venerdì 4 dicembre 2009

Il direttore Feltri su Dino Boffo. Le parole di Bagnasco. Andrea Tornielli

Sul Giornale di oggi, in prima pagina, è pubblicata la risposta del direttore Vittorio Feltri a una lettrice che gli chiede del caso Boffo. Feltri scrive: «Non mi sarei occupato di Dino Boffo, giornalista prestigioso e apprezzato, se non mi fosse stata consegnata da un informatore attendibile e direi insospettabile, la fotocopia del casellario giudiziario che recava la condanna del direttore». Insieme «c’era un secondo documento (una nota) che riassumeva le motivazioni della condanna». Feltri precisa che «la ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali». «Da quelle carte, Dino Boffo non risulta implicato in vicende omosessuali - prosegue Feltri -, tantomeno si parla di omosessuale attenzionato. Questa è la verità. Oggi Boffo sarebbe ancora al vertice di Avvenire. Inoltre Boffo ha saputo aspettare, nonostante tutto quello che è stato detto e scritto, tenendo un atteggiamento sobrio e dignitoso che non può che suscitare ammirazione». Questo è ciò che scrive il direttore del Giornale.Sempre oggi è intervenuto sui temi dell’etica dell’informazione il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, nel messaggio da lui inviato al convegno dell’Ucsi in corso a Roma: «Il nostro Paese di fronte alle grandi questioni che lo interrogano ha bisogno di un linguaggio serio e sereno, di cultura del rispetto, di passione per il bene comune». (il Giornale.it)

14 commenti:

Acchiappabufale ha detto...

"Repubblica" e la bufala su Forza Italia

Dopo aver provato a dimostrare che il patrimonio di Silvio Berlusconi s’è formato, per un buon 20 per cento, con i quattrini della mafia, la Repubblica ha aperto un nuovo fronte: quello della «vera» nascita di Forza Italia, che si vuole a tutti i costi retrodatare al 1993, se non addirittura al 1992, per farla coincidere con l’anno «esplosivo» delle stragi «in Continente», e prima ancora con le bombe di Capaci e via d’Amelio: «Forza Italia nasce nel 1993 da un’idea covata fin dal 1992. Non c’è dubbio - scrive nell’incipit il quotidiano di Ezio Mauro - che già nell’aprile del 1993, quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro a Roma (14 maggio) e via dei Georgofili, è maturata la volontà di Berlusconi di mettersi alla testa di un nuovo partito». Ma Repubblica azzarda di più: «In luglio, in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano (27 luglio); San Giorgio al Velabro e San Giorgio in Laterano, Roma (28 luglio) si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno». Fonti di prova? Libri. Come nel caso del testo di Paolo Madron («Le gesta del Cavaliere») citato a sproposito da Repubblica - così sostiene l’autore - nei precedenti articoli sulle nebbie misteriose di Fininvest. Eppoi un interrogatorio, quello del 1997 a Palermo di Paolo Cartotto, «consigliere politico di Berlusconi e Dell’Utri», dove si faceva cenno a una «intenzione» di Silvio Berlusconi di entrare in politica già a maggio-giugno del 92, ovvero nei giorni della bomba a Falcone, immediatamente prima dell’altro attentato a Borsellino (luglio ’92). Seguendo la contorta ricostruzione di Repubblica, coi cadaveri dei due magistrati ancora caldi, l’avvoltoio Berlusconi accelera l’entrata in politica. Anche se dall’ottobre ’92 all’aprile ’93, non sapeva ancora bene come diavolo procedere: «Ad aprile Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si doveva fare». Voleva rompere gli indugi, capire se c’era spazio, possibilità di successo. Dell’Utri premeva, Confalonieri frenava. Ed è qui, in questa impasse d’aprile, che per Repubblica nasce il soggetto criminale «Forza Italia» capace, in meno di un mese, di avviare una strategia della tensione culminata con l’organizzazione dell’attentato a Maurizio Costanzo (14 maggio) e agli Uffizi (27 maggio) insieme ai picciotti corleonesi. Un ragionamento folle. Che oggi viene in qualche modo perseguito dai Pm di Firenze (via Spatuzza) per le stragi del ’93 ma che è stato bruscamente cassato per quelle del 1992 con l’archiviazione di Caltanissetta nel procedimento sui «mandanti esterni» incentrato anche sulle dichiarazioni di questo Cartotto. Un tipo che era risentito non poco con il Cavaliere.

Acchiappabufale ha detto...

