lunedì 18 gennaio 2010
E su Mannino "Il Fatto" preferì tacere. Gianluca Perricone
Cerca che ti ricerca…nulla, niente di niente. Loro definiranno pure il Corriere come il Pompiere della Sera (a causa del tentativo di stemperare i toni del dibattito politico da parte del quotidiano di via Solforino), ma come definire quelli de Il Fatto e la loro creatura di carta? Il Fatto dei Manettari? La Gazzetta del Procuratore? Il Quotidiano del pm? Prima pagina del rosso giornale “togato” di venerdì 15 gennaio: tra gli altri, editoriale di Travaglio su/contro Craxi (“Craxi Driver”), rinvio alle pagine 2 e 3 su/contro il direttore del Tg1 Minzolini (“Tg1, lui lo ha ridotto così”) colpevole di aver svolto in tv un intervento su Craxi, incipit articolo di Gianni Barbacetto su/contro Craxi (“Quei lingotti di Bettino”), incipit articolo di Luca Telese su/contro il Minzolini di cui sopra (“L’ex squalo, da ecce bombo a telesilvio”) e qualche altra “perla” su clochard, Haiti, Bonino ed interrogazione parlamentare bipartisan sul caso Del Turco. Ma della innocenza (sentenziata il giorno prima dalla Cassazione, al termine di una vicenda giudiziaria durata ben sedici anni dei quali quasi due trascorsi agli arresti) dell’ex ministro Calogero Mannino, niente, neppure una “breve”, nemmanco una riga. Va bene, si potrebbe anche affermare che, forse, non è stata giudicata notizia da prima pagina. E’ vero, ma neppure nelle restanti diciannove c’è traccia di quella assoluzione definitiva arrivata dopo un periodo che, da solo, costituirebbe già di per sé una vergogna. E se poi consideriamo i quasi due anni di detenzione ai quali è stato sottoposto un innocente, il fenomeno assume contorni finanche stomachevoli. Ma questo sono cose che ai “manettari de Il Fatto” non sembrano interessare. Per loro non è successo nulla. Eppure Marco Travaglio non ha perso occasione, nel passato, di sancire “a prescindere” il concorso esterno di Mannino con i poteri mafiosi; nondimeno Gian Carlo Caselli, che delle vicende giudiziarie dell’attuale deputato Udc ne sa parecchio ed almeno qualche considerazione di massima – se non proprio le scuse all’ingiustamente accusato – poteva anche scriverla. Invece nulla, il vuoto assoluto. E questa sarebbe l’informazione libera e senza padroni? E questo sarebbe un giornale privo di pregiudizi e al di sopra delle parti? Ma per piacere… (l'Opinione)
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20 commenti:
17/1/10 Il fatto quotidiano
M.Travaglio
Come ogni assoluzione eccellente, anche quella di Calogero Mannino, arrestato 15 anni fa per concorso esterno in associazione mafiosa, ha scatenato la solita grandinata di luoghi comuni, falsità e scemenze assortite. Non si sa se dovute a ignoranza o a malafede (o forse a entrambe, visto che vengono dagli stessi che accettano solo le sentenze di assoluzione, infatti stanno beatificando il pregiudicato Craxi).
1) "Mannino non andava nemmeno processato: è stata una persecuzione politica della Procura di Caselli". In realtà la procura s’è sempre limitata a chiedere. Mannino fu arrestato da un gip e i ricorsi dei difensori furono respinti dal Riesame (3 giudici) e dalla Cassazione a sezioni unite (9 giudici); poi – consulenze medico-legali alla mano – il Tribunale di Palermo (3 giudici) respinse la richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Furono proprio i pm a farlo liberare anzitempo. Poi fu assolto con formula dubitativa in tribunale, condannato a 5 anni e 4 mesi in appello, sentenza annullata dalla Cassazione che però ritenne giusto riprocessarlo in appello, dove fu assolto sempre con formula dubitativa, sentenza confermata definitivamente l’altro giorno. Quindi una dozzina di giudici hanno stabilito che era giusto processarlo.
