venerdì 9 ottobre 2009

Quei teppisti chic della sinistra pronti allo sfascio. Marcello Veneziani

Un Paese svogliato viene spinto sull’orlo della guerra civile. Un Paese ammosciato, chiuso nel proprio ambito privato, viene eccitato e avvelenato ogni giorno, con dosi sempre più massicce, al punto da spingerlo, come non accadeva da decenni, a odiare il prossimo suo più di se stesso. Un Paese assediato da una minoranza di colore (ideologico) che gioca allo sfascio del Paese e del suo governo in tutte le sedi, interne e internazionali, giudiziarie e mediatiche. È quel che accade nell’Italia del 2009 attraverso un fuoco incessante che passa dai giudici alle escort, dagli europarlamentari ai giacobini feroci del video, della politica fino alle loro milizie, armate di veleno che ulcerano redazioni, scuole, università, programmi e salotti.
Dal de bello fallico di quest’estate al de bello civili autunnale, parafrasando Cesare: ora non resta che Bruto con le sue pugnalate. Finora abbiamo parlato della guerra nei Palazzi, e tra i Palazzi, quelli ove siedono i governi voluti dal popolo a quelli ove siedono i signori delle oligarchie. Ma lo spettacolo più feroce e preoccupante è in giro, nei luoghi pubblici. C’è un Paese incattivito, dove le discussioni politiche un tempo s’animavano ma poi si spegnevano perché nella vita e nei rapporti umani ci sono tante cose oltre il conflitto politico. Adesso, invece, se ti scoprono con la maggioranza silenziosa degli italiani, se sentono che non sei d’accordo con la campagna di guerra di Repubblica e dei suoi congiurati contro Berlusconi, o se addirittura vedono che leggi il Giornale (se poi ci scrivi non vi dico), ti inceneriscono di un odio totale che ricorda gli anni di piombo. Si spezzano i rapporti. Un Paese incupito, con una lugubre minoranza che sogna la morte biologica o civile del Nemico.
Tra i più accaniti miliziani e guerriglieri ci sono gli insegnanti, in particolare le donne. Sono acide, furenti, secernono veleni in classe e fuori, considerano l’intolleranza una virtù perché prova il loro impegno civile, la loro lotta di resistenza a oltranza. In treno, in aereo, per strada, al cinema perfino, mi capita di imbattermi in questi campioni: l’odio si avverte nell’aria. A Napoli l’altra sera presentavo il mio libro sul Sud, mica sul Lodo, e gli organizzatori mi hanno detto che hanno invitato come sempre fanno le insegnanti delle scuole: reazioni furibonde delle suddette menadi, professoresse che gettano a terra l’invito, espressioni ineleganti, ferocia e inciviltà come non ci sarebbe da aspettarsi da una docente detta un tempo educatrice. Ma è solo un caso tra mille. So di famiglie lacerate e di amicizie ferite dal Lodo Alfano o Mondadori. E leggendo i giornali scopro toni di insulto e di offesa come non pensavo fosse più possibile nella nostra epoca fredda e cinica; toni da guerra civile con omicidio mediatico-giudiziario. Per fortuna la società è piena di vigliacchi e non si passa dalla violenza verbale a quella fattuale, ma gli ingredienti ci sono tutti.
Ecco io di questo accuso quella minoranza furiosa che vorrebbe vedere stecchito o detenuto Berlusconi per punire l’intero Paese, l’Italia, che a loro non piace; per dare una lezione a questi italiani merdosi, per dirla con un’espressione in voga. Ogni sondaggio che decreta il consenso in favore di Berlusconi solleva palate di sterco contro l’Italia e i suoi cittadini.
Non so quanto tempo potrà sopportare il Paese un clima del genere. Che è poi un clima innaturale, fuori stagione. Perché, almeno, ai tempi della guerra civile, si difendeva la vita, la dignità e la memoria di soldati al fronte o di figli mandati a morire in guerra, si disputava tra due visioni del mondo. E c’era la guerra, i bombardamenti, i rastrellamenti, insomma si pativa davvero. Un clima cruento, tra la vita e la morte, generava scontri mortali. Qui invece ci stiamo scannando in clima di pace e benessere, per il Lodo o peggio per la D’Addario.
Vi rendete conto? Nei salotti poi non vi dico, c’è una forma di teppismo chic che non ha precedenti. Dico nei salotti buoni, che vengono chiamati così offendendo le nonne e le vecchie zie che furono le vere tenutarie dei salotti buoni; quei salotti impraticabili, dove dominava la bambola a gambe aperte al centro del divano, e dove si accedeva solo nelle occasioni speciali mentre nei giorni profani si doveva navigare con le pattine per non sporcare. I salotti «buoni» del teppismo chic sono diventati festival del turpiloquio antiberlusconiano, più maledizioni aggiuntive per chi lo difende: a parte Satana Berlusconi, guidano la classifica degli insulti Brunetta e Feltri.
Ma torno al clima feroce che ci sommerge per dire: si può giocare allo sfascio di un governo, di un Paese, di una convivenza civile e pacifica, solo per rovesciare il verdetto delle urne e distruggere un premier?
La cattiveria poi si riversa in ambiti laterali e diversi; tutto si fa più cruento e gridato, il ripensamento della storia, il rapporto tra religione e laicità, i temi della bioetica, la discriminazione e il vilipendio di chi non la pensa come noi... Questa è la vera barbarie dei nostri giorni. Un tempo commettevano ferocie le rozze masse contadine e proletarie per fame, disperazione ed eccitazione rivoluzionaria; oggi invece sono milizie benestanti con titolo di studio superiore, bande armate di insegnanti, non di studenti; commando di borghesi che sparano nel nome della Cir, di Carlo De Benedetti e usano il passamontagna della Corte. A proposito del Lodo Mondadori: come mai nessun magistrato si incuriosisce alle partite Olivetti piazzate ai ministeri, anche se scadute, per non dire dei registratori di cassa o alle miracolose compravendite alimentari di De Benedetti con i belgi? Al gruppo Rizzoli-Corriere della Sera ceduto a prezzi stracciati ad Agnelli e a tante curiose storie editoriali del nostro Paese che riguardano i maggiori gruppi editoriali, con banche e palazzinari? Gruppi con un peso politico, non solo d’affari. Perché nessuno s’interroga sui prodigi intorno alla telefonia, magari rilevate senza soldi e poi stravendute guadagnando soldi veri? Tutto normale? Una guerra incivile attraversa i poteri e contagia il Paese.
Fermatela, prima che sia troppo tardi, quest’Italia barbara con la bava alla bocca, benché snob, che odia se stessa tramite Berlusconi, l’arcitaliano. (il Giornale)

