L'ex ministro democristiano Calogero Mannino, attualmente deputato dell'Udc, è stato definitivamente assolto dai giudici della IV sezione penale della corte di Cassazione. Hanno confermato l'assoluzione della seconda sezione penale della corte d'appello di Palermo del 22 ottobre di due anni fa, che lo aveva processato due volte a causa dell'annullamento con rinvio della Suprema corte, per il reato di concorso in associazione mafiosa. L'ex ministro, secondo le accuse della procura della Repubblica di Palermo, nell'81 avrebbe stretto un accordo con i boss agrigentini e palermitani, garantito da Tony Vella, un mafioso agrigentino e da Gioacchino Pennino, esponente della corrente cianciminiana, diventato successivamente collaboratore di giustizia. "Dopo essersi ben comportato con i boss della sua provincia l'imputato si legò anche ai clan palermitani che gli diedero fiducia, puntando su di lui con un patto elettorale che gli garantì voti tra l'83 e il '92".
Il processo a Mannino ha superato per durata ogni record. La sua vicenda giudiziaria inizia formalmente il 24 febbraio del 1994:gli fu notificato dalla procura della Repubblica di Palermo un avviso di garanzia per concorso in associazione mafiosa per indagini iniziate l'anno prima, appena dopo l'arrivo di Giancarlo Caselli alla guida della Dda palermitana. Il 13 febbraio del 1995, su ordine di custodia firmato dal gip di Palermo, Alfredo Montalto, fu arrestato perché avrebbe potuto depistare le indagini. Fu rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia e rinviato a giudizio il 28 ottobre successivo. Nel carcere romano restò fino al 15 novembre del '95 quando fu scarcerato per il grave stato di salute (era stato colpito da una neplagia maligna ed aveva perso 33 chili di peso) ed obbligato agli arresti domiciliari fino al 3 gennaio del 97. Il processo di primo grado si aprì il 28 novembre del 1995 e dopo un dibattimento lunghissimo, più di 300 udienze, 25 pentiti, 400 testimoni citati ( dei quali 250 dall'accusa) fu assolto il 5 luglio del 2001. In appello, nel maggio del 2004, fu condannato a cinque anni e quattro mesi. Il 12 luglio del 2005 la Cassazione a Sezioni unite annullò la decisione e ordinò un nuovo processo dal quale fu assolto alla fine del 2008.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
6 commenti:
Finalmente le Verità stanno tornando a galla.
Spunta il Craxi anti-Pinochet
Un'immagine di Bettino Craxi, leader socialista ed ex presidente del Consiglio, morto dieci anni fa ad Hammamet
«Diedi soldi ai militanti cileni». Le rivelazioni in un documento presentato ieri
FABIO MARTINI
Di quei soldi Bettino Craxi non parlò mai in pubblico, neppure una volta. Di quelle tangenti che lui aveva «girato» negli anni a una gran quantità di partiti e di movimenti di liberazione in giro per il mondo, l’ex leader socialista parlava soltanto con i figli, con i compagni di una vita.
Fece un’eccezione nel dicembre del 1999. Craxi era reduce da una brutta operazione e durante quella dolorosa convalescenza ad Hammamet era andato a trovarlo Francesco Cossiga. E il contenuto di quel colloquio l’ex Capo dello Stato rivelò in una intervista semiclandestina a Raisat Extra: «A un certo punto gli dissi: caro Bettino, io so a chi è andata una fetta di denari prodotti dal finanziamento.... E lui, davanti al caminetto, me lo ricordo con la coperta, mi rispose: “Io non posso mischiare le mie vicende giudiziarie con grandi cause di libertà e di liberazione”». Ma ora, per la prima volta, di quel cospicuo flusso di denaro «sporco» a sostegno di cause di libertà, di partiti clandestini e di movimenti di liberazione, si sa qualcosa di più: nel corso di una lunga chiacchierata - ben 18 ore di girato, che Craxi fece nella casa di Hammamet con Luca Josi - l’ex presidente del Consiglio raccontò diversi dettagli di quel filone: «Per molto tempo aiutammo i socialisti spagnoli in clandestinità», «i portoghesi», «aiutai alcuni compagni cileni a salvarsi dalle grinfie della dittatura».