2) "E’ stato un errore giudiziario e ora bisogna riformare la giustizia tagliando le mani ai pm e votando il ‘processo breve’, visto che la durata del processo è colpa dei pm". Il processo è durato così a lungo perché l’Italia è l’unico paese al mondo con tre gradi di giudizio automatici che spesso, come in questo caso, diventano cinque. Ma anche perché la giustizia è senza uomini né mezzi. E, in questo caso, anche a causa della legge Pecorella, che abolì l’appello del pm paralizzando il processo finché la Consulta non la cancellò.
In ogni caso non tutte le assoluzioni significano che l’imputato è stato processato per errore. Per capire se lo è stato, bisogna leggere le motivazioni. Qui anche i giudici che hanno assolto Mannino hanno ritenuto provati molti dei fatti contestati dall’accusa: un pranzo con un gruppo di ufficiali medici e con due boss; la partecipazione alle nozze fra Maria Silvana Parisi e Gerlando Caruana, figlio di Leonardo, boss di Siculiana; i rapporti con gli esattori mafiosi Nino e Ignazio Salvo, ai quali Mannino – da assessore regionale alle Finanze – concesse in gestione l’esattoria di Siracusa; gli incontri in casa sua con il boss Antonio Vella e con Gioacchino Pennino, medico palermitano di Brancaccio, esponente della Dc cianciminiana, discendente di una famiglia mafiosa, amico dei boss Giuseppe Di Maggio, Totò Greco e i fratelli Graviano, per chiedere e ottenere voti.
"È acquisita la prova – scrive il tribunale che lo assolse – che nel 1980-81 Mannino aveva stipulato un accordo elettorale con un esponente della famiglia agrigentina di Cosa Nostra, Antonio Vella", e poi con altri boss.
Il "patto elettorale ferreo, avallato dall’intervento di un mafioso come Vella…costituisce una chiave interpretativa della sua personalità e consente di invalidare buona parte del capitolato difensivo, volto a rappresentare Mannino come un politico immune da contaminazioni coscienti con ambienti mafiosi o addirittura vittima di chissà quali complotti".
La questione controversa, valutata diversamente nei vari gradi di giudizio, non sono i rapporti e gli accordi coi mafiosi: è la “controprestazione” fornita da Mannino a Cosa Nostra, il do ut des necessario per innescare il concorso esterno. Per i giudici del primo appello, i favori alla mafia sono provati; per il secondo appello e la seconda Cassazione, non abbastanza. Certo, è seccante restare sotto processo per tanti anni. Ma c’è un sistema infallibile per non essere accusati di mafia: non incontrare mafiosi, non andare a cena con loro né ai loro matrimoni e soprattutto non stipulare con loro “patti elettorali ferrei”. E’ dura, ma ce la si può fare.
il fatto quoidiano rilevazioni Novembre 2009 della FIEG
50/60mila copie vendute in edicola+40mila abbonamenti
(per farvi un idea Libero ne vende 101mila)
L'Opinione delle libertà (nome che mi ricorda qualcosa): non pervenuto
NULLITA'
In pratica che uno sia assolto o no , non importa : è comunque colpevole.
Tranne se si tratta di travaglio stesso.
"L’Appello? Scontificio". Travaglio ne approfitta
Condanna confermata, pena scontata. Rispetto agli otto mesi e 100 euro di multa rifilati in primo grado al giornalista Marco Travaglio (querelato da Cesare Previti), al processo d’appello celebrato ieri a Roma l’«ospite» fisso di Annozero si è visto ridurre la pena a soli mille euro di multa. La terza sezione penale presieduta dal giudice Maisto ha dunque parzialmente riformato la sentenza con una forte rideterminazione della pena, ridotta a multa (che è pur sempre una condanna e presuppone l’accertamento del reato di diffamazione a mezzo stampa). Per Travaglio resta la condanna, anche se l’interessato nel dare notizia alle agenzie di stampa parla di «annullamento» del verdetto di primo grado. Resta pure il risarcimento di 20mila euro dovuto a Previti. E resta la diffamazione, perché «la notizia - come scrisse nelle motivazioni il giudice di primo grado Roberta Di Gioia - così come riportata non risponde a verità».
