella quale l'unico settore che non cala, bensì cresce, è la chirurgia plastica, accompagnata da terapie antiossidanti e roba simile, evidentemente la vecchiaia è considerata un'infamia.
 
Gaffe di Tavecchio e piovono critiche da tutta Europa
Chiedo scusa se mi cito. Su Twitter - la palestra dell'insulto elevato a categoria del pensiero - vi sono numerosi gentiluomini che, quando non sono d'accordo con me, non si limitano a dirmelo: mi coprono di contumelie fra cui spiccano quelle riferite alla mia non verde età, tipo «vecchio stronzo», «vecchio rimbambito», «brutto vecchio, cedi il tuo posto privilegiato a un giovane», «vecchio bollito» (la variante è «brasato»).
La parolaccia è entrata prepotentemente nei conversari correnti e quella che ferisce di più è «vecchio porco». Una volta si chiamavano «vecchi» i genitori, e nessun papà e nessuna mamma si adontavano. Ma oggi il sostantivo/aggettivo «vecchio» ha un significato talmente negativo da essere impronunciabile. Provate a dire a una signora che è vecchia: vi mangia vivi per dimostrare di avere ancora denti buoni e un'ottima digestione.
Torniamo a Tavecchio. Lo sciagurato, aspirante presidente della Federazione italiana giuoco calcio, in un discorso programmatico in cui ha espresso concetti condivisibili, si è lasciato scappare una frase che i più moderati hanno giudicato infelice. Questa, all'incirca: «Nel nostro Paese i club pedatori trascurano i giovani e inseriscono nella rosa dei titolari ragazzi modesti che fino a ieri si nutrivano di banane». Vogliamo esagerare? Non si è trattato di proposizione elegante, ma simile a mille altre che quotidianamente si odono in ogni ambiente. Anche nei giornali. Per esempio: il soprannome più diffuso di Silvio Berlusconi è il Banana, che viene usato regolarmente su giornali e in spiritosissimi (si fa per dire) programmi televisivi satirici. Dal che si evince che c'è Banana e banana. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell'umorismo, se, viceversa, dai del banana a un africano abbronzatissimo sei un grandissimo bastardo, sinonimo delicato di figlio di puttana. E ti espellono dal consorzio civile.
Mi domando: come mai la banana ha una doppia reputazione a seconda di chi la mangia o, meglio, la interpreta? Trattasi peraltro di un frutto nobile, buono, nutriente e, fino a mezzo secolo fa, raro, il che lo rendeva prezioso. Quando ero bambino, soltanto Babbo Natale provvedeva a regalarmene una (di numero) per allietare la mia povera mensa. La trovavo la mattina sul tavolo della cucina accanto a due o tre pipe di zucchero rosso, un paio di arance e un'automobilina di latta. Se non ricordo male, c'era tra quel bendidio anche qualche carruba: forse non è un dettaglio importante per voi che leggete, ma, a mio avviso, rende l'idea del mondo in cui vivevamo, ammesso che ciò sia interessante.
Ecco. Abbacinato dai doni piovuti dal cielo, rimanevo in contemplazione dei medesimi per alcuni minuti, poi afferravo la banana, la incartavo e la portavo a un vicino di casa che sapevo esserne golosissimo. Suonavo alla sua porta e non appena egli si affacciava gli porgevo il frutto. Lui mi abbracciava e ringraziava. Per me era una soddisfazione, anche se non ero iscritto all'Arcigay. Il costume è mutato. Se oggi facessi omaggio di una banana all'inquilino del mio piano, sarei preso a calci nel deretano (eufemismo di culo).
Tavecchio ha 71 anni, quanti ne ho io. Sono certo che per lui, come per me, la semantica bananiera non ha alcuna valenza respingente. Sarebbe assurdo il contrario. Constato che ormai in Italia non si discute più sui contenuti, ma sull'involucro lessicale. Personalmente, ai tempi in cui gli extracomunitari furono malmenati e sfruttati a Rosarno (Calabria), pubblicai questo titolo sul Giornale : «Hanno ragione i negri». Non l'avessi mai fatto. Le penne di lusso, su numerosi quotidiani, mi redarguirono aspramente. Pier Luigi Battista del Corriere mi crocifisse. L'Ordine dei giornalisti mi processò dopo avermi tenuto sotto inchiesta quattro anni: fui assolto, e me ne stupii piacevolmente. Avevo dato la causa per persa, poiché nessuno aveva letto l'articolo che difendeva i poveracci: tutti si erano soffermati con indignazione solo sul termine «negri».
Il nostro direttore Alessandro Sallusti è pure stato sottoposto a procedimento disciplinare (si attende la sentenza) perché ha chiamato zingari gli zingari. E come doveva chiamarli? Extraterrestri? Le fobie linguistiche contrassegnano la nostra epoca politicamente corretta, forse, sicuramente imbecille. I netturbini non sono più spazzini, anche perché non spazzano una mazza, ma operatori ecologici. Guai a non attenersi al nuovo bon ton. Magari non ti denunciano, ma ti sputtanano, ti danno del razzista. Veniamo ai sordi. Che non sono più tali anche se non sentono: meritano l'appellativo di audiolesi. Tra poco definiremo così gli impotenti: tirolesi. Ovviamente gli orbi non sono orbi ma ipovedenti. E i ciechi non sono ciechi ma non vedenti. Con angoscia mi chiedo: come posso etichettare uno stitico seguendo lo stesso metodo glottologico? Sono in imbarazzo.
Il vituperato Tavecchio immagino sia sorpreso dal trattamento ricevuto per avere detto la verità con parole sue, brutte ma chiare. Condannato per una banana. Non è serio. Anche perché egli ha centrato il problema. Il nostro calcio è in declino in quanto esterofilo: apre le porte all'Africa e le chiude alla Campania e al Friuli, vivai di campioni o almeno di ottimi giocatori. Anche all'estero hanno arricciato il naso per le banane di Tavecchio. Ridicolo.
Noi italiani, anche orobici, valdostani e veneti, veniamo dileggiati con i soliti luoghi comuni: spaghettari, mandolinari, pizzaioli. E ci tocca stare zitti o, al massimo, sorridere. Se però evochiamo la banana siamo rovinati. E i primi a rovinarci sono i nostri compatrioti spaghettari della malora.

(il Giornale)

giovedì 24 luglio 2014

Centrodestra = Tagliare le tasse




In queste ultime settimane, dopo i negativi risultati delle formazioni italiane di centrodestra alle elezioni europee, si è osservato un florilegio di pubblicistica sulla possibile costruzione di un modello vincente per quest’area che nel nostro Paese, checché se ne dica, è maggioritaria e che il 25 maggio ha visto gli elettori disertare i seggi. Evidentemente, l’offerta politica non li ha convinti pienamente e hanno preferito andare al mare.
Abbiamo così nell’ordine assistito:
Ed è proprio su quest’ultimo punto che Wall & Street vogliono dire qualcosa visto che quotidianamente si occupano di economia e di finanza e, quindi, non sono proprio gli ultimi arrivati. Escludendo qualsiasi notazione politica (che non è di nostra pertinenza), possiamo affermare tranquillamente quanto abbiamo sintetizzato nel titolo. Il centrodestra non ha bisogno di idee perché il centrodestra è una curva: la curva di Laffer, elaborata dall’economista che ispirò la politica fiscale dell’amministrazione di Ronald Reagan (e che fu tenuto in conto anche da Margareth Thatcher). Ebbene sì, abbiamo nominato due spauracchi della sinistra (e anche della destra italiana). Non possiamo farci nulla, ci dispiace: il centrodestra è questo.