E finanziamenti, racconta Bettino, andarono all’Olp, a movimenti dell’America Latina, persino ai somali contro gli eritrei. E con un filo di autoironia Craxi chiosa: «Beh, una parte del nostro finanziamento illegale andò a movimenti e a personalità che lottavano per la libertà, ma certo non utilizzavamo la Banca d’Italia per trasmettere loro del denaro, non veniva emessa regolare fattura...».
Il racconto su questo tipo di finanziamenti fa parte della lunga intervista rilasciata nel 1997 da Craxi a Josi, che è entrata a far parte del documentario di 45 minuti che è stato proiettato ieri sera al Cinema Capranica di Roma alla presenza di amici e di politici, mentre un’altra parte del registrato farà parte del libro-dvd «Craxiana» che Josi pubblicherà in aprile. Ma oltre ai movimenti ricordati da Craxi nell’intervista, il Psi ne aiutò molti altri. E anche assai significativi, come racconta Cossiga nel suo libro «Italiani sono sempre gli altri» e come ricorda il figlio Bobo: ebbero aiuti Solidarnosc, il sindacato polacco cattolico e anticomunista, gli esuli cecoslovacchi, il radicale argentino Alfonsin, il brasiliano Lula, il peruviano Garcia, l’uruguagio Sanguinetti, Perez in Venezuela.
Dunque aiuti a movimenti antifascisti e anticomunisti, ma - ecco la sorpresa del Craxi «garibaldino» - anche a movimenti guerriglieri di ispirazione comunista (ma anti-Usa) dell’America Latina, come i Sandinisti o il Farabundo Martí. Nel 1973, poco dopo il golpe di Pinochet, l’allora sconosciuto Craxi andò in Cile alla ricerca della tomba del socialista Salvador Allende, ma nel cimitero di Santiago fu fermato da un poliziotto, che gli intimò di andarsene con queste parole: «Un altro passo e sparo». Ha raccontato Antonio Ghirelli, portavoce del Craxi premier, nel film «La mia vita è stata una corsa»: «Appena divenne presidente del Consiglio, volle andare a Buenos Aires: ricordo un’immensa sala, dove c’erano sindacalisti di tutti i paesi del Sud America.
Chiesi a un compagno argentino: “Come mai fate tanta festa a Craxi?”. E lui: “Come mai? Ma sono dieci anni che questo ci aiuta politicamente e finanziariamente”. Quando arrivò Bettino ci fu una standing ovation che durò tre minuti. Alla fine, per dire che tipo era Bettino, andai da lui e gli chiesi: “Posso parlarle?”. E lui: “Ma no, lascia perdere”». E negli ultimi tempi della sua vita, al figlio Bobo che gli chiedeva perché non parlarne pubblicamente, lui rispose: «Non ho detto nulla di quei soldi, quando li ho dati per cause di libertà: vorresti che lo rivelassi adesso, per farmi bello e difendermi?». E al suo avvocato Giannino Guiso vietò di parlarne, nonostante si fosse offerto di dare testimonianza di quegli aiuti sotto banco un personaggio conosciuto in tutto il mondo: Lech Walesa.
da la stampa
Non male neanche questa :
La verità su quell'intervista deve venire a galla
So bene ormai che per i frequentatori di questo sito non c'è speranza di una qualche redenzione. Il vostro amore è puro, cioè cieco. Ho deciso comunque di farvi partecipi di queste ricerche fatte dal Segugio (al secolo Enrico Tagliaferro).
Ho inviato l'articolo relativo a questi video alla redazione di Comedonchisciotte, la quale ha deciso, come prevedevo, di non pubblicarlo.
Ed è chiaro perchè: loro rispondono alla cieca massima santoriana del "nessuno tocchi Travaglio".
Questi video trattano della manipolazione dell'intervista concessa da Paolo Borsellino a dei giornalisti francesi: la famosa intervista coi cavalli-droga.
Sono da vedere assolutamente.