Lo «sconto» in Corte d’appello per Travaglio arriva a poche ore dalle considerazioni, non certo benevole, dello stesso Travaglio, sugli «scontifici» delle Corti d’appello. Nel corso della trasmissione sui Rai2, subentrando a Santoro che a proposito della bomba di Reggio Calabria ipotizzava una rottura degli equilibri dovuti all’arrivo del nuovo procuratore e alla riorganizzazione degli uffici, Travaglio osservava: «Le Corti d’appello molto spesso sono degli scontifici rispetto ai primi gradi (Santoro annuisce), evidentemente questo procuratore generale carica un po’ più di prima i pg e quindi chiedono pene più alte o conferme alle pene di primo grado». Nemmeno 24 ore dopo a beneficiare dello «scontificio» d’appello è stato proprio lui.
La querelle, e la querela, riguardano l’articolo dell’Espresso del 3 ottobre 2002 incentrato sulle rivelazioni del colonnello dei carabinieri Michele Riccio versus l’ex ministro della Difesa presente (in realtà era assente) a un incontro nello studio dell’avvocato Carlo Taormina, con Marcello Dell’Utri e lo stesso ufficiale che raccolse le confidenze del pentito Luigi Ilardo su presunti accordi tra mafia e Forza Italia. Travaglio riportò le dichiarazioni che Riccio aveva verbalizzato alla Procura di Palermo specificando che una fuga di notizie «quasi certamente di natura istituzionale» sarebbe stata all’origine dell’uccisione del mafioso Ilardo, ormai prossimo a vuotare il sacco. «Solo Riccio può ridargli la voce - scriveva Travaglio sul settimanale - cosa che fa attraverso i suoi appunti (...) senonché nel marzo 2001 viene convocato nello studio del suo avvocato, Carlo Taormina, per una riunione con Dell’Utri e il tenente Canale, entrambi imputati per concorso esterno in mafia». Travaglio aggiunge che «Riccio denuncia subito il fatto in procura. “Si è parlato di dare una mano a Dell’Utri - dice -, io avrei dovuto dire che Ilardo non mi ha mai parlato di Dell’Utri come uomo vicino a Cosa Nostra”. In cambio - continua Travaglio - gli viene promesso un aiuto per rientrare nell’Arma e per ottenere “la rimessione nel mio processo”». Dopodiché, «in quell’occasione, come in altre - chiosa sempre Travaglio riportando le parole di Riccio - presso lo studio dell’avvocato Taormina era presente anche l’onorevole Previti», che invece nega con decisione.
Chi mente, allora, tra Riccio e Previti? Nessuno dei due. Dalla lettura integrale del verbale del colonnello dei carabinieri al pm Di Matteo, il giudice Di Gioia fa notare come Riccio «richiesto più volte dal pm di precisare se in quella sede fosse presente anche Previti, ha dapprima escluso che Previti fosse presente, chiarendo di non essere in grado di ricordare se lo avesse visto in quella o in altre occasioni ma solo per un attimo, precisando che Previti non aveva comunque partecipato all’incontro o ascoltato la conversazione». Sempre secondo il giudice di primo grado, Marco Travaglio ha messo in bocca a Riccio cose che lo stesso Riccio non ha mai proferito. O meglio, il giornalista ha omesso di riportare per intero la frase di Riccio che spiegava come Previti, a quella riunione, non vi partecipò. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado si faceva presente come «l’omissione del contenuto integrale della frase riferita dal Riccio (...) ne ha stravolto il significato, in quanto ha fornito una distorta rappresentazione del fatto riferito dalla fonte, le cui dichiarazioni, lette integralmente, modificano in maniera radicale il tenore della frase (...)». Col risultato di «insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto nella circostanza da Previti». Il giudice Di Gioia, nelle sue conclusioni, è tranchant: «Il dovere in capo al giornalista di riferire la notizia in termini aderenti alla fonte da cui la stessa è stata attinta è stato, nel caso di specie, palesemente disatteso come dimostrato dalla arbitraria censura della frase virgolettata (...). Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano peraltro sintomatiche della sussistenza in capo all’autore di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione di Previti».