La curva altro non è che una parabola che qui rappresentiamo nella sua forma più regolare possibile. Sulle ascisse c’è la pressione fiscale, sulle ordinate il gettito. Anche se una parabola è la rappresentazione di un’equazione, l’economia non è una scienza esatta e le leggi che se ne desumono derivano dall’osservazione empirica della realtà. Andrew Laffer aveva registrato che, oltre una determinata aliquota, il gettito decresce perché l’eccessiva pressione fiscale favorisce l’evasione, l’elusione e l’abuso di diritto (si portano i capitali dove sono meno tassati). Convinse così Reagan che per rilanciare l’economia Usa bisognava abbassare le tasse. E miracolo fu…
La curva di Laffer, infatti, altro non è che l’osservazione puntuale dell’applicazione della flat tax teorizzata dal premio Nobel, Milton Friedman (grande padre dell’economia liberale). Friedman riteneva che il sistema fiscale fosse un «casino del diavolo» (unholy mess): per semplificare e non incoraggiare gli evasori si sarebbe dovuta applicare un’aliquota unica (la flat tax) ed eliminare deduzioni e detrazioni. La flat tax si accompagna, generalmente, ai concetti di «no tax area» e di «imposta negativa», indi per cui il contribuente viene tassato solo sopra una determinata soglia di reddito e, se quest’ultimo è insufficiente a garantirgli una vita appena dignitosa, lo Stato gli ridà indietro gran parte della differenza tra il suo reddito e il reddito medio (non tutto perché altrimenti si incoraggerebbe l’economia di sussistenza). Lo ripetiamo, perciò, ancora una volta: il centrodestra non ha bisogno di idee perché il suo programma politico è tutto contenuto in questa discriminate di tipo economico-fiscale. Ogni tanto, anche in Italia, qualche esponente di centrodestra si ricorda dei principi fondamentali: un segnale di vita non da poco.
Ve la raccontiamo molto semplice (nella realtà la curva di Laffer ha un andamento più irregolare perché il gettito massimo si raggiunge in presenza di aliquote basse) perché è il principio che conta: le tasse si abbassano (un’aliquota del 20% per cittadini e imprese rappresenta il massimo della giustizia sociale, sopra il 33% si può già cominciare a parlare di furto legalizzato, in Italia siamo al 44%), l’evasione si punisce perché, in quel caso, è totalmente ingiustificata.
Da questo postulato derivano alcuni corollari:
  • Chi è di centrodestra non penserà mai e poi mai che sia giusto applicare un’imposta o aumentarla per favorire l’equità sociale e la redistribuzione. Lo Stato, se interviene nell’economia, moltiplica la miseria per tutti a vantaggio (non sempre) di pochissimi.
  • Chi è di centrodestra non penserà mai e poi mai che la tassazione spietata (come quella messa in atto dai governi Monti, Letta e Renzi) sia uno strumento di assestamento del bilancio perché inutile e controproducente. Gli aggiustamenti si possono fare solo durante i cicli di espansione economica. Il centrodestra ama e persegue il pareggio di bilancio, ma facendo dimagrire lo Stato anche a costo di innescare politiche temporaneamente recessive (come hanno fatto Reagan da governatore della California tagliando i dipendenti pubblici e Thatcher privatizzando il privatizzabile in Gran Bretagna).
  • Chi è di centrodestra non crede in concetti come «comunione» e «comunità». La tassazione riguarda il singolo individuo in quanto è il singolo individuo che deve essere messo nelle condizioni di sviluppare il proprio potenziale. A chi dice, come l’articolo 3 della nostra Costituzione, che lo Stato debba promuovere un’uguaglianza sostanziale (e non solamente formale) tra i cittadini, un liberale risponde con le parole di Margareth Thatcher: «There is no such thing as society» («La società non esiste» perché esistono solo gli individui).
Il centrodestra è proprio questo. È vero: interpretazioni neokeynesiane hanno cercato di definire la curva di Laffer come un modo di sostenere la domanda dando denaro un po’ a tutti (come aveva suggerito Keynes a Roosevelt: aprendo e tappando le buche). Non è così: Laffer teorizza la ritirata dello Stato che diventa meno vorace e lascia più libero il cittadino senza vessarlo con le tasse appunto ma chiedendo il giusto. Il centrodestra e il liberalismo contemporanei nascono così: con Ronald Reagan e Margareth Thatcher, appunto. Come vi abbiamo fatto vedere nella foto in cima al post.
Ci sono delle questioni da risolvere. Ne siamo ben consci. Ad esempio, rispondere alla vulgata dominante secondo cui la ritirata dello Stato sarebbe responsabile della crisi attuale. Niente di più falso: le teorie liberali (e liberiste) non sono certo autrici delle crisi e dello squilibrio. Da una parte la ritirata dello Stato va corroborata con un taglio della spesa pubblica (i cui effetti recessivi vanno tenuti sotto controllo). Dall’altro lato, la politica monetaria va strettamente monitorata proprio per evitare che la maggiore disponibilità di reddito generi conseguenze impreviste. Di sicuro l’attuale crisi ha tra le sue cause la troppa libertà lasciata dall’amministrazione Clinton alle banche Usa che ci hanno infettato con i subprime e via discorrendo. Così come la crisi del ’29 non si può imputare del tutto alla parte repubblicana.
Laffer non era keynesiano. Tagliare le tasse non è dare una mancia come ha fatto il governo Renzi che ha propugnato, lui sì, una politica neo keynesiana. Tagliare le tasse è un’assunzione di responsabilità perché vuol dire che non si discrimina nessuno e che, proprio per questo, si cerca di far dimagrire lo Stato. Ad esempio, nessuno ha mai avuto nulla da ridire sui 110 miliardi che lo Stato regala ogni anno alle gestioni pensionistiche pubbliche che altrimenti sarebbero in dissesto. Oppure su una spesa sanitaria da 110 miliardi che è fonte di numerosi sprechi. Insomma, chi è di centrodestra non crede alla scientificità della curva di Phillips che è la bandiera dei neokeynesiani e che sintetizza la necessità di creare inflazione per ridurre la crescita del tasso di disoccupazione.

Lo stesso premio Nobel, Paul Krugman, che è un economista neokeynesiano, ha messo in discussione la curva di Phillips riducendola a una linea (anche in questo caso la facciamo semplice: egli afferma che non c’è una correlazione matematica universale). Non si può tuttavia non riconoscere che disoccupazione e deflazione nell’area euro si rincorrono, tranne che per la simpatica Germania che prolifera (fino a un certo punto) alle spalle di tutti gli altri.

Il paradigma del centrodestra è totalmente rovesciato rispetto a quello dominante. Ad esempio, è di centrodestra chiedersi (ma anche il centrosinistra farebbe bene a domandarselo) perché la crescita reale dei Paesi di Eurolandia – tranne la solita Germania – sia stata del 5-10% al di sotto di quella potenziale. Ed è un modello, quello del centrodestra, che implica quotidianamente un’assunzione di responsabilità. Se abbassare le tasse può creare ricchezza, perché dobbiamo assistere all’arricchimento della Germania a scapito del nostro Paese? Il centrodestra sa già qual è la risposta: la politica monetaria, così come quella fiscale, non va bene perché gli aggiustamenti di bilancio non si fanno durante i cicli recessivi come invece Frau Merkel ci ha imposto, mentre la rigidità dell’euro (e il tardivo intervento della Bce nell’immissione di liquidità sul mercato) è un freno sia alla produttività interna che alla competitività sui mercati internazionali. Ma l’accento è sempre sulla crescita, cioè sul prodotto tangibile della libertà. Libertà e tutte le parole che ne derivano non si prestano a compromessi. Ecco il centrodestra sa che tra aggiustamento richiesto dall’Europa e stabilizzazione e allargamento del bonus da 80 euro promesso da Renzi serviranno l’anno prossimo tra i 24 e i 30 miliardi di euro. Vale la pena aumentare le tasse per elargire benefit elettorali? La risposta è negativa. Se siete di centrodestra, lo sapete già. Se, invece, pensate che «Mister Spending Review», Carlo Cottarelli, riuscirà a fare miracoli, date un’occhiata a quest’articolo che evidenzia le criticità di cui avevamo parlato poco sopra in merito alla politica fiscale e alla spesa pubblica.
D’altronde, chi si professa di centrodestra sa che può camminare, come Isaac Newton, sulle spalle di giganti che si chiamano non solo Laffer e Friedman, ma von Hayek, von Mises e Rothbard. E per chi è italiano su grandi come Luigi Einaudi e Benedetto Croce. Tutti punti di riferimento che mettevano innanzitutto la difesa dell’individuo e delle sue prerogative da qualsiasi attacco che potesse essere spacciato come tutela del bene comune (a partire dalle tasse). Di recente solo un presidente del Consiglio ha tenuto a mente queste lezioni (non lo citiamo affinché non ci si tacci di essere in conflitto di interessi).
In conclusione, vanno ricordati i due rischi principali che minacciano da sempre il centrodestra. Che poi si possono sintetizzare in uno solo: il fanatismo. Ci sono i fanatici delle teorie libertarie che, in nome della purezza dell’ideale, ne compromettono la realizzabilità politica. In Italia gli esempi sono molteplici: diciamo che il centrodestra si divide spesso tra chi privatizzerebbe tutto e taglierebbe di tre quarti i costi dello Stato (sono una minoranza ma è molto rumorosa) e chi, invece, tende a salvaguardare i diritti acquisiti (che si chiamino pensioni, posti di lavoro pubblici o privati) spostando più in là le riforme (sono la maggioranza). A questa divisione si aggiunge quella riguardante i temi etici: il centrodestra ha vocazione liberale e, proprio in nome di questa, a volte non riesce ad assimilare i principi connaturati a una società tradizionalmente cattolica come quella italiana. Ma queste sono problematiche che un liberale vero lascia alle coscienze individuali (la difesa della libertà si attua impedendo qualsiasi tipo di discriminazione sia in positivo che in negativo), quello che non può aspettare è la messa in pratica della teoria di Laffer che di Reagan e Thatcher già fece le fortune.
Wall & Street

(il Giornale)


mercoledì 23 luglio 2014

Se l'odio per Israele uccide la verità. Vittorio Feltri

Giova ricordare una banalità: la guerra si fa almeno in due, l'uno contro l'altro. Quanto ai motivi dei conflitti armati che nella zona si susseguono da oltre 60 anni, è vero che sono molto complessi, un miscuglio di torti e di ragioni, ma volendo semplificare si può dire che la nascita di Israele comportò una durevole emarginazione dei palestinesi. Gli attriti cominciarono subito. Una risoluzione dell'Onu raccomandava una cosa semplice: l'istituzione di due Stati, uno israeliano e l'altro palestinese.

Il secondo non ha mai visto la luce, perché il Piano di partizione approvato dalle Nazione Unite nel 1947 fu respinto dai Paesi arabi. Mentre il primo nel giro di pochi lustri si è sviluppato ed è diventato un'enclave occidentale nel Medioriente. Una civiltà avanzata nel deserto non poteva che creare dissidi. A parte ciò, bisogna riconoscere che un popolo senza patria (i palestinesi) coltiva i semi dell'odio. E l'odio prima o poi (o periodicamente) esplode. Fra due Stati si sviluppano spesso rapporti di buon vicinato. Ma fra una nazione organizzata e moderna e un popolo allo sbando la compatibilità è difficile. Senza farla tanto lunga, la vicenda è questa. Se aggiungiamo che la Stella di David ha vinto ogni battaglia nell'area, si comprende ancor meglio la rabbia di chi ha sempre perso. Ma comprendere non significa giustificare.

Israele, in fondo, reclama solo il diritto di esistere che, di fatto, gli viene negato. L'aspirazione (varie volte dichiarata) dei Paesi di quell'area geografica è quella di distruggere i nemici ebrei, i quali per evitare di essere massacrati si armano fino ai denti e, quando sono minacciati, reagiscono, alimentando l'antisemitismo internazionale, ancora molto forte, che trova ospitalità anche in Italia sia in certa sinistra, sia in certa destra, specialmente fascista, sia nella maggioranza della stampa. Cosicché in modo assai rozzo, gli israeliani vengono fatti passare - a causa di una propaganda disgustosa - per cattivi, e i palestinesi per povere vittime. Sorvoliamo per brevità su tutte le guerre che hanno insanguinato quelle terre, ma non sui tentativi di istituire uno Stato palestinese che avrebbe consentito una pace duratura. Tentativi immancabilmente falliti.

Una maledizione? Il sospetto è che in Medioriente prevalga l'interesse a tenere alta la tensione e a impedire in Israele la costruzione di un assetto definitivo, non insidiato dai nemici storici. L'antisemitismo gioca un ruolo fondamentale (in Europa e in Italia) nella demolizione sistematica della reputazione israeliana. Un esempio emblematico: se si tratta di celebrare la Shoah, ci sentiamo tutti fratelli degli ebrei e deprechiamo i nazisti e i fascisti che li sterminarono; ma non appena esplode un colpo di fucile lungo i confini dello Stato ebraico, il sentimento di solidarietà nei loro confronti si trasforma subito in antipatia se non in autentico razzismo. In questi giorni ne abbiamo sotto gli occhi la prova.