14 commenti:

Anonimo ha detto...

come mai nessun magistrato si incuriosisce alle partite Olivetti piazzate ai ministeri, anche se scadute, per non dire dei registratori di cassa o alle miracolose compravendite alimentari di De Benedetti con i belgi?

se sai qualcosa,e hai prove vai dai giudici a raccontarle, per legge apriranno un fascicolo e indagini


o caro Veneziani sono le solite balle e opinioni del giornalista dipendente del Giornale?


invece di scrivere stronzate non è meglio andare zappare la terra, rendere produttivo il paese, far circolare la moneta giacchè le tirature dei giornali stanno crollando e i soliti italiani con le tasse vi aiutano a sopravvivere con i contributi per l'editoria , carta ecc ecc?

fuoco amico ha detto...

Quando CdB tradì l’accordo tra galantuomini


È un po’ quello che succede quando due bambini litigano: entrambi fanno qualche cosa che non va, magari un’azione fallosa, forse si lasciano trascinare. Inevitabile, umano, comprensibile. Però non è male stabilire chi fra i due ha incominciato la rissa, chi ha tirato il primo schiaffo, perché è sempre utile sapere come stanno le cose. È una massima che si può applicare a quello che è avvenuto fra i due duellanti nazionali, vale a dire Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, il Cavaliere e l’Ingegnere che da anni si combattono sui mercati e nelle aule dei palazzi di giustizia sulla nota vicenda del controllo-spartizione della Mondadori.

La storia, come tante altre in questo Paese con le lancette dell’orologio che camminano all’indietro, parte una ventina di anni fa. La casa editrice di Segrate guidata da Mario Formenton, marito di Cristina Mondadori, è in difficoltà, quasi travolta dall’avventura televisiva di Rete 4 che si è rivelata più onerosa del previsto. Capisce che da sola non riuscirà ad andare avanti, è indispensabile chiamare dei rinforzi, farsi affiancare da qualcuno con capitali adeguati. È il 1986 e la soluzione che viene individuata è questa: si crea una cassaforte alla quale le famiglie Mondadori-Formenton conferiscono i loro pacchetti della casa editrice. Questa scatola viene battezzata Amef (acronimo di Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria) e ha come soci i Formenton, e l’altro ramo della famiglia, vale a dire Leonardo Mondadori, che insieme ne controllano il 25 per cento; un altro 16 è della Cir di De Benedetti, mentre la Fininvest di Berlusconi ha l’8. Quote minori vanno ad altri bei nomi del capitalismo nazionale, come i Rocca, che insieme formano una sorta di salotto buono dell’editoria. Tanto buono che la sede per l'Amef viene trovata in un elegante palazzo di via Montenapoleone a Milano.

Anche l’immagine reclama la sua parte. E la reclamano le due new entry dell’Amef, proprio De Benedetti e Berlusconi che nella Milano dell’epoca sono guardati, entrambi, con un certo sussiego dai salotti buoni tradizionali che li ritengono (ripetiamo: entrambi) due parvenu, bravi quanto disinvolti, lontani dalle maniere che, apparentemente, caratterizzano le storiche famiglie del capitalismo italiano, allora non ancora incamminate su quella china di decadenza che avrebbero imboccato di lì a poco. L’ingresso nell’Amef accanto a un nome blasonato come quello dei Mondadori dà loro uno status appagante, oltre a un ruolo di primo piano nella plancia di comando di una delle più importanti case editrici italiane. I soci di quella scatola-contenitore sono legati da un patto di sindacato che regola i rapporti reciproci.

E soprattutto dice - come sempre negli accordi di quel tipo - che se uno dei soci decide di vendere la sua partecipazione, deve prima offrirla ai suoi colleghi che hanno il diritto di rilevarla pro quota. Tutto fila liscio per un anno, ma nel 1987 Mario Formenton muore. E la situazione si fa difficile, perché risulta subito chiaro che gli eredi prima o poi passeranno la mano. Secondo i giornali dell’epoca, sarebbe stato lo stesso Formenton a consigliare ai suoi questo passo, e a indicare De Benedetti come candidato da scegliere per il passaggio di testimone. Suggerimento che all’inizio viene seguito diligentemente: l’amicizia fra le famiglie Mondadori e De Benedetti, fra Cristina e l’Ingegnere è solida, profonda. E l’anno dopo sfocia in un passo inatteso: il 21 dicembre Cristina firma un accordo con l’Ingegnere nel quale impegna la famiglia a vendere alla Cir la sua quota nell’Amef. Attenzione: non è una vendita, ma una promessa di vendita da attuare in futuro e non muta nell’immediato l’assetto azionario. Quindi formalmente le regole del patto sono rispettate.

fuoco amico ha detto...