Il primo video riguarda i cavalli-droga:
http://www.veoh.com/browse/videos/category/people_and_blogs/watch/v19570508JX5bBQxd#
Il secondo ve lo propongo solo perchè ha il pregio di riportare il famoso spezzone di Satyricon, quando Travaglio lesse l'intervista manipolata davanti a milioni di spettatori. Lasciate perdere le restanti parti del video:
http://www.youtube.com/watch?v=qFGswy75Smk
Il terzo video dimostra che fu Calvi in persona a lavorare al montaggio, oppure che Travaglio ha mentito quando ha venduto il suo Dvd come "integrale", che integrale non è:
http://www.youtube.com/watch?v=_XMnjVGXqR8
Questo invece è il link alla trascrizione definitiva delle 3 principali versioni dell'intervista, che dimostra che quella pubblicata dal Fatto non è l'integrale. Inoltre è utile per verificare di persona le manipolazioni che le parole di Borsellino hanno subito:
http://segugio.splinder.com/post/21966444/INTERVISTA+%22BORSELLINO%22%3A+ECCO+
Prevengo quanti ribatteranno che Borsellino intendeva veramente la droga quando rispondeva alla domanda su Dell'Utri, ripondendo che non è vero, e a dirlo è una sentenza. Leggetela prima di fare obiezioni:
http://www.genovaweb.org/doc/sentenza_video_francesi.pdf
Un'ultima cosa: questo post non intende difendere Dell'Utri e Berlusconi, ma soltanto stigmatizzare un fatto inaccettabile, ossia la strumentalizzazione indegna di una intervista manipolata, e, appunto, la manipolazione criminale.
_____________________________
ps: la tesi ufficiale, quella di comodo inventata da Travaglio e giornalisti coinvolti, è che l'intevista di Rainews24 (quella super-manipolata) era una sintesi del montato originale, consegnata a Chiara Beria D'Argentine (giornalista dell'Espresso) come attestato della autenticità dell'intevista.
Poi, quella cassetta manipolata fu data dalla D'Argentine alla famiglia Borsellino.
Ma ciò si è dimostrato falso, perchè in un articolo del 2004 in cui si descriveva appunto quella consegna, scritto dalla D'Argentine, compariva nel racconto la rievocazione di scene tratte dal video originale.
Dunque l'Espresso ebbe la copia originale, e non la "sintesi" manipolata.
Qui i dettagli:
http://segugio.splinder.com/post/21607098
da sitoaurora
Ancora altre verità :
Usa, 007 e Seychelles: il lato oscuro di Di Pietro
Milano - Se si vuole capire davvero la furibonda arrabbiatura di Antonio Di Pietro per il dossier che (secondo quanto da lui stesso rivelato) lo vorrebbe collegare all’universo dei servizi segreti, bisogna andare indietro di dieci anni e più. All’ultimo periodo italiano di Bettino Craxi, e poi al lungo crepuscolo ad Hammamet. È in quel periodo che il leader socialista rende sempre più esplicita la sua convinzione, maturata fin dagli esordi di Mani Pulite e poi rafforzatasi strada facendo: quella che l’origine dei suoi guai giudiziari stia da qualche parte nella nebulosa dei servizi segreti, e più direttamente nella frangia della nostra intelligence di obbedienza americana. La convinzione che Mani Pulite fosse stata - se non progettata - comunque oliata ed agevolata da Oltreoceano, da quella parte di establishment Usa deciso a chiudere i conti con l’anomalia italiana, con l’Andreotti del dialogo con gli arabi, con il Craxi dell’affronto di Sigonella.
Questa convinzione - ribadita implicitamente pochi giorni fa da Rino Formica, ex ministro socialista - passava necessariamente per una rivisitazione del personaggio Di Pietro. Non c’erano solo le Mercedes, i prestiti, le piccole magagne per cui Di Pietro verrà processato e assolto. C’erano dubbi ben più corposi, e che comportavano una rilettura integrale della biografia del magistrato milanese: una carriera solo in apparenza naif, e in realtà compiuta sotto l’egida degli apparati occulti dello Stato, di qua e di là dall’Atlantico. È una ipotesi che, oggi come allora, Di Pietro considera una calunnia senza capo né coda. E fornisce risposte - a volte precise, a volte meno - sui misteri, veri o presunti, della sua storia personale. Eccone una sintesi.