«Uno che - scrive il gip Giovambattista Tona a pagina 58 del decreto di archiviazione - non ha fatto mistero delle sue ragioni di malumore nei confronti di Dell’Utri e Berlusconi per la sua esclusione, nonostante le precedenti promesse, prima da alcuni delicati incarichi e poi dalle liste elettorali del nuovo movimento». E quasi a mettere le mani avanti, «ha sostenuto di non essere stato condizionato da motivi di astio nel riferire quanto a sua conoscenza sulla genesi del movimento Forza Italia». Proprio per chiarire definitivamente l’arcano sull’origine della nascita di Forza Italia, i magistrati nisseni prendono a verbale l’ex presidente Francesco Cossiga, vittima, nel periodo antecedente le stragi Falcone e Borsellino, di un vergognoso procedimento di impeachment voluto dalla sinistra: «La decisione di scendere in politica di Berlusconi - dice Cossiga - per quanto mi consta va collocata in un periodo di tempo di circa due-tre mesi prima delle elezioni del ’94. Lo posso dire con assoluta certezza perché ebbi parte nello sviluppo dei rapporti tra Berlusconi e il leader del Ppi (...). I collaboratori aziendali di Berlusconi erano scettici dinanzi alla sua iniziativa di assumersi una responsabilità politica diretta». Ragionando come ragiona Repubblica, lo scetticismo forse era dovuto alla mancanza di conoscenza dell’«esplosiva» campagna elettorale che Cosa nostra aveva organizzato per il Cavaliere ben sapendo che Forza Italia, nata a giugno ’93, avrebbe stravinto a mani basse ad aprile ’94.

di Gian Marco Chiocci

Acchiappabufale ha detto...

Berlusconi, due patacche di Repubblica
Il quotidiano per inventare soci occulti si aggrappa a una perizia del 97 e a un libro inchiesta.Peccato che...

Il quotidiano La Repubblica non si dà pace. Incassato come se nulla fosse il fiasco delle dieci domande sulle abitudini personali e sessuali del premier, da qualche giorno è passata a domandare a mafiosi e giudici di parlare e indagare sulle origini della fortuna economica del Cavaliere.
Così come accadde per le escort, anche in questo caso il giornale anticipa le risposte; c'è del marcio, del losco, i denari di Berlusconi sono sicuramente di provenienza mafiosa. Soldi sporchi che però non fanno schifo a Carlo De Benedetti, editore di La Repubblica, che ne vuole una bella fetta. Precisamente 750 milioni (al cambio con la vecchia lira fanno 1.500 miliardi) e domani il tribunale civile di Milano deciderà se ne ha diritto o no. Sono quelli che l'Ingegnere ha chiesto a Fininvest come risarcimento del lodo Mondadori, secondo lui truccato. Se le accuse dei suoi cronisti fossero vere, De Benedetti, in caso di vittoria, si macchierebbe di riciclaggio e trarrebbe beneficio da una attività mafiosa. La cosa lo imbarazzerebbe? Neppure per sogno. Quando si tratta di incassare a sinistra non si fanno problemi. Anzi.

De Benedetti in realtà può stare tranquillo. Non sappiamo se otterrà il malloppo, ma fortunatamente per lui il suo giornale scrive un mucchio di panzane. I soldi della Fininvest sono puliti. Chi lo dice? I due "testimoni" che La Repubblica sta usando in questi giorni per sostenere la sua tesi. Il primo è un consulente finanziario della Procura di Palermo, Francesco Giuffrida, che nel 1997 studiò per conto del pm Ingroia (lo stesso che ancora oggi sta dando la caccia a Berlusconi) l'origine dei capitali del Cavaliere, giungendo alla conclusione che una parte erano di origine sospetta e quindi mafiosa. Tutto vero. Solo che La Repubblica nasconde un piccolo dettaglio. Nel luglio del 2007, a conclusione di una lunga vertenza, Francesco Giuffrida ammise di essersi sbagliato e di grosso, e che alla luce di ulteriori accertamenti era da escludere nella maniera più assoluta "l'apporto di capitali di provenienza esterna al gruppo Fininvest". Chiese scusa, transò (testo integrale a pagina 3) e si ritirò a vita privata.

Il secondo testimone è un giornalista economico di primo piano, Paolo Madron, oggi a ilSole24Ore. Nel 1994 scrisse un libro, le gesta del Cavaliere, dove ricostruiva le origini dell'impero berlusconiano. Secondo La Repubblica in quelle pagine c'è la prova del misfatto. L'interessato cade dalle nuvole (l'intervista a pagina 4): "Nel mio libro - dice - non c'è nessuna traccia di capitale malavitoso, basta leggerlo". Già, bastava leggere le carte invece che piegarle ai propri interessi.

Alessandro Sallusti

Acchiappabufale ha detto...