Formalmente. Chi ha vissuto quelle giornate ricorda anche dei dettagli. Eccoli: Leonardo Mondadori viene informato dell’accordo, della promessa di vendita delle azioni Amef per 10mila lire l’una; gli viene anche assicurato che De Benedetti è disposto a riconoscere lo stesso prezzo per la sua quota. Leonardo va a Roma, negli uffici capitolini dell’Olivetti (controllata allora da De Benedetti), in piazza di Spagna. L’Ingegnere gli conferma la sua disponibilità a rilevare il suo pacchetto a quel prezzo e gli fa anche notare che si tratta di una carineria, non essendo a quel punto la sua partecipazione determinante per il controllo. Leonardo esce dall’ufficio e si mette in contatto con Berlusconi, il quale è indignato e rilancia: «Ti compro io quelle azioni e a 15mila lire l’una».

Nei mesi successivi succedono altre due cose, su fronti lontani ma convergenti: i rapporti fra Cristina Mondadori e De Benedetti si raffreddano; La Repubblica incomincia a lanciare attacchi politici molto decisi contro il segretario del Psi, Bettino Craxi, il politico più vicino al Cavaliere. C’è un clima teso, la guerra di Segrate è agli inizi. La dichiarazione ufficiale è del 2 dicembre 1989: la famiglia Formenton rompe l’intesa dell’anno prima che la legava con De Benedetti e ne firma un’altra che la lega a Leonardo Mondadori e a Berlusconi. Le ragioni? Si leggono in un comunicato dell’epoca della Fininvest: «Nei mesi scorsi la famiglia Formenton ha potuto constatare, da parte di Cir, comportamenti e propositi contrari allo spirito e alla lettera del patto di sindacato dell’Amef e in particolare finalizzati all’emarginazione della finanziaria a vantaggio della scalata autonoma e ostile alla Mondadori da parte della stessa Cir». Ed ecco lì il primo schiaffo.

fuoco amico ha detto...

LA STORIA INFINITA
di Agnesina Pozzi

Un articolo di Giampaolo Pansa su "Libero" del 6 ottobre 2009 ci spiega benissimo cosa accadde 20 anni fa quando la Repubblica, di proprietà di Eugenio Scalfari e del Principe Caracciolo "salì" a Torino. De Benedetti era già proprietario della Mondadori, tranne che per la parte di Repubblica, l'Espresso e giornali locali ed acquistò anche questi rendendo Scalfari e Caracciolo miliardari e azionisti del gruppo. In un altro articolo a firma di Franco Bechis, apprendiamo che i 410 miliardi di lire dati all'epoca a Barbapapà e al Principe forse furono un danno per gli azionisti perchè c'era un patto sindacale tra Amef e Mondadori (comunicato al mercato e ai piccoli azionisti) e che fu violato in segreto da De Benedetti a danno di tutti gli altri soci (Berlusconi, Merloni, Rocca, Mondadori, e piccoli azionisti Amef e Mondadori).
Infatti presa la Mondadori De Benedetti, violando i patti sindacali, la fuse con la Repubblica e L'Espresso mettendo così i soci in condizione di dover pagare Scalfari e Caracciolo i quali dissero, all'inizio, di aver rinunciato ai premi di maggioranza a favore dei piccoli azionisti. Poi però si scoprì che le cose andarono diversamente grazie a deliberati firmati da una parte dall'azionista del gruppo Repubblica-Espresso che vendeva (CARACCIOLO) e dall'altra firmati dall'acquirente, nuovo presidente della Mondadori (SEMPRE CARACCIOLO!!!). Per ogni comune mortale che non s'intenda di un tubo di finanza ed azioni e mercato, queste sottili strategie sembrano davvero anomale e, se non francamente truffaldine, perlomeno SLEALI verso i compagni di avventura e i piccoli azionisti, che invece avevano dato ascolto e si fidavano dei comunicati ufficiali al mercato e dei patti di sindacato.

fuoco amico ha detto...

Ma torniamo un pò indietro. All'epoca, la DC scelse come segretario Arnaldo Forlani al posto di Ciriaco De Mita (molto amico di Scalfari e Repubblica); nel maggio del 1989 la crisi di governo tolse a De Mita anche la poltrona di Palazzo Chigi con il trionfo di Bettino Craxi nemico di Repubblica e amico di Silvio Berlusconi che allora era azionista di minoranza nel gruppo Mondadori, per la maggior parte di proprietà di De Benedetti. A metà del 1989 nacque il governo Andreotti. Andreotti e Forlani naturalmente erano antagonisti di De Mita il quale era stato appoggiato dalla Mondadori che a sua volta era in tenera intesa con il PC di Achille Ochetto. Silvio Berlusconi era un fiduciario di Craxi,e stava "accucciato" buono buono in Mondadori; Craxi ad un certo punto lo sguinzagliò e nel dicembre cominciò la battaglia per conquistare Mondadori. Uno scontro IN BORSA alla fine, che si concluse nel 1991 con il famoso "Lodo Mondadori" mediato da quel Ciarrapico e che esitò in una spartizione, dal momento che tanto Andreotti, quanto Forlani, quanto Craxi avevano a chiare lettere fatto sapere che un gruppo così grande non sarebbe potuto andare ad un solo individuo; imposero a Berlusconi di dare via La Repubblica, L'Espresso e i giornali del gruppo Finegil, altrimenti avrebbe dovuto vendere le televisioni!!! Insomma Berlusconi imprenditore, all'epoca fu VITTIMA d'imposizioni da parte dei politici di allora.