Hamas fa piovere missili sulla testa dei cittadini di Israele e se costoro rispondono mirando a obiettivi militari, i terroristi obbligano i civili (anche i bambini) della Striscia a proteggerli a costo della vita. Dopo di che si grida allo scandalo perché gli israeliani uccidono i fanciulli. La mistificazione funziona a meraviglia. Tant'è che una parte cospicua dell'opinione pubblica è convinta che gli ebrei abbiano imparato da Hitler a essere crudeli, e massacrino i palestinesi per questioni di dominio territoriale. La disinformazione produce effetti impressionanti, e la propaganda più è sgangherata più viene bevuta dalle masse acritiche. Che ignorano perfino che Hamas è una banda di terroristi che fa del male soprattutto ai palestinesi.

(il Giornale)

 

lunedì 21 luglio 2014

Io, spazzino dell’informazione guardona, tra le bellurie di un talk show. Giuliano Ferrara


Il Foglio - Le domande che si fanno i vili e i cretini sono queste: è stato assolto, Berlusconi, in virtù del patto con Renzi?; è tutto dipeso dalla concussione per induzione varata dal Parlamento su iniziativa del governo Monti (Severino), una norma concepita per specificare ancora meglio che una raccomandazione con favori scambiati è una concussione anch’essa, sebbene non coattiva?; è merito della Severino di servizio al Cav., la Severino stessa una cui legge ha consentito di buttarlo fuori dal Senato o dell’avvocato Coppi?; Berlusconi è restituito alla sua agibilità politica o riabilitato, malgrado l’altra sentenza per frode fiscale, definitiva, e l’affidamento ai servizi sociali?; riprenderà in mano Forza Italia con tutta la fronda?; per la serie eufemistica dell’amico Mentana, non è un po’ “slittata la frizione” ai media e ai pm che hanno messo in scena tutto questo ambaradam sulle vite degli altri?

Poi ci sono le considerazioni: il paese è indifferente (Brambilla), quelli che adesso festeggiano in futuro si dovranno vergognare (Azucena Annunziata), ora tenteranno di mettere le loro manacce sulla giustizia italiana, per le scuse di pm e giornalisti e editori al paese e all’ex presidente del Consiglio c’è tempo. Poi ci sono i depistaggi pusilli tipo “a me del caso Ruby non frega poi così tanto, era chiaro che sarebbe andata a finire così, passiamo alla mafia”, gentucola moscia che non merita di essere invitata, per quanto lo desideri, alle cene eleganti. Fanno bene a fare le vacanze con i mafiosi, come capitò a Marco Dettaglio, così si fanno raccontare le gesta dell’antimafia di Ingroia dal suo attendente doppiogiochista, a loro insaputa, e si consolano.

Nella mia modestia di spazzino del giornalismo italiano, consegnato da vent’anni all’incombenza di sistemare nei cassonetti, senza differenziata (lo riconosco), tonnellate di carta stampata e di digital-tv del prime time, ho anch’io un paio di domande cretine. C’è stato un qualche rapporto tra la crisi di leadership che ha portato alla defenestrazione, lui consenziente e rassegnato e callido e responsabile, di Berlusconi eletto dal popolo e questa inchiesta che non si sarebbe mai dovuta fare, tutta gogna mediatica, intromissione guardona, e niente prove, niente reati? C’era un rapporto vent’anni prima tra gli avvisi di garanzia a mezzo stampa di Francesco Saverio Borrelli via Corriere della Sera (poi siamo arrivati ai Mattinali specializzati in Delazioni&Dettagli), “stiamo arrivando ai livelli alti di Telepiù”, oppure la propalazione a tradimento dell’informazione giudiziaria sulla Guardia di Finanza, seguita da processo e assoluzione, e il ribaltone del 1994-1995? Potrebbe lasciar affiorare qualche sospetto di combine tra media giustizia e politica il ripetersi di un accanimento che produce a vent’anni di distanza, con impressionante regolarità, cadute di governi eletti nell’applauso della gente che ama piacersi? Non sarebbe questo uno svuotamento della democrazia liberale e un insulto alla medesima? Che ne dicono i saggi osservatori che affermano di rifiutarsi di osservare dal buco della serratura per via della loro idiosincrasia liberale?

Altre domandine, questa volta sul costo nazionale delle fobie della Boccassini contro la “furbizia orientale” della signora El Mahroug. Ricordate quando Tremonti sequestrò per sé integralmente la politica economica, disse che non c’era una lira, rigettò ogni ipotesi di frustata all’economia e di riforme, attese la caduta di Milano, lo sputtanamento internazionale del capo del suo governo, pensando che sarebbe restato in piedi in mezzo alle macerie come profeta dell’antimercatismo? E’ così che ci preparammo alla grande crisi finanziaria? Ricordate quella povera anima di Fini, la sua baldanza ciarliera con il magistrato Trifuoggi in un memorabile fuorionda, la sua idea di ricostruire con la benedizione di Scalfari e Mauro e della sinistra gregaria una destra conservatrice di stampo europeo, fondata sulla caduta imminente dell’uomo degli scandali sessuali e circonvicini? Può una sequela di inchieste senza oggetto né prove condurre alla consumazione di una maggioranza di governo, alla sua estinzione in un susseguirsi di squallidi opportunismi, di piccole ambizioni senza senso destinate a finire nel dimenticatoio di quella grande discarica dei codardi che è la storia?

Ecco. Ho partecipato a un talk show, su gentile richiesta di Chicco, la sera dell’assoluzione di Berlusconi, la sera in cui anche la sentenza per evasione fiscale ai danni del maggior contribuente italiano ha preso la sua nuova e vera luce da queste domande su un accanimento ventennale ormai straprovato, e queste domande non sono venute alla luce, ho potuto solo accennarle tra grida da trivio, vanità da camerino per sociologhe di serie C e giornalisti garantisti che intitolano “Piazza pulita” le loro trasmissioni di fini giuristi liberali, e ho visto, mentre mi abbassavano l’audio e si prendevano un sonoro vaffanculo, la grande fuga dei topi mentre la loro barcaccia affondava: nessuno che attaccasse il verdetto e rivendicasse fino in fondo il proprio comportamento, nessuno che si scusasse per il malfatto, nessuno che si facesse domande politiche che in qualunque paese sarebbero state poste ai magistrati, alle loro associazioni, a gente di cultura giuridica e politica e non a un circolo di scemi del giornalismo chiacchierone (me compreso). In compenso culi, tette e testimonianze di pentite al processo finito in pornoprocesso e farsa grottesca. Eravamo tutti giornalisti, mica male il giornalismo italiano. Merita i premi che si conferisce autorevolmente per aver detto che Rostagno è stato ucciso dalla moglie, che l’uranio del Niger è stato nascosto dal controspionaggio italiano, che Ruby era la chiave di volta di palpeggiamenti criminali da Cassazione.

Una sentenza piena di conferme. Arturo Diaconale



L’inattesa sentenza di assoluzione per Silvio Berlusconi nel processo Ruby costituisce la rassicurante conferma dell’esistenza di un giudice a Berlino anche nel sistema giudiziario italiano. Non si tratta di una conferma da poco. Perché rappresenta la dimostrazione più clamorosa e tangibile che, a dispetto di tutte le anomalie, di tutte le degenerazioni e di ogni genere di difficoltà e carenze, la giustizia italiana non è in coma irreversibile ma è ancora in grado di rigenerare se stessa. Il dato incoraggiante di sapere che il sistema giudiziario nazionale è capace di produrre giustizia giusta, non può cancellare la seconda conferma che viene dalla sentenza di assoluzione per il Cavaliere emessa dalla Corte di Appello di Milano.

Il ribaltamento totale della durissima sentenza di condanna a sette anni del primo grado sulla base delle considerazioni tecniche esposte dalla difesa del professor Coppi, rappresenta l’implicita e clamorosa dimostrazione della motivazione esclusivamente politica del giudizio di partenza. L’assoluzione per le ragioni tecniche che hanno smontato l’impianto dell’accusa costituisce la prova provata della persecuzione giudiziaria di cui è stato oggetto Berlusconi per il caso Ruby. Una persecuzione che è durata anni e che ha prodotto non solo una gogna mediatica infinita ai danni dell’immagine di un personaggio di rilievo pubblico nazionale e internazionale, ma anche una serie di pesanti conseguenze per l’area politica di cui il Cavaliere è stato – e rimane – leader e per il Paese di cui è stato per anni rappresentante.

La persecuzione testimoniata dall’assoluzione ha toccato sia Berlusconi che l’intera società italiana. Quest’ultima ha subito – e continua a subire – le ripercussioni devastanti dei pregiudizi ideologici di alcuni magistrati e le irresponsabili speculazioni politiche dei nemici viscerali dell’ex presidente del Consiglio. La giustizia italiana, dunque, per un verso esce rinfrancata dalla sentenza milanese ma per l’altro risulta colpita da un male, quello non solo della politicizzazione che ha colpito Berlusconi ma soprattutto della totale inaffidabilità che colpisce l’intera società nazionale, da estirpare al più presto e a ogni costo se si vuole salvare il Paese dalla rovina definitiva. Per ridare ai cittadini la fiducia in una giustizia che al momento risulta quasi sempre incerta e quindi quasi sempre ingiusta, non c’è altra strada che insistere nella battaglia per una riforma integrale del sistema giudiziario nazionale. Una riforma che non può essere quella evanescente e indeterminata indicata da Matteo Renzi. Ma che deve essere quella per una vera giustizia giusta che da anni viene sostenuta dai radicali, dai liberali e da tutti quelli che credono nello Stato di diritto fondato sulle garanzie e sui diritti inalienabili dei cittadini.

La sentenza di Milano indica che questa battaglia è sacrosanta e alimenta la speranza di poterla portare avanti con successo, perché consente al simbolo della persecuzione giudiziaria di tornare a battersi da protagonista sulla scena politica italiana. Chi auspicava una seconda condanna di Berlusconi per trasformarla nella lapide sotto cui seppellire definitivamente il leader del centrodestra scopre oggi che aveva fatto male i propri calcoli. Non c’è lapide e non c’è tomba. C’è un Cav. rigenerato e rilanciato. Che può giocare ancora una grande partita per le riforme e per la ricomposizione del centrodestra alternativo alla sinistra.

(l'Opinione)

 

giovedì 3 luglio 2014

Tagli, ritagli e frattaglie. Davide Giacalone


Da una parte il governo nega, su questo formalmente unanime, la necessità di una correzione dei conti 2014, dall’altra si ricorda di Carlo Cottarelli e gli chiede di predisporre tagli per 17 miliardi (già inseriti nei conti del Documento di economia e finanza, ma ancora non realizzati). A quelli se ne dovrebbero aggiungere altri 10, se si vogliono stabilizzare maggiori spese e minori entrate già decisi e propagandati (mitici 80 euro compresi). Ciò fornisce un punto di riferimento circa lo spessore non della manovra da farsi, ma di quella già in corso: 27 miliardi. Siccome i tagli, per giunta in questa quantità, stanno passando da favola a leggenda, il pericolo concreto è che scattino le clausole di salvaguardia. Che, tradotto in linguaggio prosaico significa: tasse.