«La mia consulenza ai Pm? Parziale e non completa»
testo integrale dell'atto di transazione tra Giuffrida e la Fininvest

ATTO DI TRANSAZIONE TRA

La FININVEST S.p.A, (C.F.:...) con sede in Roma, Largo Nazareno n. 8, in persona della procuratrice speciale avvocato Maria Enrica Mascherpa, in forza di procura rilasciata dall'Amministratore Delegato e legale rappresentante dott. Pasquale Cannatelli in data 26 luglio 2007, autenticata con atto del Notaio Arrigo Roveda di Milano, rep. 36992, rappresentata dagli avv.ti prof. Francesco Vassalli e Fabio Roscioli, con studio in Roma, Via Eleonora Duse, 35
di seguito anche denominata Fininvest o Società
E
FRANCESCO PAOLO GIUFFRIDA (C.F.:...), nato a Montevago (AG) in data 16 maggio 1954, residente in..., Via..., rappresentato dagli avv.ti Maria Taormina Crescimanno e Antonio Coppola, con studio in Palermo, Via Messina, 7/d;
di seguito anche denominato dott. Giuffrida o Consulente
congiuntamente anche denominati le Parti

PREMESSA
A) In considerazione delle dichiarazioni di taluni pentiti di mafia, secondo i quali la Fininvest avrebbe beneficiato dell'apporto di capitali di provenienza mafiosa, con verbale di consulenza tecnica e di conferimento dell'incarico in data 5 dicembre 1997, i PP.MM. della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo - Direzione Distrettuale Antimafia, dott.ri Domenico Gozzo, Antonio Ingroia, Mauro Terranova e Umberto De Giglio, nell'ambito del procedimento 6031/94 R.G.N.R., affidavano al dott. Giuffrida l'incarico di verificare la legittimità degli apporti finanziari intervenuti alle origini della Fininvest da parte di soggetti terzi.
La consulenza, intitolata «1ª Nota Informativa sui flussi finanziari delle società denominate Holding Italiana 1-22» (di seguito anche denominata 1ª Nota Informativa), veniva depositata in data 21 aprile 1999 nell'ambito del procedimento 6031/94 R.G.N.R. Di lì a breve il procedimento veniva definitivamente archiviato dal GIP di Palermo, dott. Gioacchino Scaduto, in data 1 dicembre 1999.
B) In data 25 giugno 2000, l'elaborato peritale del dott. Giuffrida veniva acquisito al fascicolo dei citati PP.MM. dott.ri Domenico Gozzo e Antonio Ingroia e, in data 7 maggio 2002, a quello del Tribunale nell'ambito del procedimento 843/97 R.G.Trib. nei confronti del dott. Marcello Dell'Utri + altri in cui era stato ipotizzato il riciclaggio come reato fine rispetto a quelli contestati nel capo di imputazione.
C) All'esito dell'acquisizione dell'elaborato del dott. Giuffrida al predetto procedimento e, successivamente, in occasione della deposizione resa dal dott. Giuffrida nella fase dibattimentale del giudizio, gli organi di informazione, nazionali ed esteri, davano ampio risalto alle risultanze della consulenza e, in particolare, al fatto che per otto delle operazioni esaminate il dott. Giuffrida non era riuscito ad identificare l'origine della provvista. Il che aveva generato nell'opinione pubblica la convinzione che la Società potesse effettivamente aver goduto dell'apporto di capitali di provenienza mafiosa.
D) La Fininvest, pur assolutamente certa dell'evidenza della provenienza lecita delle risorse conferite originariamente al proprio capitale, e quindi certa dell'erroneità delle conclusioni cui era pervenuto il Consulente, aveva preferito tuttavia non agire immediatamente a tutela dei propri diritti, ritenendo che una simile iniziativa avrebbe potuto turbare il regolare andamento del processo in cui il dott. Giuffrida rivestiva il ruolo di consulente del P.M.

Acchiappabufale ha detto...

E) Solo a seguito della definizione in primo grado del giudizio penale di cui sopra, la Fininvest, con atto notificato in data 28 febbraio 2006, citava il dott. Giuffrida dinanzi al Tribunale Ordinario di Palermo, per sentir accertare e dichiarare la sua grave negligenza nell'espletamento della 1ª Nota Informativa e nella ripetizione delle relative conclusioni nella fase dibattimentale del processo di primo grado tenutosi a Palermo nei confronti del dott. Marcello Dell'Utri + altri (843/97 R.G.Trib.), chiedendone conseguentemente la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali, da liquidarsi equitativamente da parte del Giudice.
La Società sottoponeva alla cognizione del Tribunale soltanto l'esame di quelle otto operazioni che il Consulente non era stato in grado di ricostruire integralmente o per le quali egli aveva concluso in senso dubitativo, ingenerando così la convinzione che vi potessero esser stati afflussi di denaro di provenienza illecita nelle casse della Fininvest.
Si tratta, più precisamente, delle operazioni in data: 26 marzo 1984 per 7.172 mln. di lire; 16 maggio 1984 per 2.297 mln. di lire; 29 giugno 1979, per 6.000 mln di lire; 31 dicembre 1984 per 850 mln. di lire, 24, 29, 30, 31 dicembre 1980 per 19.224 mln. di lire; 7 dicembre 1978 per 17.980 mln. di lire; 19 dicembre 1979 per 27.680 mln. di lire; 4 ottobre 1979 per 11.000 mln. di lire e così per un totale di 93.933 mln. di lire.
Nell'atto di citazione veniva esposto che il dott. Giuffrida, adempiendo con la dovuta diligenza all'incarico affidatogli, avrebbe potuto ricostruire completamente ognuna di tali otto operazioni ed accertare che l'origine delle provviste era pacificamente riveniente da persone, fisiche e giuridiche, tutte immediatamente riferibili all'allora costituendo Gruppo Fininvest e, quindi, senza alcun afflusso di denaro dall'esterno.
F) Si costituiva nel giudizio dinanzi alla dott.sa Galazzi della III Sez. del Tribunale Ordinario di Palermo (R.G. n. 3261/06) il dott. Giuffrida, il quale, con propria comparsa di costituzione e risposta del 17 maggio 2006, adduceva di aver adempiuto l'incarico con professionalità e diligenza, precisando che la sua consulenza risultava parziale e non completa in quanto rappresentava solo una prima ipotesi di lavoro, che avrebbe poi potuto essere integrata e modificata a seguito di ulteriori approfondimenti tecnici e documentali.