Il rientro in Italia Secondo le biografie autorizzate, Di Pietro emigra in Baviera nel 1971, a ventun anni, e rientra in Italia due anni dopo. Colpo di scena. Viene assunto dall’Aeronautica militare, e assegnato alla struttura che si occupa di controllare la sicurezza delle forniture ad alta tecnologia bellica delle nostre industrie. È una mansione da sempre svolta in parallelo con un reparto apposito del Sismi, l’Antiproliferazione. E comunque chi vi lavora deve godere di un lasciapassare di sicurezza che in quegli anni viene rilasciato proprio dagli 007. Come fa Di Pietro a ottenere immediatamente il nulla osta? La versione di Tonino è semplice: ho fatto un concorso come impiegato civile, l’ho vinto e sono entrato all’Aeronautica.
La laurea Il 19 luglio 1978 Di Pietro si laurea in Giurisprudenza alla Statale di Milano. Nel giro di trentuno mesi ha sostenuto ventidue esami, a un ritmo forsennato. Un esame che terrorizza tutti gli studenti di legge, «Istituzioni di diritto privato», lo sostiene e lo passa dopo appena un mese dall’esame precedente. Si laurea con una tesi in Diritto costituzionale, voto 108/110. «Lavoravo di giorno e studiavo di notte», è sempre stata la versione di Di Pietro: e d’altronde la sua incredibile capacità di lavoro è nota. Ma una serie di stranezze rafforzano i dubbi di chi ipotizza che il suo percorso accademico sia stato accompagnato da segnalazioni e raccomandazioni. Un appunto del centro Sisde di Milano sostiene che Di Pietro in quegli anni era in contatto con un diplomatico Usa in servizio nel nord Italia, e con una associazione vicina alla Cia. In una indagine riservata dei carabinieri dell’Anticrimine milanese si legge che il giorno in cui risulta avere sostenuto un esame, in realtà Di Pietro era fuori città: ma sono illazioni che resteranno prive di riscontro. Come pure i sospetti sul ruolo di Agostino Ruju, avvocato, legato ai nostri servizi segreti, che alla Statale fa l’assistente di Diritto costituzionale quando Di Pietro si laurea proprio in quella materia. A indicare Ruju come uomo dell’intelligence sarà Roberto Arlati, uno dei collaboratori più stretti del generale Dalla Chiesa. Peraltro sia Ruju che Arlati verranno arrestati da Di Pietro nel corso di Mani Pulite.
Al fianco di Dalla Chiesa? In una intervista a Paolo Guzzanti, la madre di Emanuela Setti Carraro racconta che Di Pietro lavorava agli ordini di suo suocero, il generale Dalla Chiesa, nella lotta al terrorismo. Non indica date precise, ma l’episodio dovrebbe essere precedente al 1980, quando Dalla Chiesa viene trasferito al comando della divisione Pastrengo: all’epoca, dunque, Di Pietro è ufficialmente ancora un dipendente civile dell’Aeronautica.
L’ingresso in magistratura Sul concorso con cui, due anni dopo la laurea, Di Pietro entra in polizia non ci sono ombre. Nei dossier craxiani ce ne sono invece, e corpose, sul modo in cui nel 1981 il commissario diventa magistrato, superando al primo colpo un concorso famoso per la sua asprezza. Ai giudici della commissione d’esame resta impressa una certa rozzezza espositiva del candidato. A presiedere la commissione c’è il giudice Corrado Carnevale che più tardi racconterà di essersi fatto commuovere dal curriculum dell’ex emigrante. Ma ancora più inconsueto è quanto accade tre anni dopo, quando il consiglio giudiziario di Brescia valuta l’«uditorato» (cioè l’apprendistato) di Di Pietro. È un giudizio molto severo, che conclude per l’inadeguatezza di Di Pietro a diventare magistrato. Ma il Csm ribalta tutto e promuove l’uditore Di Pietro. Tra i membri del Csm c’è allora Ombretta Fumagalli Carulli, una deputata Dc in ottimi rapporti con gli Usa, che diventerà uno dei primi fan delle indagini anti-corruzione a Milano. Ma Di Pietro ha dalla sua una dichiarazione al Csm del procuratore capo di Bergamo, Cannizzo, che appena un anno dopo cambia radicalmente il giudizio su di lui, aprendogli la strada al trasferimento alla Procura di Milano.