Se il governo riuscirà a evitarlo, se, cioè, l’aggiustamento avverrà con tagli e non con ulteriore fisco, sarà un bene. Andrà riconosciuto, con piacere. Dovrà accadere, però, al netto dei trucchi. Prendiamo, per esempio, il pagamento dei debiti pubblici verso fornitori privati: spostarli al 2015 è, al tempo stesso, una sconfitta e un trucco. Sconfitta perché il governo viene meno a quanto garantito. Trucco perché si sposta contabilmente una partita e non si risolve alcun problema. Un tempo la chiamavano “finanza creativa”, ora è solo cosmesi tardiva.

I tagli, per avere una caratteristica positiva, non recessiva e risolutiva devono essere stabili nel tempo e relativi a funzioni pubbliche che si cancellano. Occorre distinguere, quindi, fra i risparmi e i tagli. I primi si possono ottenere, anche in misura assai significativa, ottimizzando le procedure e rendendo trasparente la spesa. I secondi, invece, richiedono non una momentanea apnea, ma il soffocamento di interi comparti dello Stato apparato, nelle sue varie articolazioni societarie e locali. Quando la Corte dei conti (che già di suo è un organismo in gran parte disfunzionale) certifica la perdita annua di 26 miliardi nella gestione di 7500 aziende partecipate dal pubblico, occorre stabilire a quale numero guardare con maggiore preoccupazione: gli sciocchi guardano il 26, i saggi il 7500. Non solo quelle società sono troppe, non solo perdono, ma il loro costo reale non è dato dal saldo finale, negativo, bensì dal trombo crescente che rende difficile la circolazione produttiva. Limitarsi a risparmiare 26 miliardi significa adottare una terapia che porta alla trombosi. Più che di un medico sarebbe opera di una chiromante. Lavorare nello sfoltimento delle società e delle funzioni significa praticare tagli promettenti. Concentrarsi sul mero sbilancio significa accontentarsi dei ritagli, lasciando al loro posto le frattaglie.

Ma si può fare di peggio: lasciare lo Stato a occupare grassamente e inefficientemente il mercato, salvo portare in quotazione alcune sue società. In qualche caso delle perle, che vanno liberate dal guscio, in altri dei gusci che contengono roba incompatibile con il mercato, ovvero economia sussidiata. Non contenti di questo si completa l’opera prendendo quei soldi e mettendoli al servizio della spesa pubblica, magari mascherata da “investimenti”. Una delle cose che dovrebbero essere chiare, un punto sul quale varrebbe la pena di misurare la trasparente convergenza di ciascuna forza politica, è: quando si vende patrimonio si deve far scendere il debito. Altrimenti ci si ritrova con meno patrimonio, un debito crescente e una spesa fuori controllo.

Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.

Pubblicato da Libero


venerdì 13 giugno 2014

Giù le mani dal Mose. Davide Giacalone


Di chi è il Mose? Trascurando di porsi questa domanda si corre il serio rischio di squartare una vacca nella macelleria giudiziaria, cercando di capire chi s’è fregato una braciola, nel frattempo distraendosi da una mandria silenziosamente sottratta alla ricchezza collettiva. Il Mose può non solo essere riprodotto, quindi rivenduto, ma già vi sono manifestazioni d’interesse, da diverse parti del mondo. Quindi: di chi è? chi è autorizzato a incassare? Rispondere correttamente serve ad evitare di piangere, domani, su altro latte rubato.

Al solo nominare il Mose, qui da noi, scatta il riflesso che induce a pensare al malaffare. Con calma, negli anni, sapremo dai processi chi è stato pagato illecitamente, quanti soldi sono stati munti alle aziende, quanti sono andati a dissetare la politica suggente e quanti sono finiti nelle riservate tasche degli stessi che possiedono e amministrano le aziende coinvolte. Quando (e se) conosceremo la realtà e le proporzioni avremo le idee più chiare, già oggi possiamo maledire un sistema che non riesce a separare i lavori pubblici dai reati privati. Ma il Mose è anche un gioiello di tecnologia, una soluzione mai prima sperimentata. Gli olandesi, per dirne una, hanno sottratto molte terre al mare, ma lo hanno fatto con le dighe. Che non solo si vedono, ma sulle quali fanno anche correre i trasporti. A Venezia si sta realizzando un’opera totalmente innovativa e di grande portata. L’alluvione più grave risale al 1966, quando la città fu sommersa per 194 centimetri, mentre il Mose è in grado di difenderla fino a 3 metri. Non solo scompare, quando non è in funzione, ma le infrastrutture sotterranee che lo rendono possibile sono a loro volta delle occasioni per creare spazi, collegamenti, trasporti. Anche intrattenimenti. Chi può vendere questa innovazione?

Nel 1975 il ministero dei lavori pubblici bandì un concorso per progettare la difesa di Venezia. Nessun progetto fu considerato adeguato e tutti furono acquisiti (nel 1978) dallo Stato. Nel 1982 nacque il Consorzio Venezia Nuova e l’idea di elaborare un “progettone”. Nel 2002 arrivarono i finanziamenti statali per la progettazione: 450 milioni. Il progetto, quindi, è dello Stato. Non ci sono state gare, i lavori sono stati affidati al Consorzio quale concessionario unico, in quello si raccolgono le aziende che possono lavorare a una simile realizzazione. Quindi le mazzette non servono ad alterare la concorrenza, perché non c’è, la concorrenza. Dal 2003 cominciano ad affluire i finanziamenti, sempre statali, e prendono avvio i lavori. 6 miliardi di euro. La conclusione è prevista per il 2016. Quel giorno, si spera, il mondo potrà vedere una meraviglia. Nel frattempo, però, i consorziati hanno creato una società per azioni, Thetis, impegnata ad aggiornare la parte ingegneristica e seguire i lavori, nonché a gestire la sala controllo che si trova all’Arsenale, a sua volta prezioso concentrato di tecnologia, innovazione e intelligenza. Thetis è entrata nella cronaca nera, per le assunzione di parenti e amici dei vari “riferimenti” politici e giudiziari.

In tutto questo non si trova una carta che attesti due semplici cose: a. il marchio “Mose” è dello Stato; b. tutto, dalla progettazione alla realizzazione, è stato pagato ed è proprietà dello Stato. Se in Asia, Arabia o nelle Americhe vogliono rifarlo, anche (giustamente) approfittando delle cose che si sono capite e imparate lavorando a Venezia, sarà una gioia potere vendere loro questo Made in Italy. E sarà una gioia, anche, vedere le aziende italiane impegnate a lavorare e guadagnare altrove. Ma sarebbe una vergogna se fossero loro stesse, magari per il tramite di Thetis, a rivendere quel che è di tutti. Occhio, perché quel che, in quel caso, si perderà sarà dieci o cento volte più di quel che fin qui s’è disperso. Né consola l’idea che poi qualche procura dovrà occuparsene. Meglio prevenire. Pertanto, mentre le indagini continuano e i processi sono assai di là da venire, al governo si preoccupino di correre a registrare il marchio e rispondere alla domanda iniziale: Mose è dei cittadini, e per essi dello Stato. Se un privato ne vende i progetti diviene collega di Totò che vendeva la Fontana di Trevi: va fermato. Ben vengano gli acquirenti, cui offriamo volentieri granseola e un giro in gondola, ma quel che pagheranno deve finire nei forzieri dell’erario. In caso contrario non sarà un furto con destrezza, ma un furto con complicità. E non provino a sostenere che nessuno se ne era accorto.

Pubblicato da Libero

Mazzetta rossa la trionferà: il Pd incassa un milione. Stefano Zurlo

«Faceva tutto il partito». Altro che pecora nera. Giorgio Orsoni non ci sta a recitare la parte del capro espiatorio e racconta ai magistrati un'altra verità, molto più semplice: il Pd prendeva soldi dal Consorzio Venezia Nuova, esattamente come gli altri partiti.
«Io non ho preso soldi, li ha presi il partito, era il partito a gestire i finanziamenti, io non so nulla sulla genesi di quei contributi».
E ancora: «Giovanni Mazzacurati me lo ripeteva di continuo: “Ma cosa stai a preoccuparti, ho sempre fatto così, ho aiutato tutti i tuoi predecessori”». Orsoni si sente usato dai compagni che poi lo hanno scaricato al primo stormir di fronda. Lui in cella e loro a pontificare sul sindaco che aggirava la legge. È troppo. E nel verbale firmato lunedì il primo cittadino lascia trasparire la rabbia per questo abbandono e per l'ipocrisia sparsa a piene mani dalle prime e seconde file del Pd veneto.
Non parla di Roma, perché non ne è a conoscenza, ma quel che accadeva in laguna lui ce l'ha chiaro. Fin troppo: «Mi hanno invitato a candidarmi. Ala fine ho ceduto. E in vista della campagna elettorale 2010, mi hanno detto di andare a battere cassa da Mazzacurati. C'era bisogno di soldi. Tanti soldi. Io ho accettato, ma non ho visto un euro. Gestivano tutto loro».
Chi? Orsoni, amareggiato e ormai con un diavolo per capello, fa i nomi. I tre nomi di chi ha gestito la sua elezione quando vinse il duello con Renato Brunetta: Michele Mognato, Giampietro Marchese, David Zoggia. In sostanza, il terzetto che aveva fra le mani il partito nel 2010. Mognato è deputato, Marchese è consigliere regionale ed è uno dei politici finiti in cella nella retata della scorsa settimana, Zoggia è pure parlamentare ed è il volto più noto fra i tre. All'epoca era responsabile Enti locali del Pd, perfettamente inserito negli ingranaggi della ditta bersaniana. Non solo: si era guadagnato una certa popolarità con la frequentazione dei salotti televisivi.
Ora Orsoni accusa tutti e tre. Quei tre erano il partito e gestivano in tutto e per tutto i suoi finanziamenti. Lui, se ha una colpa, è quella di aver prestato la propria faccia e la propria autorevolezza alla commedia degli equivoci. Oggi prova a ribattere punto su punto e a risollevare un'immagine offuscata. «Non possono confondermi con chi maneggiava i soldi pubblici – spiega ai pm – il partito spingeva, io ho ubbidito. Punto». I calcoli non sono così semplici, ma le cifre in gioco, fra contributi in bianco e in nero, superano quelle circolate sui giornali fin qui: in realtà il partito avrebbe incassato dal Consorzio quasi un milione di euro. Parte con contributi illeciti, parte con contributi solo apparentemente leciti, perché anche in quel caso la norma veniva aggirata: per non far comparire la solita manona del Consorzio, i soldi formalmente uscivano dalle imprese che però li recuperavano attraverso il più che collaudato meccanismo delle false fatture. Era il partito a gestire tutti quei soldi. Anzi, il sindaco offre un dettaglio che la dice lunga sulla voracità della classe politica: «Alla fine qualcosa era avanzato». Una piccola parte dei contributi in chiaro. Qualche migliaio di euro, ancora in cassa alla fine della campagna elettorale. «Ma il Pd pretese anche quei soldi». Tutti. Fino all'ultimo spicciolo.
Hanno preso le distanze dal sindaco. Adesso è il primo cittadino che prende le distanze dal sistema Venezia, col Pd seduto alla grande mangiatoia del Consorzio Venezia Nuova. E la rapidissima scarcerazione disposta dal gip, con tanto di parere favorevole della procura, pare proprio il sigillo sul racconto di Orsoni. Di più, l'accordo che si profila, con una pena di soli 4 mesi, sembra delineare una clamorosa sproporzione fra accuse e realtà dei fatti. Quattro mesi, convertibili in pena pecuniaria, sono davvero il minimo sindacale. Insomma, chiarito il ruolo di Orsoni ora per la procura inizia una nuova fase. Esplorare gli ingranaggi del sistema delle mazzette in casa Pd. Certo, Mazzacurati, come afferma Orsoni davanti giudici, mostrava una grande consuetudine con i suoi compagni di partito. Il sistema funzionava da anni e nessuno l'aveva mai messo in discussione. Per ora nei guai c'è Marchese, ribattezzato a torto o a ragione da qualche giornale il Greganti del Veneto. Si vedrà. In ogni caso le responsabilità di Orsoni si diluiscono dentro quelle del partito. E della sua nomenklatura, almeno in Veneto. Ma la ricerca dei riscontri comincia proprio dai finanziamenti per l'elezione del sindaco nel 2010. Un tesoretto da non sottovalutare: quasi un milione. Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita, della Mantovani, hanno sempre detto di aver preparato le buste per Orsoni. Buste che venivano smistate da Federico Sutto, il postino delle mazzette. A chi le consegnava Sutto? Finora il dipendente del Consorzio Venezia Nuova non ha dato una risposta chiara. Ora i pm hanno una pista che porta direttamente al partito.