Acchiappabufale ha detto...

Approfondimenti che, tuttavia, non vennero mai effettuati a causa dello scadere dei termini per le indagini preliminari e della successiva archiviazione del procedimento 6031/94 R.G.N.R.
Il dott. Giuffrida chiariva inoltre che la funzione di approfondimento tecnico che egli avrebbe dovuto svolgere era stata costantemente sottoposta allo specifico ed ineludibile coordinamento ed al diretto controllo dei PP.MM., così come parimenti era avvenuto anche per la scelta dei documenti da consultare e per la materiale acquisizione degli stessi.
G) All'esito del tentativo di conciliazione e in pendenza dei termini ex art. 184 c.p.c. concessi dal Giudice all'udienza del 30 maggio 2007, le Parti, al solo fine di addivenire ad una bonaria definizione della controversia tra loro insorta, pur mantenendo le rispettive posizioni di diritto fatte valere nel giudizio civile, hanno ora raggiunto un accordo transattivo che intendono formalizzare con il presente atto. Tutto ciò premesso
SI CONVIENE E SI STIPULA
QUANTO SEGUE
ART. 1
Le premesse formano parte integrante e sostanziale del presente atto.
ART. 2
Le Parti, al solo fine di definire bonariamente il giudizio civile di cui alle Premesse, reciprocamente dichiarano quanto segue:
- il dott. Giuffrida, all'esito di una prospettazione maggiormente organica delle operazioni poste oggi alla cognizione del Tribunale Ordinario di Palermo e specificate alla lett. E) della Premessa e della relativa documentazione già disponibile, riconosce i limiti delle conclusioni rassegnate nel proprio elaborato e delle dichiarazioni rese al dibattimento ed inoltre, che le predette operazioni oggetto del suo esame consulenziale erano tutte ricostruibili e tali da escludere l'apporto di capitali di provenienza esterna al Gruppo Fininvest;
- la Fininvest riconosce che i limiti nella consulenza del dott. Giuffrida non sono dipesi da sua negligenza ma da eventi estranei alla sua volontà - scadenza dei termini per le indagini preliminari e successiva archiviazione del procedimento 6031/94 R.G.N.R. - che lo hanno indotto a conclusioni parziali e non definitive.
ART. 3
Il dott. Giuffrida prende atto che la Fininvest potrà utilizzare pubblicamente la presente scrittura privata e divulgarne il contenuto; la Fininvest, da parte sua, si impegna ad utilizzare il predetto contenuto solo in forma integrale.
ART. 4
Le Parti, contestualmente alla sottoscrizione del presente Atto di Transazione, dichiarano di essere pienamente soddisfatte e di non avere null'altro a pretendere e richiedere in relazione alle condotte e/o ai fatti specificati negli scritti difensivi depositati nel giudizio civile di cui alla lettera E) della Premessa.
ART. 5
Il giudizio pendente avanti alla III Sezione del Tribunale Ordinario di Palermo - G.U. Dott.sa Galazzi - R.G. n. 3261/06, verrà pertanto abbandonato, a spese compensate, nelle forme all'uopo previste dal codice di procedura civile.
ART. 6
Le Parti si danno reciprocamente atto che il presente Atto di Transazione non ha natura di transazione generale e non comporta, da parte della Fininvest, rinunzia all'azione per eventuali ulteriori condotte lesive, diverse da quelle oggetto del giudizio civile di cui alla lettera E) della Premessa, che dovessero essere poste in essere dal dott. Giuffrida.
ART. 7
Sottoscrivono il presente atto tutti i Procuratori della Fininvest e del dott. Giuffrida, per espressa rinunzia al vincolo della solidarietà, ex art. 68 della L.P.
Le spese del giudizio, come anche quelle relative al presente atto, si intendono integralmente compensate tra le Parti.
Roma-Palermo, 27 luglio 2007
L.C.S.
Fininvest S.p.A.
avv. Maria Enrica Mascherpa
prof avv. Francesco Vassalli
avv. Fabio Roscioli
dott. Francesco Giuffrida
avv. Maria Taormina Crescimanno
avv. Antonio Coppola

Acchiappabufale ha detto...