Nel 1991 il giudice Vittorio Metta (Corte d'Appello Penale di Roma) risolse a favore di Fininvest la lite con De Benedetti per il controllo della Mondadori. La mediazione di Ciarrapico portò a questa spartizione:

a De Benedetti Repubblica, Espresso e giornali locali

a Berlusconi il marchio Mondadori, Panorama, altri periodici e libri.

Tutto tranquillo fino al 1997; fino a quando cioè Eugenio Scalfari, teorico de "La Repubblica" quale faro della sinistra, scrisse che i giudici che si stavano occupando dell'Ariosto, di Previti e del Tribunale di Roma, avrebbero fatto bene a"mettere il naso" nella strana vicenda" del Lodo Mondadori.

La richiesta fu subito accolta e il Gruppo Espresso accontentato, nel tentativo di dare una potente spallata a Berlusconi, naturalmente coinvolto come presidente del Cda Fininvest.

fuoco amico ha detto...

In quel processo penale, Berlusconi fu assolto in primogrado, il reato fu derubricato a corruzione semplice ed è vero, estinto per prescrizione. Nonostante ciò il Giudice monocratico Mesiano, in sede civilistica, sentenzierà (e senza una perizia tecnica d'ufficio per la valutazione del danno) un risarcimento a favore di De Benedetti per 750 milioni di danni patrimoniali. Affererà anche che la sentenza di Metta fu espressa in fretta e senza poter entrare nel merito per annullare il Lodo Mondadori e, non dimenticando che Metta non era solo ma c'era un Collegio a decidere, affermerà a scanso di equivoci, che il giudice relatore "è sempre in grado di condizionare il collegio". Mi chiedo se i componenti del Collegio della Corte d'Appello di Roma di allora, non possano e non debbano anche querelare il loro collega Mesiano per diffamazione... Alla fine però..il risultato attuale di tutto questo teatrino, compresa la sentenza risarcitoria ai danni di Fininvest è che

1) Cir (di De Benedetti) ha avuto un incremento in borsa del +8,21%

2) La sentenza arriva ad "orologeria" dopo gli attacchi puttaneschi e la questione caprina della libertà di stampa

3) viene depositata nello stesso giorno della manifestazione per la libertà di stampa (..ekkecaso ma che caso!!)

4) si aggiunge a collezionare altre spallate partite dal gruppo Repubblica ed Espresso al successo elettorale di Berlusconi

5) s'inserisce nel delicato momento di decisione della Consulta sul Lodo Alfano relativo all'immunità per le alte cariche dello Stato senza considerare naturalmente e vigliaccamente chel a stessa Costituzione prevedeva ciò, ed era stata cambiata nella deriva tangentopolesca.

Mi dispiace l'aver ritenuto Stefano Rodotà, Costituzionalista, un uomo onesto intellettualmente da ricordare ciò agli spettatori di Ballarò. Lui non lo ha ricordato, pur essendosi ripreso "in corner” dopo le iniezioni di fosforo di Sandro Bondi. Non ricordavo neppure che Rodotà scrive, credo remunerato, su Repubblica. Sarà un caso anche questo?

E per finire, la ciliegina sulla torta: l'avvocato che rappresentava i PM di Milano e che la Consulta non ha accettato a presenziare alla decisione sul Lodo Alfano, sapete chi era? Manco a dirlo che viene da ridere (o da piangere...scegliete voi): L'avvocato Pace storico legale di De Benedetti che ha fatto sempre la GUERRA a Berlusconi. POtevano i PM nominare un simile avvocato a rappresentarli in nome della Giustizia e dell'imparzialità che dovrebbero incarnare ed esercitare per TUTTI i cittadini, Berlusconi compreso? Non credo propio.

fuoco amico ha detto...

Biografia non autorizzata
Storia imprenditoriale (e non solo) di Carlo De Benedetti l'uomo dei poteri forti

di
Maurizio Stefanini



“Il nemico ci lusinga, stiamo per tradire (ma non subito)” ha titolato con tipica autoironia sul Foglio Giuliano Ferrara, con la sentenza sui 750 milioni che Fininvest dovrebbe pagare a Cir piombata subito dopo che il giornale “tendenza Veronica” aveva pubblicato un peraltro innocuo articolo di Carlo De Benedetti su “Obama tra Roosevelt e Carter”. A 75 anni, torna un’altra volta alla ribalta colui che è stato nel mondo imprenditoriale italiano il grande antagonista sia del ricco per eredità Gianni Agnelli che del tycoon fai-da-te Silvio Berlusconi. Anche perché appartiene a una terza categoria in qualche modo intermedia: figlio di un piccolo industriale, poi però cresciuto ulteriormente. In più, col tratto cosmopolita dell’origine ebraica, che provocò alla famiglia durante il fascismo una serie di peripezie su cui sua nuora ha pure scritto un romanzo. (Emmanuelle de Villepin, Tempo di fuga, Longanesi, 2006). Peripezie, tra l’altro, che sono state ritirate fuori anche di recente, in margine alla polemica tra Berlusconi e Repubblica. “Solo il modo in cui sono poste mi fa dire che a questa gente non rispondo. Se queste domande, in altro modo, me le avesse poste un giornale che non fosse un super partito politico di un editore svizzero con un direttore dichiaratamente evasore fiscale, avrei risposto”, aveva spiegato il Cav, sul perché non aveva dato un chiarimento sull’ormai famosa lista di domande. “De Benedetti ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse”, ha risposto il direttore di Repubblica Ezio Mauro

fuoco amico ha detto...