(il Giornale)

 

martedì 10 giugno 2014

Annunciazione e regressione. Davide Giacalone


Il mese di giugno, stando agli annunci del governo, è quello della riforma della giustizia. Restano venti giorni. Il calendario induce a volenteroso scetticismo, ma quella che preoccupa è la sostanza. Giacché, nel giro di poco, si è passati dalla Leopolda e dalla denuncia di custodie cautelari ingiuste al volere condannare per “alto tradimento”, senza manco sentire la difesa; dalla protezione offerta agli indagati seduti al governo al desiderio di prendere a calci gli indagati seduti altrove. Non siamo ancora al cappio sventolato, ma la strada lì porta. E, del resto, sarebbe stato sciocco supporre che gli arresti per Expo e Mose non avrebbero avuto un riflesso immediato sulla politica, considerato che è la politica a finire in manette. La prima cosa che salta agli occhi è l’incoerenza. Ma la seconda è che, per l’ennesima volta, il governante e il legislatore sono sotto scacco.

Ne sono una prova i messaggi cifrati che si scambiano con Raffaele Cantone, novello paladino della disinfestazione, che prima ha accettato un incarico senza né poteri né strutture, salvo poi cogliere al volo l’opportunità di reclamarli in grande. E conto non sia sfuggita la finezza: posso sempre tornare in cassazione. Perché le porte sono girevoli, e non sono le uniche a girare. Girò quella dell’antimafia, del resto, scodellando l’ospite alla presidenza del Senato. Né, spero, sia sfuggita la notizia che Antonio Iovine, detto ‘o ninno, non riesce a ricordare non già l’identità, ma neanche il numero di quelli che ha ammazzato, però ha deciso di cambiare vita (quella del detenuto, non quella del criminale), sicché è pronto a fare i nomi dei politici asserviti alla camorra. Uomini avvisati già mezzo ammazzati.

Date retta, giovanotti governativi: se non vi sbrigate a presentare una riforma seria sarete seriamente riformati. Lasciate perdere quelli che quando parlate della bancarotta della giustizia civile vi diranno che la vera partita si gioca nel penale, e quando parlerete dello scempio del penale vi diranno che la vita collettiva dipende dal civile. Piuttosto ricordate come abbiamo fatto ad evitare l’immediata condanna della Corte di Strasburgo: abbiamo liberato i condannati. Fatevi due conti.

Gli astri, comunque, presentano un allineamento fortunato e da sfruttare, visto che il ruolo di punta è oggi nelle mani di un magistrato posato e competente, Carlo Nordio. Egli dice: non servono nuovi reati, non servono pene più alte, non servono super poteri. Giusto. La riforma da farsi deve girare attorno a un perno elementare: i tempi della giustizia devono sempre essere quelli già fissati dai codici. Dal che deriva: i magistrati che violano quei termini (indagini prolungate, motivazioni depositate dopo anni, termini ordinatori calpestati, etc.) devono risponderne nella carriera. Finché si tratta di semplice negligenza, poi ne rispondono come reato. Il problema numero uno non è tagliare le unghie alla giustizia (che vorremmo con artigli potenti), né soddisfarsi del sangue versato nelle indagini, per poi disinteressarsi delle vittime innocenti, il problema è quello di potere disporre di una cosa che non solo si chiami giustizia, ma anche le somigli. Oggi non l’abbiamo, tant’è che ogni degenerazione è possibile. Porte girevoli comprese.

Tanto non si devono depotenziare gli uomini della giustizia che proporrei di varare la regola del 10%: facciamola finita con la raffica di controlli inutili, togliamo pane ai magistrati contabili e amministrativi, e stabiliamo che ogni volta che un appalto pubblico supera del 10% i costi o i tempi previsti parte automaticamente l’accertamento fiscale e l’indagine penale. Se ci sono state buone ragioni si archivia in fretta, ma chi ha magheggi da non far vedere eviterà di mettersi in quella condizione. Semmai neanche parteciperà alla gara. Altro che limare, io sono per affilare. Ma a condizione che quella roba si chiami e sia giustizia.

Matteo Renzi la smetta di fare il verso ai piazzaioli. Le campagne elettorali (al momento) sono finite. Se ha ragioni per temere, lasci perdere. Ma se vuol fare cosa utile s’incaponisca a rispettare la scadenza di giugno. E ci scrivano poche cose ma sensate, nella riforma. Su quali debbano essere, chiedo scusa, ma ho finiti sia lo spazio che la pazienza. Dobbiamo averlo scritto qualche centinaio di volte.

Pubblicato da Libero

lunedì 9 giugno 2014

La pietra al collo. Davide Giacalone


22 milioni di italiani ne mantengono 60. Fra i 22 ve ne sono che lavorano, ma non producono. Fra i 38 ve ne sono che producono, ma ufficialmente non lavorano. Leggere in questo modo il dato sulla disoccupazione aiuta a capire il problema, che consiste nel far lavorare regolarmente più persone, non nel creare più mantenuti. C’è un altro punto, nella lettura corrente, che appare capovolto: si reclamano soldi per creare lavoro, laddove sarebbe più logico lavorare per creare soldi. La mentalità dei mantenuti s’è così diffusa che il lavoro è interiorizzato non come funzione della produzione di ricchezza, ma come strumento per la sua più equa distribuzione. Da qui parte la catena di errori che si continua ad allungare, supponendo che dalla recessione si esca pompando i consumi, anziché rilanciando la produzione. Accettando che si dia una mano all’Italia che fa da zavorra, i cui costi sono la negazione della produttività, anziché una spinta all’Italia che ancora corre e porta a casa 400 miliardi di esportazioni (siamo uno dei cinque grandi con la bilancia commerciale, relativa a manufatti, attiva).

Quando leggo che nella pubblica amministrazione si suppone di potere ancora usare strumenti come i prepensionamenti e gli scivoli, che hanno precipitato l’Italia nel baratro del debito crescente, mi domando se chi ne parla è solo mancante di fantasia o proprio ignora la realtà. Quando sentiamo dire che si dovrebbe sfondare il parametro del deficit mi chiedo se nella mente di chi lo dice il debito ulteriore possa essere ripagato con balzi produttivi del 4-5% (stupefacente, nel senso della sostanza assunta), o suppongono che si possa tassare qualche altra cosa, così sprecando anche il debito ulteriore. Per portare quei 22 milioni a diventare non 23, ma 30 (chiamando al lavoro moltissime donne e moltissimi giovani che ne sono fuori), occorre togliere dal groppone di chi lavora il peso della spesa improduttiva e delle garanzie di cui i più giovani non godranno mai. Sì, anche rivedendo i “diritti acquisiti”, perché divenuti ingiustizia consolidata. L’elasticità e la permeabilità del mercato del lavoro non sono le porte della negazione delle garanzie, ma l’uscita di sicurezza per non avere garantita la disoccupazione odierna e l’impoverimento perpetuo.

Il decreto sul lavoro a tempo determinato, pur con qualche bozzo, va nella direzione giusta. Ma perché accontentarsi di segnali e direzioni? perché non varare subito la normalità dei contratti con minori oneri fiscali e previdenziali, in cambio di minore stabilizzazione e immobilità? Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, avrebbe ragione nel rispondere: intanto questo lo abbiamo fatto. E’ così. Ma perché poi sente il bisogno di aggiungere che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca? Cancellarlo può anche darsi che sia una bandiera ideologica, ma lo è anche immolarvisi. Ed è una presa in giro, perché è come dire: lo conserviamo, ma dimenticatevelo. Non è onesto. Ed è uno strizzare l’occhio all’Italia zavorra, sputando nell’occhio all’Italia che corre.

Il nostro mercato interno è stato gettato in mare con una pietra al collo, ma reagisce stringendosela al petto e non volendola mollare, quasi fosse l’ultimo scoglio sicuro. La reazione è comprensibile, perché dettata dalla paura. Ma l’unica cosa di cui avere paura è di restare con un terzo degli italiani che ne mantiene due terzi. O con l’elasticità relegata nel mercato che degrada dal grigio chiaro al nero notte, così affidandosi all’illegalità quale valvola di sfogo contro l’immobilità. Il riflesso politico di questa paura è il voto indirizzato a chi promette aumenti di reddito cui non corrispondono aumenti di produttività. Come se non fosse chiaro che quella è la via della perdizione. Non si può ragionare in due tempi: intanto dono, poi riformo. Questa formula porta a un doppio tempo diverso: ora regalo, poi me lo riprendo (con le tasse).