TRAVAGLIO MENTE, BORSELLINO DICE LA VERITA
http://www.youtube.com/watch?v=qFGswy75Smk&feature=player_embedded
Le verità sull'intervista a Paolo Borsellino - 1 - by Segugio
http://www.youtube.com/watch?v=Pa4e1QqG0lg&feature=channel
Le verità sull'intervista a Paolo Borsellino - 2 - by Segugio
http://www.youtube.com/watch?v=_XMnjVGXqR8&feature=player_embedded
Sul covo di Totò Riina - Censurati.it prod.
http://www.youtube.com/watch?v=QShAoQH7uZg&feature=channel
Altre notizie che il fatto non pubblica :
In tv L'ex ministro democristiano assolto dall'accusa di mafia dopo 17 anni
Mannino: «Falcone temeva alleanze mafia-servizi segreti stranieri»
«Il giudice mi disse che l'alleanza avrebbe provocato uno scossone, un terremoto nel Paese»
PALERMO - «Incontrai Giovanni Falcone a fine settembre '91. Mi disse che era preoccupato per le possibili convergenze tra Cosa nostra e servizi segreti non italiani, che avrebbero provocato uno scossone, un terremoto nel Paese». L'ha rivelato l'ex ministro democristiano Calogero Mannino, intervistato da Maria Latella su Sky Tg 24.
IL COLLOQUIO - Mannino, assolto il 14 maggio in Cassazione dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo un processo durato 17 anni, ha aggiunto che quella con Falcone fu «una conversazione privata, che si ripetè alla presenza di Peppino Gargani». «Del contenuto di quel colloquio - ha aggiunto - parlai allora con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e con il capo della Polizia Vincenzo Parisi. Fui ascoltato, ma nessuno era in grado di valutare quell'intuizione di Falcone».
ITALIA NON VALUTÒ MUTAMENTO- «Alla fine degli anni Ottanta, erano maturate le condizioni per un mutamento di fondo: l'Italia poteva essere liberata dalla situazione instaurata, con equilibrio, nel '47 in un Paese facente parte della Nato. Con la caduta del Muro di Berlino, inevitabilmente ci sarebbero state delle conseguenze». Commentando la stagione di «Mani pulite» e le notizie di questi giorni sugli ipotetici rapporti tra Antonio Di Pietro ed esponenti di servizi segreti, Mannino ha detto che ritiene le dichiarazioni dell'ex pm «un'operazione di outing. Di Pietro mette le mani avanti. Su di lui, come su di me, sono circolate voci. Si tratta di capire cosa è vero e cosa è falso». «In Italia - ha aggiunto - nell'89 erano presenti tutti i servizi segreti. Si trattava di rivedere quelle presenze, di disattivarle. Cossiga fu l'unico a capire il mutamento e occorreva valutare questo passaggio. Le questioni irrisolte della Prima Repubblica ce le portiamo dietro ancora adesso. Dal disperato discorso di Craxi non c'è stata una valutazione sul finanziamento dei partiti, che da allora è quintuplicato». Infine, Mannino ha parlato della «svolta» della Dc sul fronte antimafia: «Nel congresso dell'83 il partito decise di mettere fuori dalla porta Vito Ciancimino e l'anno precedente, nel corso di un convegno sulla mafia, la Dc lanciò il chiaro messaggio che non intendeva più tollerare debolezze nei confronti di Cosa nostra e appoggiò l'operato del pool antimafia. Già nel '79 la Democrazia cristiana acquisì la consapevolezza che la mafia stava sviluppando un'azione terroristica con l'uccisione di Michele Reina (segretario provinciale di Palermo della Dc, ndr), Piersanti Mattarella e poi Gaetano Costa, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa».