La prova che smonta le accuse a Fininvest

Dieci anni dopo, siamo punto e daccapo. Le menzogne passate in giudicato sul presunto patrimonio mafioso del premier, son tornate d'attualità. Spacciate, anche e non solo da Repubblica, come spunto per nuove indagini sui link «finanziari» fra Cosa nostra e il Cavaliere. Il documento che pubblichiamo sotto serve a ricordare come stanno le cose a chi ha ripreso a fantasticare sui flussi sporchi di denaro delle holding Fininvest sulla base di quanto inizialmente riportato in una perizia dal consulente del pool di Palermo, Francesco Giuffrida, poi dallo stesso drasticamente ridimensionata nella «transazione» del 26 luglio 2007 con il gruppo di Segrate che l'aveva citato per danni.

L'atto sottoscritto da quest'ex consulente della Banca d'Italia chiamato a ricostruire la genesi della Fininvest al processo Dell'Utri, non ammette repliche: nessun capitale mafioso è transitato nelle casse del Biscione. Non esiste una carenza di trasparenza sulla genesi del «tesoro». Nessun «peccato originale» è riscontrato. Punto. Per tardiva ammissione dell'interessato, la perizia che tanto servì ad alimentare gigantesche campagne mediatiche, fu carente e «parziale» anche perché non vennero approfondite «otto operazioni finanziarie». L'intero lavoro («continuamente sottoposto allo specifico e ineludibile coordinamento e controllo dei pm») andava sviluppato e soprattutto completato, ma ciò non fu possibile poiché il fascicolo originario finì in archivio. E se si decise di «acquisire determinati atti» a discapito di altri «fu per decisione dei magistrati». Non sua. Stando alla procura di Palermo le investigazioni contabili si rendono necessarie nel dicembre del 1997 quando alcuni pentiti cominciano a parlare di «consistenti apporti economici di provenienza mafiosa» confluiti nella Fininvest. I pm si affidano a Giuffrida per scandagliare il patrimonio di Silvio Berlusconi. Testuale: «Per verificare la legittimità degli apporti finanziari intervenuti alle origini della Fininvest da parte di soggetti terzi».

Il consulente impiega un anno e mezzo per ultimare gli accertamenti. Ad aprile '99 deposita tutto, e tutto il gip Scaduti fa finire in archivio per mancanza di prove. Lo stesso malloppo di carte, però, tempo sei mesi ce lo ritroviamo al processo Dell'Utri. Quando Giuffrida è convocato in aula a illustrare la relazione, scoppia il finimondo per quelle «otto operazioni» di cui, ammette, non si è riusciti a identificare l'origine della provvista. Tanto basta a far ipotizzare che sotto c'è la mafia dei colletti bianchi. L'azienda pazienta fino al 2006, anno della definizione del primo grado di giudizio dove Giuffrida forniva le sue prestazione contabili ai pm del processo Dell'Utri. Dopodiché sferra l'offensiva. Cita Giuffrida per danni anche perché per «quelle otto operazioni», spiega, poteva benissimo «verificare che i soldi erano pacificamente rivenienti da persone, fisiche o giuridiche, tutte immediatamente riferibili all'allora costituendo gruppo Fininvest e quindi senza alcun afflusso di denaro dall'esterno».Spiazzato dalla citazione civile Giuffrida spiega che «quella» consulenza era incompleta poiché costituiva una bozza ancora tutta da integrare, «era solo una prima ipotesi di lavoro», quando così non era. Perché se altri accertamenti non vennero disposti ciò era dovuto alla sopravvenuta archiviazione del procedimento per il quale era stata inizialmente redatta. Bene. Ieri Repubblica, riprendendo la sentenza di primo grado del processo Dell'Utri, rilanciava fiera: «La consulenza dell'accusa, nonostante la parziale documentazione messa a disposizione, evidenzia la scarsa trasparenza o l'anomalia di molte operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984».

Gian Marco Chiocci

Acchiappabufale ha detto...

Quel libro manipolato da Mauro & c. L'autore: mai scritto di soldi mafiosi

Quando Paolo Madron ha visto il suo libro, «Le gesta del Cavaliere», ripescato dopo 15 anni e citato a mo' di Bibbia da Repubblica per insinuare ombre sui capitali alla base dell'impero Fininvest, si è un po' indispettito. «Mi fa rabbia - confessa - che giusto ora che tanti sarebbero curiosi di leggerlo il libro non si trovi più, vuol dire che chiederò a Mondadori di ristamparlo. Comunque, per quel testo, non ho ricevuto alcuna querela. Perché su questo ormai famoso 20 per cento di Fininvest cui non si conosce la provenienza, in quel libro, non c'è nessuna insinuazione, e meno che mai si parla di ingresso di capitali malavitosi. Dalle mie indagini, fatte all'epoca, non è emerso nulla del genere».

