Riceviamo da Adriano Teso, e volentieri pubblichiamo.
Caro Prof. Boeri,
ho molto apprezzato le Sue parole sull’esigenza di fare quelle riforme economiche che da troppi anni vengono rimandate. Mi permetto di ricordare le principali: i 20 interventi strutturali per lo sviluppo dell’Economia.
Vorrei però ricordare anche alcuni elementi essenziali inerenti un Suo recente articolo pubblicato su Affari e Finanza de La Repubblica e intitolato “Una tassa sul privilegio”.
In astratto credo anch’io che sia ragionevole pensare a una maggiore tassazione delle rendite (ma in un mercato globalizzato, esistono? quali sono?), ma solo con una parallela diminuzione delle imposte sugli investimenti a rischio come la ricerca e il capitale delle aziende produttive. Non bisogna, inoltre, confondere gli investimenti in borsa, necessari per lo sviluppo industriale e ad alto rischio, con le rendite di titoli di Stato – ma al netto di inflazione rendono? E la concorrenza monetaria e di tassi a livello mondiale lo permettono?
Come sappiamo, la pressione fiscale italiana dichiarata dalle fonti ufficiali si riferisce a un PIL corretto, cioè un PIL che comprende anche una stima sul sommerso. Ma dato che le tasse non si pagano sull’evasione, la pressione fiscale reale, per i contribuenti onesti, è molto più alta di quella dichiarata e supera ampiamente il 50%.
L’elevata pressione fiscale è uno dei principali mali che stanno portando al declino la vecchia Europa e soprattutto l’Italia. Vantiamo il triste primato nelle economie occidentali e forse mondiali. Le tante imposte che paghiamo non sono altro che il risultato della necessità dello Stato di coprire una infinità di stipendi non produttivi e di sprechi. Dunque, se non si riduce il costo dello Stato, sarà ben difficile riformare seriamente il fisco. Al massimo si potrà procedere a una progressiva limatura della famigerata IRAP, che tassa il lavoro nelle aziende ed i loro costi, perfino di aziende in perdita!
Capisco che il povero Ministro Tremonti abbia difficoltà ad abbassare le tasse. Deve barcamenarsi fra cali produttivi del 20%, con relativa diminuzione del gettito, un aumento della spesa per gli ammortizzatori sociali, a cui si è sommato il terremoto, una crisi mondiale senza precedenti e l’eredità di un debito pubblico enorme, fatto dalla politica dei trent’anni precedenti il suo arrivo. E il futuro non è roseo: la spesa pubblica aumenta a ritmi di oltre il 10% all’anno, malgrado il forte calo degli interessi passivi. Sarà un disastro quando i tassi di interesse torneranno a livelli normali.
Ma se questo governo non imbocca con decisione la strada dello smagrimento della pubblica amministrazione (ad esempio, le province da abolire, la diminuzione del numero dei Parlamentari, l’abolizione dei tanti uffici e delle tante procedure inutili, la cessazione di trasferimenti alle amministrazioni locali sprecone) e del funzionamento della sussidiarietà e del mercato, non ci sarà alternativa al nostro definitivo declino.
E’ paradossale che, in questo contesto, ogni tanto rispunti demagogicamente l’aumento delle tasse per i “ricchi”. Suppongo, guadagnando più di 500.000 euro l’anno, di appartenere a tale categoria. Proviamo a fare due conti. Il mio reddito lo guadagno facendo impresa. La pressione fiscale reale sul reddito che produco, fra IRES, IRAP e spese non deducibili, è mediamente del 62%. Basta dare un’occhiata ai bilanci pubblicati. Poi devo incassare il dividendo, sul quale pago un ulteriore 18,6% e con quanto mi rimane compero beni sui quali pago il 20% di IVA. Ci aggiungiamo un 3 punti fra tasse automobilistiche, ICI e altre imposizioni comunali, bolli, tasse su benzina e assicurazioni? Fatta la somma, a scalare naturalmente, ne esce una pressione fiscale del 78%. Con un simile livello di tassazione, come fa un imprenditore a finanziare nuovi investimenti necessari allo sviluppo, quando i concorrenti esteri pagano quasi la metà? Naturalmente, questi conti valgono anche per le piccole imprese.
Le cose non vanno meglio per i dirigenti, che arrivano anche loro a un bel 72%. Infatti ricavano solamente un netto del 36% rispetto al costo che sopporta l’impresa. E i versamenti previdenziali non possono nemmeno considerarli un risparmio, visto che servono a pagare le pensioni di oggi. Infine, bisogna aggiungere IVA e tasse varie, come per tutti, oltre a un minimo di costi personali per lavorare.
Non c’è Paese al mondo con tali oneri. E le soluzioni per un migliore assetto e sviluppo della nazione ci sono. Basta volere attuarle.