Carlo De Benedetti, classe 1934, è abbastanza dentro alla buona società da essere compagno di studi di Umberto Agnelli. Ma il padre non è mai andato oltre i tubi: la Compagnia Italiana Tubi Metallici Flessibili, fondata da Rodolfo De Benedetti nel novembre 1921 con capitali in parte tedeschi (Società Witzenmann di Pforzheim). Laureato in ingegneria elettrotecnica nel 1958 al Politecnico di Torino, Carlo comincia a lavorare nell’impresa di famiglia. E non è che nel 1972 che assieme al fratello Franco, futuro senatore, acquisisce la Gilardini: una società quotata in Borsa che fino ad allora si era occupata di affari immobiliari e che i due fratelli trasformeranno in una holding di successo, impiegata soprattutto nell'industria metalmeccanica. Presidente e amministratore delegato della Gilardini, nel 1974 Carlo è nominato presidente dell'Unione Industriali di Torino. E nel 1976, grazie all'appoggio del vecchio compagno di scuola Umberto Agnelli, ottiene la carica di amministratore delegato della Fiat. Come "dote" porta con sé il 60% del capitale della Gilardini, che cede alla società degli Agnelli, in cambio di una quota azionaria della stessa Fiat (il 5%). De Benedetti cerca di svecchiare la dirigenza della società torinese, nominando manager a lui fedeli, a cominciare dal fratello Franco, alla guida di importanti unità operative del Gruppo. Ma dopo appena quattro mesi deve abbandonare la carica. Motivazione ufficiale: “divergenze strategiche”. Ma quel che c’è sotto davvero non si sa. Alcuni parlano di una semplice incompatibilità con Romiti. Altri che la parte di dirigenza Fiat più legata alla famiglia Agnelli avrebbe scoperto un tentativo dei De Benedetti di scalare la società, appoggiati da gruppi finanziari elvetici (ancora la Svizzera…). Forse non è vero. Ma corrisponde comunque alla leggenda nera su De Benedetti, inquieto protagonista di arrischiate scalate che vanno sempre a finire male. Anche se lui ha l’abilità di uscirne fuori sempre con le tasche piene.

D’altra parte, è proprio con il denaro ottenuto dalla cessione delle sue azioni Fiat De Benedetti può rilevare le Compagnie industriali riunite (Cir), garantendo loro il controllo azionario del quotidiano Repubblica e del settimanale L'espresso. E qui inizia invece la leggenda opposta: quella “bianca” del De Benedetti miliardario illuminato e generoso finanziatore della stampa progressista. Esemplare in proposito è il ritratto che ne dà Eugenio Scalfari nel 1986 in La sera andavamo a Via Veneto (Mondadori): “è stato il solo, tra gli industriali di nome, ad aver osato sfidare la ‘monarchia’ Agnelli. È il solo del suo ambiente ad avere un rapporto col partito comunista. È ancora il solo che ha mantenuto una polemica autonomia rispetto ai gruppi politici dominanti”.

fuoco amico ha detto...

Spiega ancora Scalfari: “in Italia ci sono stati molti finanzieri e imprenditori ‘avventurosi’, protagonisti di grandi romanzi politico-economici, ma si è sempre trattato di outsider rifiutati dal sistema. L’unicità di De Benedetti consiste proprio in questo: non è fuori dal sistema anzi vi è profondamente inserito; e pur tuttavia è anomalo rispetto ad esso. Non rifiuta le regole del gioco, ma le interpreta in modo radicalmente difforme dagli altri. Diciamo che la sua interpretazione è più vicina ai modelli liberistici che a quelli dell’oligopolio. Infatti, gioca da ‘cavalier solo’. Sotto le apparenze d’un uomo d’affari assai arrischiato la realtà è invece quella d’un calcolatore assai prudente. Non si conosce che abbia mai bluffato nel corso delle sue complesse partite; né che sia andato alla ricerca del ‘colpo grosso’ mettendo sul tavolo tutta la posta. Proprio a causa di questa cautela, accompagnata da una capacità di lavoro eccezionale e da un intuito per gli affari molto superiore alla media, si è da tempo formato in Borsa un ‘partito De Benedetti’: quando si muove in una direzione, il mercato lo segue senza esitazioni; il suo nome funzione ormai come una garanzia, attorno alle sue iniziative si aggregano in breve tempo capitali cospicui formati da una miriade di anonimi risparmiatori medio-piccoli. Così De Benedetti ha costruito il suo credito, questo è il suo leverage, il suo potere di mobilitare capitali e guidarli”.