C’è in giro gente che cita Keynes, supponendo sia stato il teorico dello stampare denaro per finanziare i consumi. Figuriamoci: la Teoria Generale è del 1936, mentre la Repubblica di Weimar, e il suo stampificio di moneta, era crollata nel 1933! In un suo mirabile scritto ancora precedente (The End of Laissez-Faire, 1926) avverte di un pericolo: lo stato di povertà e bisogno convince tutti della necessità di cambiare, ma quando non se ne hanno più gli strumenti; mentre lo stato di ricchezza e soddisfazione toglie l’incentivo a cambiare, proprio quando sarebbe più facile e opportuno. Noi siamo in un punto di mezzo, convivendo con la ricchezza diffusa e il diffondersi della paura. Il tempo che stiamo perdendo non ce lo ridarà nessuno.

Pubblicato da Libero

venerdì 6 giugno 2014

Ripartire dalle cose che contano. Andrea Mancia e Simone Bressan

 


Ricostruire il centrodestra non sarà facile. Ricostruirlo iniziando a discutere di leader, sigle, nomi è il modo migliore per condannare un intero blocco sociale e politico all’irrilevanza. Si può però ripartire dalle cose che contano: dalle idee, da una visione di centrodestra diversa da quella che i risultati elettorali ci consegnano, da una prospettiva.

Sapete come la pensiamo: siamo fusionisti. Lavoriamo perché ogni anima, ogni sensibilità culturale, ogni soggetto politico e non che condivida la semplice battaglia per “Meno Stato e Più Libertà” trovi il coraggio per lavorare alla costruzione di una casa comune, con regole di convivenza semplici e durature, che incoraggi i processi di elaborazione delle idee, che permetta alle leadership di emergere meritocraticamente.

Per questo ci siamo sentiti chiamati in causa quando ci è stato proposto un appello che parlasse di “unità”, di “primarie”, di “programma comune”. E’ un’occasione per far ripartire il dibattito e il nostro cammino lungo il sentiero che ci interessa percorrere e per provare a svegliare dal torpore un centrodestra che pare non aver capito che un popolo liberale, moderato, popolare, conservatore e riformista ancora c’è e chiede di essere degnamente rappresentato.

Per firmare andate qui: www.contrattoperilcentrodestra.it.

Tratto da http://notapolitica.it/

giovedì 29 maggio 2014

Quanti lecchini di Renzi. Stenio Solinas


È solo l'inizio, ma prepariamoci alla melassa. Ha vinto Calandrino, al secolo Matteo Renzi, e il conformismo italiano va già di corsa. È così boyscout (come no), così simpatico (come no), così statista (come no).
Come indossa il chiodo lui, non lo indossa nessuno, come ha fatto fuori Enrico Letta lui, non l'ha fatto nessuno. È un genio, ha asfaltato Beppe Grillo, è un supergenio, ha rottamato l'ex Cavaliere nero. È moderno, usa Twitter, è ganzo (siamo tutti toscani), usa le slide, va in bicicletta (è trendy), va sempre di fretta (era ora), ha persino la pancetta (simpatica, mica è il grasso sfatto della destra)... È già nel Pantheon, con Quintino Sella e il conte di Cavour, ha riconciliato la sinistra con la sinistra (giù le mani da Berlinguer), è il figlio, intelligente, di Veltroni, il nipote, preferito di D'Alema, il fidanzato ideale del ministro Boschi... Così giovani, così carini, così occupati.
Nel Decamerone, Calandrino si era convinto di aver trovato, «giù per lo Mugnone», la pietra che rendendo invisibili lo avrebbe fatto ricco. Così, riempì di botte la moglie Tessa che si ostinava invece a vederlo... Noi italiani rischiamo di fare la fine della sua consorte, ma ci piace credere alle favole: adesso andremo a Bruxelles, batteremo i pugni sul tavolo, torneremo a prosperare. L'elitropia di Renzi-Caladrino è l'alchimia perfetta: 80 euro in busta paga, che la festa cominci...
La Confindustria lo ha già abbracciato. Gli industriali, si sa, corrono sempre in aiuto del vincitore, se poi sta a sinistra corrono ancora più in fretta. E un riflesso pavloviano: sono familisti, ma ci tengono ad apparire progressisti, si fingono liberisti, ma vogliono che lo Stato gli ripiani i debiti. Dalla Fiat a De Benedetti, è una lunga tradizione.
Poi ci sono gli intellettuali, scrittori e registi, giornalisti tutti. Essere andati alla Leopolda è un po' come aver fatto la Marcia su Roma. Uno, dieci, cento, mille Baricco... Nei prossimi mesi vedremo la crescita esponenziale degli «antemarcia», non ci sarà un straccio di poeta, artista, polemista, che non dichiarerà di aver puntato su di lui sin da subito, che sin da subito non ne aveva colto le qualità salvifiche: un leader, una guida, un capo spirituale e in più «uno di noi». Non per nulla ha messo un romanziere (Dario Franceschini un romanziere? Certo, ha scritto dei romanzi...) alla Cultura.
È il nuovo che avanza, e nessuno vuole restare indietro. Lo abbiamo già visto, è già successo, eppure dà sempre un leggero senso di vertigine. Si dirà, guarda il fascismo: tutti col duce sino al 25 luglio, tutti fieramente contro il giorno dopo. Ma lì almeno c'era stato un ventennio vero, un partito unico, una dittatura, una guerra, una sconfitta. È dopo che l'aiuto al vincitore ha assunto toni surreali: tutti democristiani, poi tutti comunisti: in sonno i primi, perché non era elegante, sbandierati i secondi, perché era à la page... Non c'erano la prigionia o il confino per i dissidenti, c'era soltanto la voglia matta di stare comunque con chi garantiva una rendita di potere.
Ha vinto il riformismo, dice estasiato tutto un mondo che sino a ieri lo aveva relegato fra i ferri vecchi dell'odiata socialdemocrazia. Come si vede, il materialismo dialettico continua ad avere una sua forza e a produrre sintesi mirabili. Un riformista rivoluzionario, ecco pronto il nuovo kit di Renzi, re taumaturgo. Tra un po' gli basterà l'imposizione delle mani per guarire un popolo di scrofolosi.
Siamo un Paese strano, ma ancora più strani sono i nostri opinion leader, cortigiani per indole e non per necessità. Gli piace stare con lo Zeitgeist, lo Spirito del Tempo, soffrono se non sono nel vento, si avviliscono... Prepariamoci a nuove biografie immaginifiche, trionfali passerelle televisive, rilucidature di vecchie speranze: il Blair italiano del terzo millennio, l'Obama che gli Stati Uniti non hanno saputo avere, il Mitterrand in salsa toscana (del resto quello d'oltralpe non era soprannominato Le florentin, «il fiorentino», per la sua abilità politica?).
Dategli tempo, tanto non ne occorrerà molto: è già pronta la fanfara, si stanno già accordando i tromboni, i maestri del coro sono già sul podio. Più che un Vincerò, è un Abbiamo vinto. Siamo noi che abbiamo creduto in lui, da sempre, naturalmente. Criticato prima? Un corpo estraneo alla sinistra? Un infiltrato della destra? Ma no, ma non siamo stati capiti, ma era tutto un equivoco. Matteo über alles, in tedesco, va da sé.

(il Giornale)

 

Europee, analisi dei flussi elettorali.


 


L’analisi dei flussi elettorali fotografa l’esodo di elettori da un partito all’altro. Dunque, è indispensabile per capire appieno l’esito di una consultazione elettorale; e per tentare di decifrare il perché ed il percome un movimento politico abbia vinto ed un altro perso.

Il Pd, come noto, alle Europee è arrivato alla stratosferica cifra del 40%. A chi ha sottratto consensi? Una risposta la fornisce l’istituto di rilevazione demoscopica SWG.

Su 11milioni e 170 mila voti complessivamente raccolti, 4 milioni e passa provengono da altri soggetti politici: 1 milione e 270 mila da Scelta Civica, 1 milione e 90 mila dal Movimento 5 Stelle, 430 mila dal Pdl, 110 mila dall’Udc e da Fli, 420 mila da altri partiti di centrosinistra. Mentre dall’astensione giungono 1 milione e 140 mila consensi. Val la pensa sottolineare, poi, che, secondo la sondaggista di fiducia di Berlusconi, Alessandra Ghisleri, da Forza Italia al Pd sarebbero transitati anche più voti: 500-600.000.

Veniamo a Forza Italia. La formazione berlusconiana, che ha perso 2 milioni e 730 mila voti rispetto alle Politiche del 2013 (quando ne aveva già visti evaporare 6.297.330), ne ha regalati un po’ a tutti: 470.000 al Nuovo Centro Destra, 430.000 al Pd, 410.00 al Movimento 5 Stelle (cui, però, ne ha sottratti 130.000), 340.000 alla Lega Nord, 220.000 a Fratelli d’Italia. Rilevante è constatare, poi, quanti elettori l’abbiano abbandonata rifugiandosi nell’astensione: ben 1 milione e 750 mila.

Il movimento fasciocomunista 5 Stelle, invece, ha perso 2.900.000 suffragi (rispetto alle Politiche del 2013): 1 milione e 90 mila a favore del Pd (si chiama: nemesi), 240.000 a beneficio della Lega, 130.000 a favore di Forza Italia, altrettanti a favore di Fratelli d’Italia, 120.000 a beneficio dei comunisti della lista Tsipras, 100.000 a favore del cosiddetto N(nuovo)C(centro)D(democristiano).

La Lega, che pure ha perso 1 milione e 439 mila e passa voti rispetto alle precedenti Europee del 2009 (e, infatti, ha confermato solo 5 dei 9 seggi che aveva precedentemente conquistato), ne ha ottenuti 300.000 in più rispetto alle Politiche.

Terminiamo con Scelta Civica. Il movimento fondato da Monti, che pure aveva sottratto alle Politiche suffragi a Berlusconi, presentatosi a queste Europee con altre formazioni (che definire minori è essere fin troppi generosi) sotto le insegne di Scelta Europea, ne ha persi 2 milioni e 650 mila.

A tal proposito, e concludo, è interessante notare come dei 196.157 voti racimolati da Scelta Europea, ben 170.000 siano giunti da Scelta Civica; e, se la matematica non è un’opinione, solo 26.157 da tutte le altre formazioni lillipuziane: Centro Democratico (di Paolo Cirino Pomicino e Bruno Tabacci), Movimento Federalista Europeo e Fermare il Cretino.