Madron, giornalista economico - firma del Sole 24Ore, è stato anche direttore di Panorama economy - è quasi divertito dal clamore che a distanza di tanti anni sta circondando la sua creatura. Le gesta del Cavaliere (Sperling&Kupfer). Già, perché il libro, pubblicato nel 1994, altro non era all'epoca che una presentazione dell'imprenditore Silvio Berlusconi che stava per scendere in politica. Non a caso il libro si chiude ad Arcore con il futuro premier che annuncia la fondazione del nuovo partito.

Anche il motivo per cui nel libro inchiesta sia dato largo spazio alle origini del patrimonio del Cavaliere non ha nulla a che vedere con eventuali sospetti dell'ingresso in Fininvest di fondi illeciti. Ed è presto detto. «A quell'epoca - ricorda oggi Madron - Fininvest si stava organizzando per collocarsi in borsa, il tema era di estrema attualità». E infatti nel libro viene ricordato anche un altro episodio: la partecipazione da Minoli, a Mixer, di un Berlusconi furibondo per le ombre che si gettavano su Fininvest e che si diceva pronto a regalarla a chi fosse stato capace di provare che le azioni Fininvest non erano in mano sua. «L'approfondimento sui capitali - aggiunge Madron - era strettamente legato al dibattito di quei giorni, e in particolare al problema delle holding, a come fosse congegnato il controllo».

Il grande scoop del volume - che è poi quello cui si stanno aggrappando gli accusatori del Cavaliere per via mediatica dalle colonne di Repubblica - è l'intervista a Carlo Rasini, il patron dell'omonima banca in cui lavorava Luigi Berlusconi, il papà del premier, e da cui l'allora giovane imprenditore Silvio ebbe i finanziamenti necessari per far decollare il sogno di Milano2. «Fu uno scudo fiscale ante litteram», dice Madron oggi, ricordando anche il colpo di fortuna - l'amicizia, nata negli Stati Uniti, col nipote del conte Rasini, Michele - che gli permise di avere quel lungo colloquio. «Rasini - dice il giornalista - mi raccontò di avere convinto alcuni clienti della banca, famiglie lombarde che avevano portato i loro soldi in Svizzera a far tornare i loro capitali per investirli nel progetto di Silvio Berlusconi». Rasini, nell'intervista contenuta in Le gesta del Cavaliere, fa anche qualche nome di quei finanziatori: quello di Maurizio Andreani, rappresentante dell'Ici - Imperial chemical industries - rampollo di una famiglia che costruiva barche; e il conte Leonardo Bonzi, il proprietario dei terreni di Segrate che poi, venduti a Berlusconi, diventarono la sede di Milano2. Rasini dice anche che di quei fondi il Cavaliere restituì gran parte, l'80 per cento. E l'altro 20 per cento? «Per ragioni di riservatezza - afferma Madron - non volle rispondermi. All'epoca sentii altre persone che fecero varie ipotesi. Nessuno però parlò di capitali malavitosi». Nessuno. Tranne

di Mariateresa Conti

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Spatuzza: lapsus, errori, dimenticanze Tutti i buchi neri del killer pentito

Per dirla nel gergo aspro dei pentiti, quelle di Gaspare Spatuzza, detto ’u tignusu, sono tutte minchiate. Cominciamo dalla fine, dalla collaborazione a rate della bestia redenta che ha ammesso d’aver ammazzato 40 cristiani, partecipato a sei stragi, squagliato nell’acido donne e bambini. La nuova legge sui collaboratori di giustizia impone un tempo massimo di sei mesi per espiare tutti i peccati. Bene. Nell’aula del tribunale di Torino, Gaspare Spatuzza ammette d’aver iniziato a parlare (informalmente) con i magistrati fiorentini in più «colloqui investigativi» che le carte processuali cristallizzano sul finire degli anni Novanta. Poi di avere fatto altrettanto, più volte, anche col procuratore nazionale Piero Grasso. Di tutti questi «colloqui», trasmessi alle procure di Palermo e Caltanissetta, non c’è però traccia nei processo sulle stragi del ’92. Come se non bastasse, Spatuzza riferisce d’aver risposto a domande pure ai pm Milano (come anticipato ieri dal Giornale) e addirittura a quelli di Reggio Calabria: nessuno, nemmeno il presidente del processo Dell’Utri, ne sapeva niente. Quel che ci è dato di sapere, attraverso la deposizione di Spatuzza, è che ai pm di Firenze lui inizia a fare il nome di Silvio Berlusconi solo un anno dopo l’inizio della sua collaborazione, e cioè fuori tempo massimo. Giustifica il ritardo sostenendo che aveva paura del Cavaliere prossimo a prendere il potere.

Acchiappabufale ha detto...