Resto a Sua disposizione. Suo,
Adriano Teso
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6 commenti:
Tassare i risparmi sarebbe un danno anche per le imprese
Puntuale come un treno svizzero anche quest’anno si è aperto con il consueto consiglio fraudolento di Repubblica che, con i suoi economisti d’area, ha ritirato fuori la solita sciocchezza di «consigliare» al governo di aumentare la tassazione sui risparmi. Niente di nuovo, per carità, la cosa che se mai leggermente inquieta è piuttosto un certo silenzio da parte della maggioranza che potrebbe essere letto come un voler considerare la cosa. L’idea malsana di mettere le mani sui risparmi, invece, non dev’essere affatto considerata, per tanti motivi che cerchiamo di illustrare con la massima chiarezza.
Innanzitutto è aberrante considerare il reddito da risparmio in concorrenza con il reddito da lavoro: i risparmi sono tali, infatti, proprio in quanto residuo dalla tassazione del lavoro e dalla spesa necessaria per vivere (gravata dalle imposte indirette tipo Iva), pertanto tassarli ulteriormente significherebbe scivolare nel mondo della doppia e tripla imposizione. Dato che si è fatto meritoriamente un passo avanti per uscire da queste storture eliminando la tassa sulla prima casa (un’altra forma storica di risparmio degli italiani) non pare il caso di farne uno indietro con i risparmi.
Il punto centrale, poi, è un altro e deve essere spiegato bene perché è una sottigliezza economica che può ingannare: partiamo infatti dal presupposto che chi accarezzi la sciagurata idea di alzare le tasse sui risparmi intenda farlo solo sui titoli di nuova emissione, perché altrimenti sarebbe una tassa patrimoniale pura e semplice (nonché un tradimento di promessa scritta agli acquirenti di titoli e obbligazioni) e queste cose meglio lasciarle fare a Bertinotti. Ebbene, è evidente che a un risparmiatore interessi il rendimento netto del suo investimento, non il lordo: quale che sia il tasso di partenza se il netto non arrivasse a un livello appetibile le nuove obbligazioni non verrebbero sottoscritte. Qui sta il punto: lo Stato può forse permettersi di pagare interessi più onerosi sui suoi titoli di debito (i Bot e gli altri titoli di Stato) perché tanto li recupererebbe con la maggior tassazione, viceversa per un’impresa che desiderasse finanziarsi emettendo un’obbligazione si tratterebbe di un aggravio puro e semplice, proprio in un momento in cui non si sente il bisogno di colpire le fonti di finanziamento delle imprese. Non si scappa: una grande azienda può cercare di procurarsi i capitali in tre modi: prendendoli in prestito dalle banche, cercando nuovi soci con un aumento di capitale azionario o chiedendo un prestito al pubblico con l’emissione di obbligazioni. La strada delle azioni è quasi sbarrata perché i risparmiatori sono fuggiti da tempo dalle borse; il credito da parte delle banche non è certo di facile accessibilità dato che l’imperativo delle direzioni è ancora quello di concedere prestiti con la massima prudenza. Rimane come ultima via di uscita proprio l’emissione di obbligazioni, ed è proprio grazie a questo canale che molte imprese sono riuscite a recuperare le risorse necessarie anche nel momento più nero della crisi. Vi hanno fatto ricorso nomi chiave per la nostra economia, come Finmeccanica, Fiat, Enel, le stesse banche (che così si procurano la provvista per erogare credito), fino a società insospettabili come Campari. Dato che buona parte di questi titoli trovano come sbocco naturale il mercato domestico, un aggravio della tassazione sui risparmi si tradurrebbe in una penalizzazione ai finanziamenti alle imprese. Non esattamente un risultato di cui vantarsi.
È pretestuoso, poi, argomentare che altri Paesi abbiano aliquote sui risparmi più alte della nostra: innanzitutto sarebbe il caso che noi inseguissimo gli altri negli aspetti virtuosi, non in quelli deteriori, e il risparmio degli italiani è stato un fattore decisivo per la resistenza del nostro Paese di fronte alla crisi. Va considerato inoltre che, come ci sono tassazioni più alte all’estero, ci sono anche quelle più basse, e i grandi capitali ci mettono pochissimo a scappare dove conviene, nella rete rimarrebbero i soliti piccoli risparmiatori, che hanno passato sin troppe disavventure.
Insomma, gli stessi che si stracciano le vesti in difesa della Costituzione non si fanno problemi a passare sopra all’articolo che prevede la tutela del risparmio, senza contare che penalizzando l’impresa si colpisce in ultima istanza proprio il lavoro. Ci aspettiamo a questo punto una parola definitiva dal governo.
Non occorrono lunghe risposte, un «Nessuno toccherà i risparmi» può bastare.
di Claudio Borghi
Il fisco è un dittatore:
otto stipendi all’anno
finiscono allo Stato
Lo stipendio degli italiani "bruciato" da tasse e contributi per 8 mesi all'anno. Ecco perché serve la riforma del fisco. Impietoso il confronto con Spagna e Irlanda: negli Usa la pressione è al 37,3%
Fin dal 1994, col programma di politica economica di Forza Italia, poi nel 2003 con la grande riforma solamente tentata delle due aliquote Irpef (al 23 e al 33 per cento), e ancora con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa nel 2008 e lo scudo fiscale nel 2009, Silvio Berlusconi ha saputo individuare nel fisco la grande ferita aperta degli italiani, la big issue su cui intessere il dialogo con gli elettori.