(Camelotdestraideale.it)

Nazareno europeo. Davide Giacalone


Nei risultati delle europee c’è di più, e c’è di meglio, di quel che sembra. Il Partito democratico ha vinto, ma in modo tale da chiudere per sempre la storia del fu Pci (evviva) e da dovere ridefinire la propria identità. Forza Italia ha perso, ma in modo tale da escludere che il problema sia organizzativo o comunicativo, bensì di sostanza e rappresentazione. L’Italia centra una quaterna fatale: a. il governo più votato in Ue; b. il Paese che manda al Parlamento europeo il più alto numero di anti-euro; c. il Pd primo gruppo nazionale nel Pse (come il Pdl lo era nel Ppe); d. FI con un gruppo europeo molto indebolito, ma pur sempre rilevante per la maggioranza Ppe. Da qui si riparte, con l’occhio rivolto all’Europa e alla pancia del Paese (non alla propria).

Dal punto di vista continentale il dato decisivo è quello francese, con il Fronte National, primo partito. Nella catena europea, e specialmente in quella dell’euro, la Francia è l’anello debole. L’idea di mettersi al riparo del governo tedesco, e a disposizione del loro cancelliere, già adottata da Nicolas Sarkozy e seguita da François Hollande, non ha protetto la Francia, ma l’ha sfasciata. L’ha infranta sulle paure e ha creato una reazione d’insensato nazionalismo (nelle condizioni in cui sono se si sganciassero, come chiede Le Pen, andrebbero alla rovina). Di questo non si potrà non tenere conto, per il futuro dell’Ue.

Se l’anello francese s’è dimostrato debole, quello italiano ne è uscito inaspettatamente rafforzato. Escluso che il risultato si debba ai successi (semmai alle promesse) del governo, come è potuto succedere? Ha giocato un ruolo decisivo la paura. Renzi ringrazi Grillo. Tutti hanno scritto che gli ortotteri hanno perso clamorosamente, in realtà hanno preso un quinto dei voti, che non è poco, ma hanno fallito l’assalto alla maggioranza. Anzi l’hanno fortificata: spaventando molti elettori li hanno spinti verso un voto di difesa e di conservazione, di continuità e avversità contro ogni avventura, e quel voto è stato raccolto non tanto dal Pd, quanto da Matteo Renzi. Attenti a non cadere nelle illusioni ottiche: non è il Pd che ha sfondato al centro, è il centro elettorale che ha sfondato il Pd, è l’elettorato ragionevole e posato che lo ha adottato come scudo.

Il centro destra, inoltre, ha favorito Renzi regalandogli la rappresentanza in esclusiva dell’europeismo ragionevole. Regalo assai generoso, considerato che l’Italia è il Paese più europeista d’Europa. Sta di fatto che alcuni pezzi del centro destra si erano esplicitamente schierati contro la moneta unica, mentre il partito più consistente, Forza Italia, aveva cincischiato sul tema, supponendo fosse impopolare difenderla. Ma gli elettori non sono poi così sprovveduti: un pensionato o un impiegato avvertono come un pericolo l’instabilità monetaria e l’inflazione, capace di spolpargli il reddito; rotture e uscite non sono vissute come liberazioni, ma come avventure; i vincoli europei possono essere fastidiosi, ma la dilapidazione nazionale è allegra solo per chi la incassa. Temi rilevanti, come l’immigrazione, sono stati agitati come spauracchi, ma del tutto privi di proposte risolutive (qui illustrate). Insomma, hanno concorso in molti a far paura ai moderati, che hanno visto in Renzi non il capo della sinistra, ma un giovane moderato dietro il quale ripararsi.

All’indomani delle elezioni si riparte dal Nazareno, inteso più come metodo che come contenuto (scarso). La quaterna, inoltre, propizia un Nazareno europeo: uniti si rende l’Italia decisiva, ponendola alla testa di forze che raccolgono anche la scassata Francia. Non si tratta di imporre lo sfondamento del 3% (deficit/pil), ma di ricominciare da dove i tedeschi, nel 2011, misero i bastoni fra le ruote europee: federalizzazione di una parte del debito; Banca centrale con pienezza di funzioni; fondi per investimenti produttivi. Più di questo l’Ue di oggi non è in grado di pensare. Meno di questo e va tutto in pezzi. Per l’Italia è l’occasione di chiudere un capitolo e di far valere i propri punti di forza, sui quali ossessivamente abbiamo insistito (avanzo primario, rapporto debito/patrimonio, crescita del debito dal 2009, aiuti a chi era in difficoltà, esportazioni, etc.). Sarebbe sciocco sprecarla solo per continuare a fare il gradasso, o solo per invidia della prestazione. Conviene a tutti i soggetti seri. Ed è anche l’unico modo per parlare a quegli elettori che hanno dimostrato (con saggezza) di saper fare la differenza.

Pubblicato da Libero

venerdì 23 maggio 2014

Al voto!


Caro Mauro,
come ha scritto ieri in un commento Vincenzo: "È la campagna elettorale più surreale della nostra vita repubblicana. Da una parte il pensiero logico, razionale, consequenziale del nostro Presidente. Troppo capace per essere compreso dai disperati grillini e da chi segue la povera demagogia renziana. Questa è la volta in cui votare è penoso, ma davvero indispensabile.".

Questa è la campagna elettorale più difficile della nostra storia. Berlusconi, anche se pesantemente limitato dagli effetti della sentenza politica che sta scontando, ce la sta mettendo tutta, come al solito. La pressione di Renzi e Grillo è molto forte, anche su quanti in passato hanno votato per noi. Renzi copre gli aumenti certi delle tasse sulla casa e sui risparmi con una sequenza di annunci mirabolanti. Grillo, specula sulla disperazione di molti italiani.

Per questo votare Forza Italia è più che mai indispensabile, così come indispensabile è il tuo apporto in questi ultimi, decisivi giorni, nei quali molte persone decideranno se votare e per chi. Per questo abbiamo predisposto per te una serie di strumenti per fare il "porta a porta digitale". Li puoi trovare in questo minisito dedicato.

Noi di Forzasilvio siamo più di 269.000. Se ciascuno di noi riporta al voto per Forza Italia tre amici, otterremo quel risultato utile per l'Italia in Europa e importante per dare ancora più forza al rinnovamento che Berlusconi ha intrapreso in Forza Italia.

Grazie per quello che farai. Forza!

on. Antonio Palmieri
responsabile internet Forza Italia


giovedì 22 maggio 2014

In difesa dei diritti politici dei cittadini. Arturo Diaconale



Il Tribunale Dreyfus inizia la propria attività presentando alla Procura della Repubblica di Roma una denuncia-querela volta a chiedere alla magistratura italiana di accertare se nelle vicende che portarono alle dimissioni del Governo guidato da Silvio Berlusconi nell’autunno del 2011 vennero commessi reati previsti dal nostro codice penale. L’iniziativa non nasce da una qualche ossessione per le teorie complottiste o da un qualche cedimento alla tendenza giustizialista tesa a trasportare la dialettica politica sul terreno della giustizia penale.

Il Tribunale Dreyfus ha come motivazione di fondo proprio l’esigenza opposta: difendere i cittadini dalle ossessioni e dalle distorsioni della cultura giustizialista. L’iniziativa nasce, al contrario, dalla considerazione che da settimane e mesi si susseguono ricostruzioni e rivelazioni sugli avvenimenti che produssero la fine del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti senza che questo incalzante flusso di informazioni abbia fatto chiarezza su un interrogativo di fondo per il futuro del Paese. In quei mesi drammatici del 2011 la sovranità italiana venne rispettata o violata da istituzioni, organismi o soggetti stranieri?

La domanda non riguarda una questione di semplice orgoglio nazionale. La sovranità di uno Stato democratico riguarda i diritti politici dei cittadini. Quelli che si esercitano attraverso libere elezioni che danno vita ad organi costituzionali, i quali svolgono le loro funzioni sulla base del mandato ricevuto dal corpo elettorale. Nel tormentato periodo che va dalla primavera all’autunno del 2011 i diritti politici dei cittadini italiani sono stati rispettati e gli organi costituzionali dell’epoca hanno svolto le loro funzioni senza interferenze di sorta? Il Governo dell’epoca guidato da Silvio Berlusconi venne coartato o meno da insostenibili pressioni esterne? Le ricostruzioni degli avvenimenti fornite da personaggi autorevoli lasciano intendere che la sovranità venne violata, i diritti politici dei cittadini conculcati, le funzioni degli organi costituzionali pesantemente condizionate. Un libro dell’ex Premier spagnolo, il socialista Luis Zapatero racconta che al vertice G20 di Cannes dei primi di novembre, quello dei risolini di scherno tra il presidente francese Sarkozy e la cancelliera tedesca Merkel, ci furono pressioni fortissime sui rappresentanti del Governo italiano (il Presidente del Consiglio Berlusconi ed il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti) per far loro accettare un prestito del Fondo Monetario Internazionale che avrebbe dovuto salvare l’euro al prezzo di condizioni capestro per il nostro Paese.

Nel libro Zapatero ricorda che “nei corridoi si parlava di Mario Monti come di prossimo successore di Berlusconi a Palazzo Chigi. A sua volta Alan Friedman, nel suo libro “Ammazziamo il gattopardo”, rileva che già nel giugno precedente, cioè prima della crisi dello spread, negli ambienti di Bruxelles circolava il nome di Monti come futuro Primo Ministro italiano. E infine, la testimonianza più inquietante contenuta nel libro dell’ex ministro del Tesoro Usa, Timothy Geithner, riporta che in autunno “alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il Premier italiano Berlusconi a cedere il potere” e aggiunge che la richiesta venne respinta dal presidente Barack Obama con la frase “non possiamo avere il suo sangue nelle nostro mani”. Chi sono questi funzionari europei? Ed in nome e per conto di quali governi agivano?

Chiedere alla magistratura di fare chiarezza non vuole essere un modo strumentale di alimentare una polemica politica inevitabile. È la sola strada per sperare di raggiungere una verità che serve a fare chiarezza nel passato, ma che è assolutamente indispensabile per evitare che il futuro riservi nuove e drammatiche violazioni di sovranità nazionale, di diritti politici dei cittadini, di funzionamento degli organi costituzionali.

(l'Opinione)

 

mercoledì 14 maggio 2014

"Ha visto che non dico bugie?"