Ieri s’è scoperto, che, zitto zitto, di Berlusconi aveva invece fatto cenno il 17 novembre 2008 a Caltanissetta, discutendo dei problemi che stavano a cuore ai Graviano e che dovette risolvere personalmente sconfinando in un quartiere off limits di un’altra famiglia mafiosa («fu quasi un colpo di Stato»). Problemi legati all’installazione di cartelloni pubblicitari nella zona di Porta Nuova dove, a detta di Spatuzza, comandava Mangano. Posto che a quei tempi Mangano ancora non esercitava il suo potere in quel quartiere perché il capomandamento era invece Cancemi, l’exploit di Spatuzza che punta a teorizzare inesistenti rapporti finanziari fra Cosa nostra e Berlusconi la pubblicità (che è roba locale, non nazionale), Mangano (che non c’era) e Dell’Utri, si ritorce contro il pentito. E così lui che non sa niente dei politici e della politica, dice di temere il ministro Alfano «perché era un soggetto che curava i circoli di Forza Italia in Sicilia». Lui che non sapeva chi diavolo fosse Berlusconi, lo teme più di Alfano perché «nel momento in cui inizio i primi colloqui con i magistrati me lo ritrovo come primo ministro», quando così non è visto che al tempo dei «primi colloqui» governava ancora Prodi. A Firenze, invece, le carte raccontano che Gaspare non parla mai di Silvio per un anno di seguito. Inizia a vuotare il sacco, formalmente, il primo luglio 2008. Viene sentito di nuovo il 17 luglio, poi il 28 luglio 2008, ancora il 10 settembre 2008, quindi il 14 settembre e il 17 dicembre dell’anno scorso. Mai un accenno a Silvio o a Dell’Utri. Dice sempre così: «Non conosco i politici, non capisco niente di politica». Oppure: «Non posso sapere, perché Graviamo non me lo disse, chi fosse il nostro interlocutore». Dopodiché, un bel giorno, in straordinaria coincidenza con l’ok ricevuto per il programma di protezione, «senza barattare niente con lo Stato» (nuova vita, nuova identità, niente carcere a vita, stipendio, lavoro, benefit vari) il criminale che nelle lettere al vescovo dell’Aquila si immedesima in San Paolo, viene folgorato sulla strada che porta a via Veneto dove insiste il bar Doney. Il locale dove il boss Giuseppe Graviano, parlando della strage allo stadio Olimpico (prevista per il 31 ottobre del 1993), gli avrebbe sussurrato che «tutto è chiuso bene coi politici, abbiamo ottenuto quello che cercavamo» spiegandogli, a lui che di politica non capiva niente, che i referenti istituzionali sarebbero stati Dell’Utri e Berlusconi.

Acchiappabufale ha detto...

Per la cronaca siamo a fine ’93, Forza Italia non è ancora nata. Riscontri diretti? Zero. I boss Giuseppe e Filippo Graviano, sentiti a verbale, e quindi messi a confronto con il loquace Spatuzza, smentiscono l’ex collega. Idem fa il boss Lo Nigro, quello che avrebbe accompagnato Spatuzza a Campofelice di Roccella dove Graviano avrebbe accennato ai big di Milano: «Ma che dici, Gaspare! Non ci siamo mai andati lì». Spatuzza però è talmente sicuro che lo ribadisce da dietro il paravento bianco: «L’incontro avvenne alla fine del ’94». Quando gli si fa notare che i Graviano sono stati arrestati a gennaio dello stesso anno, balbetta e si corregge: «no, no, fine ’93, è stato un lapsus». Seguendo i precetti della scuola del pentitismo d’accatto, Spatuzza fa impressione perché ripete, alla lettera, a memoria, i passaggi trascritti delle sue verbalizzazioni. Usa le stesse frasi, identiche le espressioni, virgole e virgolette incluse. E quando le domande escono dai binari previsti, sbanda. Gli chiedono di descrivere il bar Doney, e lui lo descrive com’è oggi e non com’era all’epoca. Al Giornale la proprietà del locale e il vecchio barman hanno confermato che allora vi era una sola porta, via Veneto angolo via Sicilia, e non due come riferisce Spatuzza. Dettagli? Sarà, ma sono fondamentali per riscontrare la veridicità di questo signore, perché è in questo bar che Graviano (che smentisce) dopo avergli parlato dell’attentato allo stadio Olimpico gli confessa che c’era di mezzo «il compaesano» (Dell’Utri) e pure Berlusconi. Poi, forse distratto, Spatuzza non raccoglie e non fa sua una domanda suggestiva del procuratore generale riguardo a un Bar Doney che c’è anche a Brancaccio. Spatuzza parla di «anomalie» nel comportamento di Giuseppe Graviano, e da ciò «deduce» che c’è sotto qualcosa di grosso. Perché se come gli dirà Filippo Graviano (che smentisce) «a questo punto se non arriva niente da dove deve arrivare», lui «intuisce» che Cosa nostra vuole regolare i conti con chi non ha mantenuto certi patti. La passerella si chiude con altri interrogativi sui rapporti economici fra Berlusconi e la mafia. «La Standa a Brancaccio», risponde Spatuzza. Ridono tutti. A cominciare dai poliziotti schierati, pagati per fargli da scudo e da scorta.

di Gian marco Chiocci

Acchiappabufale ha detto...