«Dietro Tangentopoli l’ombra di Cuccia» - di MARIANNA BARTOCCELLI -
Il tentativo di lasciarsi alle spalle la terribile stagione di Tangentopoli nella quale non gli sono certo mancate le denunce e i rinvii a giudizio, Carmelo Conte, ex-potente ministro per le aree urbane del governo Craxi, lo ha iniziato quando ha deciso di entrare nei Ds di Salerno. Una vera e propria cerimonia di insediamento alla presenza di Piero Fassino che con la cooptazione degli ex-socialisti spera di puntare «all'unità socialista». E a quanti, tra i suoi ex-compagni, polemizzavano su quell'adesione rispose: «Perchè no? Per costruire una politica sul rilancio del Mezzogiorno bisogna stare insieme». Adesso l'ex-ministro socialista, uno di quelli più tartassati da procedimenti penali e denunzie, ha deciso di raccontare la sua versione sulla Tangentopoli che affossò i partiti, primo fra tutti il suo, e che fece fuori Bettino Craxi.
Lo fa con un libro che uscirà a breve, Verità Collaborate, che certamente farà scalpore. Conte ha da raccontare molti episodi inediti su quegli anni che dovrebbero servire a spostare il tiro sulle responsabilità della magistratura. «Non sempre i magistrati sono i giocatori principali - è il parere di Conte - anzi spesso possono diventare anche semplici pedine di un gioco che tende a complicarsi più che essere in via di soluzione». E per confermare questa sua tesi nel libro racconta quando nell'estate del 1990 Enrico Cuccia, il grande vecchio della finanza, eterno presidente di Mediobanca volle incontrarsi con Craxi.
In quell'occasione Cuccia disse al leader socialista di studiare un progetto di ridimensionamento dei partiti per formare subito un governo di tecnici mandando a casa i politici.
Manovra che Craxi avrebbe dovuto fare coinvolgendo anche il Pci. Il presidente di Mediobanca spiegò a Craxi che i poteri economici nazionali erano stufi di un sistema di potere tenuto in mano dai partiti. Era necessaria una svolta per mettere in competizione sui mercati europei e mondiali i grandi gruppi economici e finanziari.
L'episodio, raccontato ieri sulle pagine del quotidiano Il Riformista, ebbe una svolta che determinò la condanna di Craxi e la fine del suo partito. Il leader socialista infatti si rifiutò di portare avanti questo piano. E subito dopo la prima Repubblica sarebbe finita nelle aule di Tribunale. Per Carmelo Conte a dare il via alla stagione delle manette furono quindi i poteri economici e non i magistrati. Aiutati dai servizi segreti che ebbero un ruolo determinante in alcuni episodi della prima Repubblica, come il sequestro Cirillo.
L'ex-ministro racconta anche che la via meridionale al socialismo è stata una grande realtà. E che a raccoglierne i frutti aveva cominciato ad essere il Psi e non il Pci come invece finì. A causa di una serie di errori che sembravano provenire dal suo partito ma il vero problema furono i servizi. «In quegli anni, soprattutto in Campania - racconta - c'erano cellule dei servizi in grado di fare da grimaldello per sradicare il funzionamento del sistema democratico». E quello che non riuscirono a fare i partiti fu di sconfiggere la corruzione e la camorra, come invece fecero con il terrorismo. «Ancora oggi mi chiedo perchè» continua Conte.
Un libro insomma che riapre le pagine della complessa storia che dagli anni '80 porta agli anni '90 e che ancora presenta tanti buchi neri.
Per l'autore comunque è ancora possibile il progetto politico di rilanciare dalla Calabria una via meridionale del riformismo. Progetto che ha ricominciato a tessere, dopo diversi tentativi di rimettere insieme i socialisti, accettando di stare con quelli che certamente, dopo i poteri economici, come spiega nel suo libro e i magistrati, contribuirono alla scomparsa del Psi e dei socialisti.