Dopo la Cir vede la luce anche Sogefi: operante sulla scena mondiale nei componenti per autoveicoli, ne sarà presidente per venticinque anni consecutivi, prima di cedere il posto al figlio Rodolfo, conservando però la carica di presidente onorario. E nel 1978 entra in Olivetti: un’altra impresa dalla fama di progressismo, anche per la fede socialista del fondatore Camillo Olivetti e per gli arditi esperimenti di ingegneria sociale che il figlio Adriano fece a favore dei suoi operai. Ma Davide Cadeddu, in una breve biografia presentata nel volume a quattro mani con Giulio Sapelli Adriano Olivetti lo Spirito nell’impresa (Il Margine, 2007), ha sparato a zero su quanto “successe anche nella stessa Olivetti quando vi giunse Carlo De Benedetti e nulla di quei valori lasciò nell’azienda, ma tutto di essi disseminò fuori di sé, come per una sorta di hegeliana astuzia della ragione”. In particolare Cadeddu ricorda “l’arrivo di Carlo De Benedetti e la sua presa di possesso degli uffici: un esempio di mancanza di stile che rimarrà memorabile nelle storie del saper vivere internazionale, con l’ondata di terrore aziendale che ne seguì e con il contagio di opportunismo che determinò, dissipando repentinamente il patrimonio di lealtà organizzativa costruito in decenni e trasformandolo in vuoto di fedeltà zelante di ossequio. E ciò avvenne con una rapidità impressionante dopo il licenziamento di decine di dirigenti, a confortare l’ipotesi –già espressa tra gli altri da Ottorino Beltrami nella sua testimonianza – che molto rapidamente, cioè immediatamente dopo la morte di Adriano nel 1960, con il sopraggiungere del gruppo di controllo diretto da Bruno Visentini, di quei valori in azienda s’iniziò la svendita. Sotto questo profilo, l’avvento di Carlo De Benedetti non fu altro che il definitivo suggello di un processo di dilapidazione avviato già da tempo”. Ed ecco qui altri due risvolti della leggenda nera di De Benedetti. Primo: il padrone delle ferriere nel senso più deteriore del termine che si dipinge come progressista e finanzia la sinistra per ripulirsi l’immagine. Secondo: il comodo bersaglio polemico che chi non è a sinistra può ritorcere contro i partiti dei moralizzatori, della serie: “ma perché non guardate alle travi negli occhi vostri?”.

fuoco amico ha detto...

È però pure vero che quando nel 1978 ne diventa presidente la Olivetti è un’azienda dal nome sì glorioso, ma molto indebitata e dal futuro incerto. De Benedetti pone le basi per un nuovo periodo di sviluppo, basato sulla produzione di personal computer e sull'ampliamento ulteriore dei prodotti, che vede aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. Soprattutto quello dei registratori di cassa sarà un affare d’oro, quando nel 1985 Bruno Visentini, ministro delle Finanze del governo Craxi, obbliga per legge tutti i commercianti al dettaglio al loro utilizzo con emissione dello scontrino fiscale. Indubbiamente, era una misura indispensabile per combattere l’evasione. Il fatto che lo stesso Visentini fosse stato presidente della Olivetti diede però luogo a fiere polemiche, anche se oggi di quel conflitto di interessi e di quel favore del governo Craxi a De Benedetti si è persa memoria quasi del tutto.

Nel 1984 la Olivetti aveva comunque inglobato l'inglese Acorn Computers. E nell’aprile del 1985 Romano Prodi presenta a sorpresa De Benedetti come azionista di maggioranza della Sme: il fiore all'occhiello dell'industria agro alimentare italiana, definita dallo stesso Prodi “Perla del gruppo Iri”, e che spazia da Motta e Alemagna a Bertolli, supermercati Gs e Autogrill. La bontà dell’operazione è stata curiosamente difesa dai giustizialisti Gomez e Travaglio nel loro libro Le Mille Balle Blu (Rizzoli, 2006): “Berlusconi s’interessò della Sme nel 1985 su richiesta di Craxi che voleva ostacolare l’acquisto dell’azienda da parte della Buitoni del suo nemico Carlo De Benedetti. L’azienda pubblica fu valutata dagli alleati del Cavaliere, Barilla e Ferrero, rispettivamente 10 e 30 miliardi di meno della cifra pattuita da Iri e Buitoni sulla base di due perizie indipendenti commissionate a due esperti della Bocconi. E Berlusconi, quando rilanciò, offrì prima 550 miliardi (appena il 10% in più di De Benedetti, il minimo rilancio possibile) e poi 600. Se davvero, già all’epoca, valutava la Sme 2500 miliardi, non resta che concludere che anche lui voleva rapinare lo Stato. Altro che medaglia d’oro. Il fatto poi che 10 anni dopo la Sme sia stata venduta per 2000 miliardi dipende da altri fattori: l’inflazione; il boom del settore alimentare; il fatto che la società fu ceduta a pezzi e nel frattempo era stata risanata dall’Iri (mentre nel 1985 era un carrozzone fortemente indebitato); e soprattutto il fatto che ne fu ceduto il 100%, mentre nell’85 la Buitoni offrì 500 miliardi per rilevarne soltanto il 64,3%. Prodi non svendette nulla, e infatti fu prosciolto all’epoca dal Tribunale di Roma che indagava sull’affare”. Un altro, più corrente punto di vista è invece quello espresso dalla Wikipedia in italiano: “La vendita è incomprensibile sia da un punto di vista economico che da un punto di vista procedurale. In sordina era stato venduto il 64% della Sme per 497 miliardi (pagabili a rate). La società aveva una cassa attiva per 80 miliardi di lire (40 milioni di Euro) e utili (nel 1985) per 60. Inoltre al pacchetto di maggioranza della società non veniva applicato il premio di maggioranza per il controllo della stessa. Se consideriamo che la Sme aveva una capitalizzazione di 1.300 miliardi è facilmente comprensibile come il controllo azionario della società passava di mano per una cifra notevolmente inferiore a quanto fissato dal valore di mercato”.

fuoco amico ha detto...