Il teste inciampa pure nei quesiti del pm

La star entra nell’aula, stipata di giornalisti, a passo spinto. Quasi sommerso dagli agenti che lo scortano. S’intravede il cappellino con visiera calcato sulla testa pelata, quella che gli ha fruttato il soprannome di ’u tignusu. «Innanzitutto buongiorno, intendo rispondere», dice una voce da dietro il paravento. L’udienza più attesa, quella che ha mandato in fibrillazione il mondo della politica, può cominciare. «Cosa nostra – precisa subito il pentito – è un’organizzazione terroristico-mafiosa. Dopo il ’92 ci siano spinti un po’ oltre, in un terreno che non ci appartiene». Pare l’antipasto di un’audizione memorabile. Non sarà così. Gaspare Spatuzza ripete diligentemente le tre o quattro frasi già messe in cornice dai giornali di tutto il mondo. Oltre, non si va. Nessuna approfondimento. Nessun retroscena. E men che meno un qualche guizzo personale, di prima mano, diretto. Lo Spatuzza politico è tutto nei frammenti delle conversazioni avute con Giuseppe Graviano. Diverso, naturalmente, è lo Spatuzza soldato, assassino, stragista, ma quello non interessa nell’aula del processo Dell’Utri, riaperto in extremis per ascoltare l’uomo d’onore di Brancaccio.
È il sostituto Procuratore generale Antonino Gatto a condurre la danza. Ma il rappresentante dell’accusa incespica sulle domande e sbriciola continuamente le risposte del pentito che a sua volta ripete meccanicamente le stesse frasi, come in un fumetto.
Per carità, confermare, conferma. Ma il tono, specie nel pomeriggio, è soporifero. Da siesta. Tutto ruota intorno all’incontro al bar Doney di Roma, pochi giorni prima dell’arresto del boss. Spatuzza va di fretta, tanto che lascia l’auto in doppia fila. Graviano, invece, non sa di essere arrivato al capolinea, anzi è convinto di aver vinto la sua battaglia. «Era euforico, come chi ha vinto al lotto o ha appena avuto un figlio». Cosa nostra ha piegato lo Stato, ha ottenuto quel che voleva, benefici per i carcerati e altri benefit, e allora il capo dei capi gli confida anche chi sono i referenti di quella trattativa con il lato oscuro delle istituzioni. «Graviano mi fece il nome di Berlusconi, quello del Canale 5 e del compaesano dell’Utri. Grazie alla serietà di queste persone ci avevano messo praticamente il Paese nelle mani».
Quel racconto senza se e senza ma sembra un meteorite caduto da chissà quale pianeta. Anche perché oltre la confidenza non c’è nulla. Solo deduzioni. Solo vaghi ragionamenti. Solo morti ammazzati di cui pure lui ha perso la contabilità: «Ho partecipato a sei o sette stragi».
L’avvocato Nino Mormino ironizza: «Altro che bomba atomica, Spatuzza è solo un petardo». Ci vorrebbe almeno un bacio, una fiction alla Andreotti. Ma nemmeno questa passa il convento dei pentiti. L’altro difensore, Alessandro Sammarco, invita il presidente della corte d’appello Claudio Dall’Acqua, ad ammonire «il teste, se così lo vogliamo chiamare, perché è un teste reticente». La muta dei legali prova ad azzannare Spatuzza, ma è un gioco che dura poco anche perché non ci sono riferimenti, riscontri, conti correnti, testimonianze di prima mano. Gatto manda più di una volta in confusione il teste, poi con tono dimesso introduce un tema enorme: i rapporti economici dei Graviano con la politica. E lui se la cava con una lezioncina di qualunquismo mafioso: «Berlusconi aveva aperto una Standa a Palermo, guardacaso a Brancaccio, e a Brancaccio comandano i Graviano». Insomma, non c’è nulla da spiegare e quando ci prova, Spatuzza viene fermato: «Lei – gli dice con tono sempre autorevole il presidente – non ci deve dare giudizi, ma deve raccontarci i fatti».

Acchiappabufale ha detto...

E allora Spatuzza consegna ai giudici il santino nato al 41 bis, fra un incontro col cappellano del carcere di Ascoli Piceno e una confessione nelle mani del vescovo Giuseppe Molinari: «Il mio pentimento è la conclusione di un bellissimo percorso spirituale. Mi sono trovato ad un bivio: scegliere fra Dio e Mammona»: Che, per i profani, sarebbe Cosa nostra. Commovente. Meglio dell’Innominato. Meglio scomodare i Graviano. Giuseppe e Filippo, sepolti sotto una catasta di ergastoli. Venerdì toccherà a loro: i giudici li interrogheranno. O almeno ci proveranno. In videoconferenza.

di Stefano Zurlo

Anonimo ha detto...
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