Il viaggio alle Seychelles È l’episodio più surreale, quello dove è più difficile collocare le tessere in un mosaico sensato. Ruota intorno a Francesco Pazienza, un faccendiere dai mille contatti, iscritto alla loggia P2, bene introdotto negli ambienti dei nostri servizi segreti. Nel 1984 Pazienza viene accusato di avere creato, insieme ad alcuni boss dell’intelligence, una sorta di servizio segreto parallelo, viene colpito da mandato di cattura e si rifugia alle Seychelles. Craxi, che allora è presidente del Consiglio, gli scatena contro il Sismi. Mentre i servizi cercano inutilmente di afferrarlo, alle Seychelles sbarca Di Pietro, sostituto procuratore a Bergamo, ufficialmente in viaggio di piacere. Di Pietro si mette sulla tracce di Pazienza, all’insaputa dei suoi capi. In una dichiarazione riportata dal giornalista Filippo Facci, l’allora capo del Sismi Fulvio Martini ipotizza che «Di Pietro lavorasse anche per il ministero degli Interni e avesse mantenuto legami con il precedente mestiere».
Il viaggio in America Nel 1985 Di Pietro arriva a Milano, in Procura. Inizia a scavare sul marcio nella pubblica amministrazione partendo dal caso delle «patenti facili». Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, con la testimonianza di Luca Magni e l’arresto di Mario Chiesa, dà il via all’operazione Mani Pulite. Nel giro di poche settimane viene sollevato il coperchio sulla inverosimile commistione tra business e politica che si è impadronito dell’ex «capitale morale». Tutta l’Italia tifa per Di Pietro. Ma a ottobre, nel pieno del tourbillon dell’inchiesta, il pm sparisce improvvisamente da Milano e vola negli Stati Uniti. Non si sa bene cosa faccia. Di certo partecipa all’interrogatorio di un imprenditore italiano, tale Grassetto. Poi svanisce, i cronisti italiani gli danno la caccia tra New York, Los Angeles, la Pennsylvania. Sui giornali si parla di una traccia che metterebbe in collegamento le indagini di Mani Pulite con i fondi americani di Cosa Nostra: non se ne saprà mai più nulla. Di Pietro fa una sola dichiarazione: «Siamo qui per alcuni incontri con giuristi e agenti dell' Fbi che ci devono spiegare come si fanno qui in America certe indagini». Ma si dice che venga ospitato anche da quelli della Kroll, la superagenzia di investigazioni private che da sempre lavora anche per l’intelligence a stelle e strisce.
Dimissioni dalla magistratura Qui i servizi segreti non c’entrano, ma siamo comunque nella categoria del «giallo». Il 6 dicembre ’94, dopo avere concluso la sua requisitoria nel processo Enimont, Di Pietro si toglie la toga e comunica al procuratore Borrelli la sua decisione di lasciare la magistratura. Nei giorni precedenti appariva provato psicologicamente, c’è chi racconta di averlo visto scoppiare a piangere all’improvviso, senza motivo, in ufficio. La spiegazione di Di Pietro è: sapevo che stavo per venire incriminato, dimettendomi ho evitato che a venire travolta fosse l’intera inchiesta e contemporaneamente ho potuto difendermi con maggiore libertà. I fatti gli daranno ragione, verrà assolto e Mani Pulite andrà avanti (anche se per poco). Eppure sono in diversi a pensare che anche la storia di quell’addio sia, in tutto o in parte, ancora da scrivere.
di Luca Fazzo.
Posta un commento