In questo scorcio di 2010, l’annuncio del premier di una profonda riforma fiscale ha il sapore dell’ultima chiamata. Non è troppo enfatico ritenere che il giudizio che gli scienziati politici daranno dell’epopea berlusconiana, quando il Cavaliere lascerà la politica attiva, sarà probabilmente condizionato dall’esito di questa nuova promessa.
Ma su un punto gli analisti s’interrogheranno sicuramente: sebbene molti (per non dire tutti) tra i maggiori leader politici nostrani abbiano sovente dichiarato di considerare intollerabile il livello di pressione fiscale sofferto dagli italiani, solo il Cavaliere ha saputo toccare quelle corde che gli hanno permesso di apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, come il politico più seriamente convinto della centralità del tema. Come ha fatto? A differenza di altri leader, Berlusconi ha avuto negli anni un approccio tranchant verso le tasse: ha spesso ricordato di volerle tagliare a tutti indistintamente, lavoratori e imprese, autonomi e dipendenti; ha sottolineato come la riduzione del carico fiscale non possa che essere finanziata con la riduzione della spesa pubblica; nell’evasione fiscale da sempre individua un effetto dell’elevata pressione fiscale, non una causa.
Di fronte ai sofismi di quanti propongono tasse sui privilegi per finanziare riduzioni selettive, o invocano principi di efficienza fiscale cui sottoporre i piani di riforma, la visione più squisitamente liberale di chi chiede indistintamente «meno tasse per tutti» - per usare ancora una categoria di matrice berlusconiana - ha forse il difetto di apparire semplicistica e poco «scientifica», ma è sicuramente quella che gli italiani comprendono meglio. Probabilmente perché è l’unico approccio possibile per contrastare lo stato di emergenza fiscale in cui vivono.
Trentacinque anni fa gli italiani cedevano al fisco un quarto del Pil. Venticinque anni or sono si era arrivati a un terzo, il 33,6 per cento. Già dieci anni dopo, nel 1995, il livello era ormai del 40 per cento. Da allora in poi, alcune importanti economie Ocse invertivano il senso di marcia (la Germania e l’Irlanda, ma anche i Paesi Bassi e la Polonia) e altre rallentavano comunque il trend di crescita (gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia): non l’Italia, che ha continuato a galoppare, peggiorando una situazione già compromessa e superando il 43 per cento di pressione fiscale nel 2008 (un valore sostanzialmente confermato dalle stime relative all’anno appena concluso). Come a dire: in un anno di 365 dì, gli italiani lavorano per lo Stato fino al 157° giorno e guadagnano per sé solo dal 7 giugno in poi, mentre i contribuenti tedeschi e inglesi sono liberi dal 14 maggio, gli irlandesi dal 28 aprile. Una bella differenza.
Superate Francia e Austria, secondo le previsioni per il 2009, il Bel paese occuperà un solido quarto posto tra i Paesi con la più alta pressione fiscale: segue da vicino Danimarca, Svezia e Belgio, ma con un welfare state e una macchina burocratico-amministrativa nemmeno lontanamente paragonabili a quelli di queste realtà.
Nel Paese che si fregia di essere la patria di milioni di piccole e medie imprese, il fisco d’azienda è famelico: come riporta Andrea Giuricin nel volume Dopo! - Come ripartire dopo la crisi (edito da Ibl Libri), dopo la Germania l’Italia ha la maggiore tassazione sui profitti d’impresa (37,5 per cento,17 punti in più della media Ue). Eppure ridurre le tasse sui profitti, anche attraverso una contestuale riduzione dei sussidi alle imprese, non sarebbe un favore ai «padroni», ma una spinta alla creazione di ricchezza, all’aumento dei posti di lavoro e all’attrazione di nuovi investimenti.
Va peggio ai lavoratori dipendenti. Uno studio della Banca centrale europea di qualche anno fa (Wp n. 747 del 2007) stimava al 65,8 per cento - leggasi: due terzi - la quota di reddito di un lavoratore dipendente che lo Stato preleva con le imposte dirette o indirette o comunque intermedia forzosamente, con i contributi. Il confronto con altre realtà - l’Irlanda (44,8 per cento), gli Usa (37,3) o la Spagna (54) - è purtroppo impietoso. Riportato sul calendario, possiamo dire che se la libertà dal fisco è raggiunta a giugno, la piena libertà dalle scelte dello Stato è possibile solo il 29 agosto.
Si dirà: includere i contributi nel calcolo significa considerare una quota di ricchezza di cui un lavoratore beneficerà negli anni della pensione. Ma pur sempre di soldi sottratti alla sua disponibilità si tratta, tanto più se consideriamo i rischi crescenti cui il comparto previdenziale pubblico sarà soggetto negli anni a venire.
Per Berlusconi, a maggior ragione dopo la spiacevole aggressione di dicembre, una robusta riduzione fiscale sarebbe il coup de théâtre possibile per coronare la sua cavalcata politica. Per il futuro dell'Italia, è una necessità.
Piercamillo Falasca
Ricercatore Istituto Bruno Leoni
Bentornato Acchiappa.
Perche non:)
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