Il Giornale 24-9-05
Inm realtà il libro è questo :
Dal quarto stato al quarto partito Dal quarto stato al quarto partito Contenuto
Conte Carmelo, 2009, Rubbettino
€ 15,00
I segreti di Di Pietro Nel 1994 Tonino fece uno strano viaggio alle Seychelles: dava la caccia a Francesco Pazienza. Per conto di chi?
Di Filippo Facci-
«Dicono che sono stato pagato dalla Cia» ha reso noto Antonio Di Pietro nel denunciare la circolazione di fotografie che lo ritraggono, in effetti, coi vertici del Sismi e persino con un agente della Cia. La storiaccia che a suo dire vorrebbero cucirgli addosso - un intrico che l’avrebbe visto al servizio degli Usa e addirittura della mafia - appare tuttavia così improbabile che l’unico ad alimentarla, per ora, è stato oggettivamente lui, Di Pietro. Il quale, se da una parte si è prodigato nel rispondere a domande che nessuno aveva posto, d’altra parte non ha mai voluto spiegare altre vicende che appaiono molto più serie e tuttavia documentate.
Il fulcro resta lo stesso: i suoi rapporti con i servizi segreti.
Antonio Di Pietro, nel novembre 1984, era ufficialmente magistrato a Bergamo. Lo era diventato per vie decisamente inusuali: dapprima aveva lavorato per il ministero dell’Aeronautica presso una postazione dell’Ustaa (Ufficio sorveglianza tecnica armamento aeronautico) e in particolare controllava l’Aster di Barlassina, azienda che lavorava per l’Esercito - in stretto e ovvio contatto con il Sismi, i servizi segreti militari - e collaudava pezzi di alta tecnologia adottati dai Paesi Nato; giusto in quel periodo riuscì a laurearsi con velocità e modalità non meno inusuali - Libero avrà modo di tornarci la settimana prossima - e questo prima di diventare poliziotto lavorando nell’antiterrorismo con Vito Plantone e Carlo Alberto Dalla Chiesa, circostanze che Di Pietro non ha mai ammesso ma sulle quali, pure, si avrà modo di tornare. Non meno rocambolesco, nel 1981, era stato il suo esame da magistrato: sicché tre anni dopo, a Bergamo, eccolo destreggiarsi dopo che i suoi superiori l’avevano deferito al Csm non ritenendolo «in grado di dare tutti quegli affidamenti che vengono richiesti a un magistrato».
La strana vacanza
È proprio in quei giorni, nell’autunno 1994, che Di Pietro decise di prendersi una vacanza decisamente particolare. Va premesso, per comprendere lo scenario, che in quel periodo il Paese era ancora scosso dagli strascichi dell’eversione: nessuno aveva propriamente raccolto il testimone del defunto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ma le più importanti inchieste sul terrorismo erano pervenute nelle mani del sostituto procuratore romano Domenico Sica. Un caso affidatogli fu quello del cosiddetto «Supersismi», sorta di servizio segreto parallelo creato dalla Loggia P2 e reo di gravissime deviazioni e commistioni col peggior mondo criminale. Capi occulti di questo organismo risultarono essere altri esponenti eccellenti del Sismi e tra questi il cosiddetto faccendiere Francesco Pazienza, inseguito da mandati d’arresto d’ogni tipo. Ma il faccendiere intanto se la rideva: inquisito anche per la bancarotta dell’Ambrosiano, dal tardo 1984, si era nascosto alle isole Seychelles. Un uomo d’affari, Giovanni Mario Ricci, l’aveva presentato al presidente dell’arcipelago Albert René con il quale il faccendiere era entrato in grande confidenza. Ogni tanto si limitava a far spedire in Italia memoriali difensivi dal suo avvocato americano o convocava finte conferenze stampa a New York. Sica intanto gli aveva già fatto sequestrare tutti i beni e gli aveva spiccato contro sette mandati di cattura internazionali.
Le foto che scottano.
