Durante il ventennio fascista non esisteva un libero Parlamento, ma restò l’immunità parlamentare. Non solo le forze di polizia, ma neanche la milizia mussoliniana, non solo i magistrati, ma nemmeno quelli del fascistissimo tribunale speciale, potevano azzardarsi ad aprire la lettera di un parlamentare, per non dire ad imputarlo di un qualche reato, senza l’autorizzazione della camera d’appartenenza. Potevano arrestarlo, ma solo in flagranza di un reato per cui l’arresto era obbligatorio (dovevano, insomma, trovarlo mentre scannava qualcuno). Questo antico e sano costume, nato a tutela della democrazia, era sopravvissuto alla soppressione della democrazia stessa. Si ritrovò, naturalmente, nell’Italia repubblicana. Fino a quando, in pieno delirio manipulitista, l’istituto fu soppresso, mettendo la democrazia nelle mani delle procure. Spiace ricordare che presidente della Camera era Giorgio Napolitano, lo stesso presidente che ricevette la lettera dell’onorevole Sergio Moroni, suicida, e non seppe fare altro che archiviarla.
Non c’è dubbio che dell’immunità si abusò, difendendo parlamentari i cui presunti reati non avevano nulla a che vedere con la manifestazione delle opinioni o con l’attività politica. Bastava vi fosse un “fumus persecutionis”, l’impressione che la procura lo perseguisse con sospetto ardore, per fermare tutto. Si sarebbe dovuto correggere l’abuso, invece si cancellò un baluardo dello Stato di diritto. La democrazia assediata, dalle procure, fece quello che neanche il fascismo aveva avuto il coraggio di fare. Così, oggi, abbiamo uomini delle istituzioni che si trovano sotto procedimento penale da quindici anni. O siamo un popolo di delinquenti, o, più verosimilmente, il sistema è impazzito.Perché l’assenza dell’immunità, l’essere senza difesa alcuna innanzi all’azione delle procure, nuoce alla democrazia? In fondo, non è forse giusto che si perseguano i colpevoli? Certo, che è giusto. Ed aggiungo che un antico costume di galantomismo imponeva ai sospettati di dimettersi, o, almeno, allontanarsi dalla vita pubblica, in modo, si diceva, da “essere liberi nel dimostrare la propria innocenza”. Questo, però, presupponeva due cose: una magistratura non politicizzata e tempi brevi per il giudizio. Nell’Italia d’oggi mancano tutte e due le cose. La nostra malagiustizia funziona così: la procura ti accusa, passando le carte ai giornali e procedendo allo sputtanamento, poi comincia un’attesa decennale, o più, al termine della quale gli stessi magistrati preferiscono chiudere la faccenda con le prescrizioni, in modo da non essere costretti ad ammettere che, la gran parte delle volte (e sono numeri, non opinioni), l’accusa era una boiata. Se, pertanto, l’accusato s’era uniformato al galantomismo, automaticamente si era fatto fuori, per sempre. Risultato: procedendo in questo modo sarebbero le procure a stabilire sia chi governa che chi siede in Parlamento. E questo non è un golpe, ma il suo risultato.
L’errore opposto, però, consiste nel credere che il suffragio popolare sia un giudizio che supera quello penale. L’autonomia fra le due cose è la natura stessa dello stato di diritto. Opporre i voti alle carte d’accusa non solo non è corretto, ma è deviante. La via d’uscita, pertanto, consiste nell’utilizzare i voti raccolti per far funzionare la giustizia, accorciandone i tempi e riqualificandone il personale. Non servono più soldi, perché ne spendiamo fin troppi. Fin quando non lo si farà, fin quando si proporrà a tutti i cittadini una giustizia che fa schifo, non si sarà in grado di riequilibrare il rapporto istituzionale fra giustizia e politica, fra magistrati e governanti.
La Corte Costituzionale queste cose non le ha viste, e non mi stupisco. Oramai è composta da giuristi-arrivisti, privi di spessore culturale e spina dorsale, senza alle spalle alcun pensiero originale, compilatori di tomi mediocri e scopiazzati, protesi ad attendere il turno per fare i presidenti, in omaggio ad un criterio d’anzianità che segna il trionfo dell’incostituzionalità nella carica più alta della Corte Costituzionale. Che vi aspettate, da gente simile? C’è chi si salva, da questo severo giudizio, ma non si salva il consesso, come testimonia, del resto, il numero ridicolo di presidenti emeriti, vale a dire di ex presidenti, che ingorgano la corsa alla merenda nei ricevimenti quirinalizi.
La politica, però, non è vittima, è colpevole. Spetta al legislatore ed al governante porre rimedio. Per farlo servono sia competenza che coraggio. In giro, invece, vedo molti smargiassi, adusi all’approssimazione.
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