Comunque, è questa l’epoca in cui alla rivalità con Agnelli si aggiunge quella con Berlusconi, trascinato da Craxi in reazione alla linea anti-Psi dei giornali editi da De Benedetti. E che poi non deriva in realtà probabilmente da interessi particolari dello stesso De Benedetti, ma all’ideologia di quel partito dei moralizzatori di cui Scalfari è un leader. Intanto, le toccate e fughe continuano. All'inizio degli anni ottanta De Benedetti è già entrato nell'azionariato del Banco Ambrosiano, guidato allora dall'enigmatico presidente Roberto Calvi. Con l'acquisto del 2% del capitale, De Benedetti ha ricevuto la carica di vicepresidente del Banco: funzione puramente onoraria ed a cui non era collegata alcuna attività di gestione effettiva(nella sede milanese dell'Ambrosiano, in Via Clerici, non gli era stato assegnato neppure un ufficio). Dopo appena due mesi, lascia il Banco cedendo la sua quota azionaria. Ma comunque è riuscito a incrociare anche la torbida vicenda del banchiere poi trovato impiccato al Ponte dei Frati Neri di Londra.

Sempre a metà degli anni ’80 De Benedetti tenta l’opa sulla Société Générale du Belgique dei Lippens, mossa che lo proietta definitivamente all’attenzione dei mass-media, tra i figli degli emigranti italiani già ultima ruota del carro in Belgio che dicono di voler fare collette per aiutare la rivincita di quel loro connazionale, e le battute di un Beppe Grillo ancora non trasfigurato in profeta dell’antipolitica: “ma guarda un po’, quello esce di casa e si compra il Belgio. Ve l’immaginate? ‘Ciao cara, esco un attimo di casa che vado a comprare il Belgio’. “Bravo. Già che ci sei, mi passi anche dal fornaio e mi prendi un chilo di sfilatini?”. Ma Gianni Agnelli gli si mette invece di traverso, così come gli ha fatto Berlusconi con Sme. Lo aiutano Banque Lazard e Etienne D’Avignon, che poi diventerà consigliere d’amministrazione della Fiat. Scrive Marco Ferrante in Casa Agnelli (Mondadori, 2007): “Non avrebbe sopportato che De Benedetti vincesse in Europa. ‘Alla fine mi disse: sono contento che lei non ce l’abbia fatta, veramente usò un’espressione molto più colorita, e io gli dissi: avvocato, la ringrazio per il contributo”.

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Segue l’altro grande scontro tra Berlusconi e De Benedetti del 1988-90, quando i due si danno battaglia per la Mondadori. In L’Italia di Berlusconi (Rizzoli, 1995) Montanelli e Cervi descrivono il grande duello tra “due uomini antitetici per i casi della vita ma anche per formazione, per indole, per comportamento. L’ingegner De Benedetti era tanto riservato e freddo quanto Berlusconi era estroverso e intemperante: un finanziere, appassionato di manovre borsistiche, giocatore tenace ma non sempre vincente sulla immensa scacchiera delle transazioni internazionali, stratega controverso delle guerre per accaparrarsi maggioranze e minoranze. Queste guerre sono combattute di solito da coalizioni, le armate di cui ogni alleato dispone si chiamano pacchetti di azioni”.

Il Pci e il partito dei moralizzatori di Scalfari tifano per De Benedetti, nel timore che la vittoria di Berlusconi porti sotto il controllo di Craxi le tre testate che sono la loro tradizionale artiglieria: il quotidiano Repubblica e i settimanali L’Espresso e Panorama. I moderati della Dc e Craxi cercano invece di sostenere Craxi. Alla fine, la soluzione salomonica la trova Giuseppe Ciarrapico: re delle acque minerali, e mediatore con un curioso pedigree addirittura di destra neo-fascista. De Benedetti dunque conserva il gruppo Repubblica-Espresso; Berlusconi resta con la Mondadori, Panorama e Epoca (che ben presto peraltro dovrà chiudere). Un pari e patta che però fa cambiare di campo una testata storica del partito moralista come Panorama, e lancia definitivamente a sinistra l’allarme sul Cav. Infatti, a Tangentopoli iniziata De Benedetti cerca di accreditarsi come l’imprenditore “pulito” e “favorevole al nuovo”, tant’è che quando nel 1993 Berlusconi annuncia clamorosamente che al ballottaggio per il sindaco di Roma voterebbe Gianfranco Fini lui subito fa sapere che invece sceglierebbe Francesco Rutelli. Il che non gli impedisce peraltro di finire per un po’ in carcere, per effetto di Tangentopoli.

Gomez e Travaglio in Le Mille Balle Blu nel commentare un’intervista a Radio anch’io del 30 novembre 1999 in cui Berlusconi afferma che “la Repubblica ha barattato l’impunità del suo editore offrendosi a questo partito dei giudici giacobini come la gazzetta giustizialista che sostiene sempre le loro posizioni” ricordano: “querelato dal gruppo Caracciolo per quella diffamazione, Berlusconi si salverà dal processo grazie all’insindacabilità parlamentare. Per la cronaca, De Benedetti è stato arrestato nel 1993. Berlusconi mai”. Dimostrazione del fatto che non ci sono favoritismi o che de Benedetti ne ha fatte di peggio? Gomez e Travaglio si proclamano orgogliosi allievi di Montanelli, ma Montanelli con Cervi in L’Italia degli anni di fango (Rizzoli, 1993) usa ben altri toni: “degno – o piuttosto indegno – di un posto di riguardo in questa sceneggiata”, quella degli imprenditori corrotti che si proclamavano onesti, “Carlo De Benedetti che s’era proclamato ‘diverso’ dagli altri imprenditori (così come il Pci e il Pds s’erano proclamati diversi dagli altri partiti) e che dai giornali a lui soggetti, l’Espresso e la Repubblica, era stato indicato come modello d’uomo d’affari immune dagli spasimi d’aggancio politico e dalle tentazioni tangentizie cui gli altri esponenti della razza padrona – per usare un termine caro al più autorevole tra i suoi giornalisti Eugenio Scalfari - erano soggetti”. È vero che al momento di scrivere queste righe Indro non aveva ancora litigato con il Cav… Quanto a Scalfari, scriverà del suo turbamento, vedendo infranti i “profondi e comuni convincimenti morali” che lo univano all’editore, al punto da porsi l’interrogativo il lungo sodalizio se non dovesse considerarsi concluso. Invece, continuerà.

