“Questa della D’Addario è la storia vera che si trovò a Palazzo quella sera...e il premier che la vide così bella, sul letto di Putin la mise a pecorella”. Questa canzoncina, divertente, parafrasata dalla nota Marinella di Fabrizio De Andrè è andata in onda su Canale 5 in prima serata per bocca del comico Checco Zalone. Dite ancora che Berlusconi non tutela la libertà di satira e di stampa? Il problema vero di una sinistra che manifesta perché Berlusconi comprimerebbe la libertà di espressione con un paio di citazioni civili e una querela penale, che oltretutto difficilmente saranno vinte in giudizio contro il potentissimo gruppo editoriale che fa capo all’ingegner Carlo De Benedetti (che è il “coccolo” di tutte le procure anti Cav d’Italia) sta tutto qui: come fare digerire queste balle, queste mistificazioni, che poi vengono contraddette ogni giorno che Dio manda in terra? Magari da un comico di casa Mediaset che con uno sketch prende per i fondelli il Cav molto più pesantemente che le dieci fatidiche domande di D’Avanzo. Che sembrano fra l’altro il parto di uno psicanalista di provincia istruito alle stesse scuole montessoriane dove la ex first lady Veronica ha fatto erudire i suoi pargoli. Che sembrano temere per la propria quota ereditaria più di quanto lo stesso Scalfari tema un giorno di venire mandato in pensione dalla attuale proprietà del giornale che lui ha fondato. D’altronde per quelli del gruppo Caracciolo-De Benedetti è difficile criticare Berlusconi nel merito perché sarebbe un autogol: questo presunto Frankenstein, se veramente esiste, come ricorda spesso Pannella nelle soavi conversazioni domenicali con il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin (e da qualche settimana allargate a intellettuali di sinistra in studio per ravvivare l’ambiente), è sfuggito dal loro laboratorio. Un giornale partito come “Repubblica”, che ha fatto dell’endorsement di De Mita il cardine della propria visione del mondo dal 1981 al 1989, e questo solo per dispetto a Craxi, è veramente titolato per parlare di libertà di stampa?
Cronisti noti per la loro onestà intellettuale come Daniele Mastrogiacomo, se ci parli in privato, ti dicono che loro, cioè quelli che ci lavorano quasi dalla nascita, considerano “Repubblica” come “un giornale leggendario degli intrighi di palazzo”. E danno per scontato che gli altri lo percepiscano come tale.
D’altronde un quotidiano che ebbe il proprio vero “start up”, anzi il successo, dalla infame campagna per la “fermezza” durante il caso Moro, una fermezza omicida a uso di chi voleva che quel signore non tornasse in Parlamento per dire “di che lacrime grondava e di che sangue” lo stato catto-comunista che Scalfari e soci ci stavano preparando, non è davvero quello più adatto per farci la predica. Un giornale che tentò la stessa operazione con il giudice D’Urso tre anni dopo e che poi, nello scandalo della ricostruzione camorristica e della Dc di sinistra dell’epoca (De Mita e Mastella i padrini riconosciuti insieme ai Gava e ai Cirillo del Grande Centro) dopo il terremoto dell’Irpinia, fu assai timido a denunciare le ruberie della Dc, che credibilità può avere oggi nel guidare questa ridicola crociata? Non parliamo poi del giustizialismo che investì Enzo Tortora, delle campagne contro Scascia quando parlò del professionismo dell’Antimafia alla Leoluca Orlando, della campagna contro il giudice Corrado Carnevale, dell’endorsement alla parte più politicizzata dell’inchiesta “mani pulite”. Trentatrè anni di “Repubblica”,dalla fondazione a oggi, hanno messo in croce tutta la nostra vita pubblica e privata per perseguire i miraggi politici di Scalfari e di De Benedetti. Da De Mita a Franceschini passando per Occhetto. Magari si potrà dire che il loro fallimento ha aperto la strada, come reazione uguale e contraria, all’Italia delle tanto deprecate veline di Berlusconi. E’ il risultato del “riflusso”, e dura ormai dagli anni ’80. Proprio da quando gli italiani hanno scoperto che “l’uomo serio e austero” proposto come modello da “Repubblica” era un bluff. Ora l’ultima carta, paradossale, si gioca nel parlare di mancanza di libertà di stampa nelle tv di un uomo che è quasi stato ucciso dalla propria stessa auto ironia e dalle proprie battute. A cui sembra non potere rinunciare neanche se stesse aggrappato con un solo braccio a una tenue fune che lo tenesse in equilibrio fuori dalla finestra di un grattacielo di 180 metri. Alla fine gli italiani, tra la seriosità in malafede di Scalfari e la “gnocca” berlusconiana hanno scelto quest’ultima. Come dar loro torto? (l'Opinione)
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