Silvio Berlusconi ha una specie di umiltà incorporata, va a Cesano Boscone col sorriso sulle labbra, poi si occupa di pensioni (da elevare a mille euro), di dentiere (gratuità per tutti i vecchi in difficoltà) e di pet o animali da compagnia domestica ("tutelarli per ragioni animaliste e sociali"), sa che la società è fatta di popolo, il popolo di individui e nuclei famigliari in difficoltà, ha sempre avuto un rapporto speciale con l' immenso elettorato femminile e anziano, oltre che con i ragazzi stregati dai tempi di Drive In, e non vuole mollare. Ma non si è fatto sorprendere né dal libro di Tim Geithner, l'ex segretario americano al Tesoro, il pupillo di Wall Street e della Casa Bianca di Obama primo mandato, e neppure dall'inchiesta monstre del Financial Times di Peter Spiegel sulla crisi dell'euro e i rapporti tra i grandi d'Europa e d'America.

Berlusconi aveva parlato prima. "Avevo detto che nelle mie dimissioni del novembre del 2011 c' era un elemento di coazione, che le cose si erano sviluppate e non per caso a ridosso del G20 di Cannes subito precedente la nomina di Monti senatore a vita eccetera, che un conto è il mio senso di responsabilità nazionale e un conto furono le manovre, esterne e interne, per eliminare un uomo di stato che in Europa contraddiceva il pensiero unico delle burocrazie e dell' establishment tedesco, capeggiato da Angela Merkel. Ecco qui le più rilevanti conferme da Washington e da Londra.
Puntuali. I magistrati che mi hanno perseguitato una vita senza prove li chiamerebbero 'riscontri' del colpo di stato".

Gongola, il Cav., perché Tim Geithner ha messo nero su bianco nel suo libro autobiografico appena uscito, papale papale, che gli eurocrati di Bruxelles, "i quali - osserva Berlusconi - agiscono sempre su mandato di alcuni governi", a un certo punto chiesero agli americani di aiutarli a cacciare da Palazzo Chigi il presidente eletto, ricevendo un rifiuto dall' Amministrazione americana, ma intestardendosi nel progetto di interferenza abusiva e di violazione delle regole democratiche.

E per sovrammercato c'è quella "stupenda" dichiarazione di Barack Obama, riportata dal Financial Times, davanti a una Merkel incapace di trattenere calde lacrime: "I think Silvio is right", penso che Berlusconi abbia ragione quando rifiuta di sottoporre l'Italia, "che non ne aveva alcun bisogno" aggiunge il Cav., al drammatico stress di un salvataggio mediante il Fondo monetario e l'Ue: "Dicono di aver evitato all'Italia di finire come la Grecia, i nostri sapientoni, in realtà avevano tentato di cacciare il nostro paese, con la strategia dello spread, in una condizione alla greca. Io l'ho impedito, ma quando ho visto che si apriva un fronte interno di desolidarizzazione, al quale non era estraneo perfino il capo dello stato, quando ho capito che l'interferenza era arrivata al suo culmine, ho preferito mettere l'interesse del paese alla stabilità nell'emergenza davanti allo scandalo di una cacciata dalla guida dell'esecutivo dell'ultimo presidente italiano scelto dal popolo. Cioè chi le parla. Ma lo scandalo resta, e se l'informazione fosse una cosa più seria e più libera di quella che effettivamente è, se ne parlerebbe e si indagherebbe anche in Italia, non solo a Washington e a Londra".

Berlusconi ride delle pretese di un Grillo, e anche dei pugni sul tavolo un po' infantili di un Renzi: "Non ne sanno nulla" - dice al Foglio - "conoscono solo le chiacchiere, ma non la realtà politica del confronto in Europa, e della battaglia, poi parzialmente vinta, per una Bce e per istituzioni sovranazionali capaci di una politica espansiva, non solo finanziaria, in difesa delle economie reali d' Europa".

"E quella battaglia continua adesso, anche con queste elezioni: da un lato i chiacchieroni, che chiedono il voto in premio alla demagogia o all'attivismo senza una direzione chiara, dall'altro il sottoscritto, cioè chi ha cercato con successo di fermare il treno crisaiolo della Bundesbank e delle eurocrazie, e per questo ha pagato il prezzo che ormai sappiamo alle sue scelte lineari".
Se aveva ragione nel braccio di ferro con la Merkel, come gli riconosce Obama (e nessuna smentita è arrivata al Financial Times), non avrebbe dovuto resistere? "Era forse nel mio interesse personale, oltre che nelle regole della democrazia italiana e di quella europea, ma la serie di manovre convergenti del fronte esterno e di quello interno avevano reso l'aria irrespirabile, e ora che le cose vengono in chiaro si capisce il perché, anche il perché della mia scelta ispirata al senso dello stato.
Una scelta che è arrivata solo dopo che l'Italia aveva ottenuto, anche a Cannes, la garanzia di essere lasciata in pace alle sulle riforme, da me tutte avviate o realizzate nei miei anni di governo".

Comunque, dice Berlusconi, "ora il problema è il futuro, visto che Mario Draghi ha fatto parte di quanto era dovuto e la situazione è ritornata parzialmente sotto controllo, su una linea che era la nostra linea: espansione monetaria, credito capace di trasmettersi a tutto il sistema e liquidità in difesa non del sistema bancario ma della salvezza finanziaria del risparmio e degli investimenti di imprese e famiglie".
"Ora - aggiunge - bisogna compiere l'opera.
Grillo in Europa è affetto da impotentia coeundi, non può muovere uno stecchino nella fitta trama dei populismi di serie B in cui si è cacciato per sua colpa: il suo voto serve a niente, è puro sberleffo, è nichilismo.
Renzi deve ancora imparare molte cose, per certi versi è un buon emulo del meglio dei nostri governi, ma per altri versi è prigioniero delle forze di sistema che assorbono e spengono lo slancio di qualunque riformismo a sinistra.

E allora per combattere in Europa, per una moneta che non sacrifichi con la sua forza apparente la ripresa e la crescita delle nazioni, per un vero rilancio è voto utile solo il voto a chi, parola di Obama e parola di Berlusconi, in quella circostanza decisiva was right, aveva ragione".
"Sono esterrefatto - conclude Berlusconi - dall'inchiesta del New York Times sull'impossibilità per le piccole imprese anche solo di discutere con le banche le linee di credito necessarie all'economia della produzione, dell'innovazione e del rilancio. E' pazzesco. Le banche sono state inondate di liquidità ma la sua trasmissione alla rete dell'industria, dell'artigianato e del commercio è ancora sostanzialmente bloccata.
Ora faccio una Lega per il credito giusto, e vediamo alla fine chi la vince, questa battaglia in nome dei veri interessi dei popoli europei, contro i formalismi della burocrazia più incapace del mondo".

Il Foglio, 14 maggio 2014






mercoledì 7 maggio 2014

Il piano cultura di Forza Italia. "Finito lo strapotere di sinistra". Pier Francesco Borgia


«Date un luogo comune a un fanatico e ne farà un dogma». Così, sommessamente, Roberto Gervaso salmodiava per esorcizzare la malattia culturale del nostro tempo.
Un virus che si è annidato per decenni in anfratti ben protetti, da dove ciclicamente esce per «evangelizzare» le nuove leve. Una malattia culturale che ha nella monopolizzazione della sinistra il suo sintomo più evidente. Quasi un gigantesco drago contro il quale faticano non poco gli sparuti san Giorgio indipendenti che tentano di difendere i principi della cultura liberale. Tra questi paladini spicca Edoardo Sylos Labini, attore e regista teatrale. Da tempo porta avanti una sua «politica culturale» che con Gramsci c'entra ben poco e che ha come punti cardinali il pensiero di Benedetto Croce, il genio di Gabriele D'Annunzio e la lucidità di Leo Longanesi.
«È sempre più difficile - spiega l'attore, reduce da una lunga tournée lungo tutta la penisola dove ha portato il fortunato spettacolo Gabriele d'Annunzio, tra amori e battaglie - difendere l'originalità e l'indipendenza di giudizio. Quasi che il paradosso fosse più raro e costoso di un diamante. Aveva ragione Longanesi a dire che il paradosso è il lusso delle persone di spirito, mentre la verità è il luogo comune dei mediocri». Le invettive, i paradossi, la libertà e l'indipendenza di un artista di razza non possono che scontrarsi con il muro di gomma tirato su da chi ha fatto della verità culturale prima un monopolio e poi un dogma. «Si può parlare di tutto, beninteso. Però la chiave di lettura dominante su ogni argomento la dettano i giornali di sinistra - aggiunge Sylos Labini -, forti di una tradizione che ha origini lontane. E contro questo monopolio è giusto sempre scendere in guerra e combattere. Ancor di più oggi che la sinistra appare divisa, annacquata e disorientata».
Al suo impegno di attore, regista e promotore culturale (a Sylos Labini si deve, tra l'altro, la nascita del foglio Il Giornale Off, che dà conto come poche altre testate del fervore di una culturale e di un'arte d'avanguardia e non allineata) l'attore ha affiancato recentemente l'impegno più propriamente politico. Dallo scorso marzo fa parte del comitato di presidenza di Forza Italia e onora il suo ruolo con battaglie sempre più cogenti sul futuro culturale e sulla valorizzazione artistica del nostro Paese. «Tra i luoghi comuni più odiosi - ricorda l'attore, che oggi sarà al fianco di Silvio Berlusconi nella presentazione del nuovo dipartimento Cultura del partito - c'è quello che da decenni identifica l'artista di valore come naturalmente schierato a sinistra. Una sciocchezza che è sempre stata venduta come oro colato. Mai come oggi, però, questa falsità mostra la sua pietosa debolezza dal momento che sono in molti a uscire allo scoperto. Insomma siamo all'outing collettivo di tanti artisti che finalmente possono mostrare tutto l'orgoglio del loro non essere allineati. Oggi è possibile rivendicare questa autonomia. Ed è proprio da qui che, secondo me, bisogna ripartire. Non solo per sdoganare i grandi maestri e i valori immortali della cultura liberale, ma anche per dare vita a una politica del fare che punti sul nostro patrimonio artistico e culturale come volano per la crescita». Di idee Sylos Labini ne ha molte e azzarda: «A me, come a tanti altri, non basta più smascherare il vizietto del doppiopesismo e del miope allineamento ai dogmi. Vogliamo un rilancio che sia incubatrice di nuove idee. Bisogna tornare, insomma, a essere originali, inventivi, lucidi e liberi come ai tempi di Marinetti (altro nume tutelare e cavallo di battaglia della carriera teatrale dell'attore, ndr)».

(il Giornale)