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A questo punto comincia però ad andare male anche Olivetti. E De Benedetti la lascia infatti nel 1996, pur rimanendone presidente onorario fino al 1999, poco dopo aver fondato la Omnitel in seguito alla concessione di telefonia cellulare alternativa a Tim ottenuta dal governo Ciampi, battendo la concorrenza di un consorzio con Fiat e Fininvest e dell’americana Pactel. Al vertice Olivetti verrà proiettato il ragioniere Colaninno, che poi darà la scalata al “nocciolino” Agnelli della Telecom, ribadendo ancora una volta il principio della rotta di collisione tendenziale tra ciò che è targato De Benedetti e ciò che è targato Agnelli o Berlusconi. È tanto più sorprendente, dunque, quando nel 2005 riceve da Silvio Berlusconi un consistente contributo per un fondo finanziario comune destinato al recupero delle imprese in difficoltà. Ne segue una tempesta di reazioni e insinuazioni tali, che è costretto a declinare l’offerta. Sarà proprio in una lettera a Repubblica che spiegherà le ragioni di quell’intesa e poi della rinuncia, condendola con un richiamo alla comunanza di valori e ideali verso il “partito Repubblica”: “Cara ‘Repubblica’, cari lettori, cari giornalisti e collaboratori del Gruppo Espresso, caro Eugenio, caro Ezio, in questi giorni mi sono reso conto che si attribuisce alla mia persona una grande responsabilità sulla scena italiana, sia come individuo, sia come azionista dio maggioranza del Gruppo Espresso-Repubblica, ai cui giornalisti ho sempre garantito la massima liberà d’espressione. È certamente una comunanza di idee e di ricordi che ci ha fatto incontrare tantissimi anni fa (Eugenio, ricordi i primi incontri con te e Carlo Caracciolo agli inizi degli anni Settanta?) e ci ha unito attraverso tante battaglie. La passione civile e politica che mi anima dagli anni lontanissimi del Politecnico di Torino, ha portato oggi alla mia identificazione con il Gruppo Espresso, con le persone che lo hanno diretto, lo dirigono, vi lavorano, con i suoi lettori”.

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Ma comunque si è stabilito con Berlusconi un nuovo clima di possibile intesa che si ripercuote probabilmente da un lato nella nuova linea possibilista del Partito Democratico. Dall’altro, nella comparsa dello stesso De Benedetti in quella specie di lista nera pubblicata da Barbacetto, Gomez e Travaglio in appendice al loro Mani Sporche. 2001-2007. Cosi Destra e Sinistra si sono mangiati la II Repubblica (Chiarelettere, 2007): “De Benedetti Carlo: uscito in parte per assoluzione in parte per prescrizione dal processo romano sugli appalti alle Poste (corruzione), ha chiuso con due oblazioni da 50 milioni di lire ciascuna altrettanti processi per le manovre in Borsa sui titoli Olivetti (insider trading) e per i bilanci del gruppo di Ivrea (false comunicazioni sociali). Quest’ultima sentenza è stata poi revocata dopo la riforma del falso in bilancio del 2002”. Quanto a Scalfari, nel rispondere alla lettera di De Benedetti sarà molto affettuoso nella forma: “Caro Carlo, caro amico nostro, la lettera che ci hai inviato ti rende piena giustizia e rafforza in noi affetto e fiducia”. Ma, proprio per questo, forse ancora più duro nella sostanza. “La compresenza di due ormai storici avversari che avevano ed hanno visioni del tutto diverse sul bene comune, i modi e i comportamenti adeguati a realizzarlo e gestirlo, poteva suscitare fraintendimenti, strumentalizzazioni interessate e anche un legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale. Forse Carlo de Benedetti non aveva valutato a fondo l’ampiezza di tale disagio, forte della sua buona fede e del legame ideale che ha sempre intrattenuto con chi l’ha diretto e lo dirige”.

A quest’epoca risale anche una specie di campagna di Vittorio Feltri su Libero, per lanciare De Benedetti come leader del Partito Democratico. Infine, lo scorso gennaio De Benedetti annuncia il prossimo ritiro dalla guida del suo impero industriale. “Una carriera di alto profilo e talora controversa” scrive il Financial Times. “Raro contrappeso alla crescente influenza di Berlusconi sui media e sulla politica italiani”, è l’opinione del Wall Street Journal. Entrambi i giornali però avvertono: anche in pensione De Benedetti si riserva il potere di nominare i direttori di Repubblica e Espresso, dunque “continuerà a influenzare la vita pubblica italiana da una posizione privilegiata”. E infatti, dalla vicenda “Papi” in poi lo scontro tra i due eterni duellanti è tornato al calor bianco. Fino all’ultima, clamorosa svolta.