Il 20 novembre 1984, Antonio Di Pietro parte per le Seychelles. Con lui c’era una donna non identificata, e i due fecero di tutto fuorché i turisti. Si trattava di una meta facile: il presidente René non brillava propriamente per democrazia
Il capo del Sismi, l’ammiraglio Fulvio Martini, venne a sapere che Pazienza era celato nell’arcipelago. Quello delle Seychelles era un regime comunista appoggiato dal Cremlino, e tentare la via diplomatica all’epoca era impensabile. Alla disperata caccia di Pazienza si ritrovarono insomma il Sismi, il Sisde (i Servizi segreti civili) e il superprocuratore Domenico Sica. Una prima missione del Sisde era fallita: due agenti erano atterrati nelle isole a bordo di un aereo dell’Eni ma avevano combinato poco o niente. La circostanza è stata confermata da Giovanni Mario Ricci, allora sporadico corrispondente dell’Ansa e uomo d’affari cui i due agenti si rivolsero. Ulteriore conferma era poi giunta dal suo avvocato Corso Bovio. Ed eccoci al centro dell’arcano.
Proprio allora, il 20 novembre 1984, Antonio Di Pietro parte per le Seychelles. Con lui c’era una donna non identificata, e i due fecero di tutto fuorché i turisti. Sole e mare a parte, non si trattava di una meta facile: il presidente René non brillava propriamente per democrazia.
Tonino fece di tutto per mettersi nei guai. A bordo di una Mini-Moke a noleggio cominciò a fotografare in giro ma nascondendosi, acquattandosi; incontrò, tra gli altri, un vescovo cattolico ritenuto tra i capi dell’opposizione interna e chiese appunto informazioni su Pazienza, ascoltatissimo consigliere di René.
Di Pietro e compagna furono subito pedinati e intercettati. Un responsabile dei servizi di sicurezza locali, un nordcoreano, stilò un rapporto con tanto di fotografie e ipotizzò che quel signore potesse essere un agente del Sismi o del Sisde o della Cia, organismi interessati a Pazienza. Tutte queste circostanze, più molte altre, sono confermate da atti giudiziari nonché dal racconto di Francesco Pazienza e da un libro del medesimo pubblicato da Longanesi nel 1999, «Il disubbidiente».
L’agente nordcoreano e altri due sovietici proposero tranquillamente di far fuori l’intruso spingendo la sua auto giù da una scarpata, ritenendolo appunto un agente della Cia o del Sismi. Tra l’altro, intercettandolo, avevano verificato che ogni sera Di Pietro telefonava e relazionava. Pazienza mantenne fede al suo cognome e prese tempo. Andò all’hotel San Souci, dove dimorava quello strano italiano al mare, e ne spiò le generalità: era tal Di Pietro Antonio, magistrato alla Procura di Bergamo. Così, agli agenti sempre più ansiosi di far fuori il turista ficcanaso, Pazienza spiegò che se ne sarebbe ripartito a breve, che si calmassero. Pensò comunque di architettare uno stratagemma che potesse svelargli i referenti italiani di Tonino, e con un complicato giro di telefonate fece avere al magistrato delle notizie false: ossia che lui, il ricercato Francesco Pazienza, sarebbe passato dall’aeroporto di Lugano il 13 dicembre.
«Le informazioni raccolte da Di Pietro finivano al Sismi», ha raccontato Pazienza, «e non c’erano dubbi... le passava a un altro magistrato il quale poi le riversava a Martini»
Contemporaneamente diede la soffiata anche agli svizzeri - tramite i servizi segreti della Germania Orientale - di modo che potessero bloccare e identificare gli agenti italiani sopraggiunti irregolarmente per arrestarlo: se fossero stati poliziotti significava che Tonino agiva per canali istituzionali; se fossero stati agenti del Sismi, invece, no. Andò tutto come previsto: gli arresti ci furono e gli agenti fermati dalla gendarmeria svizzera furono due, un tenente colonnello e un brigadiere dei carabinieri: agenti del Sismi, si appurò. La giustizia svizzera emise anche un comunicato in cui confermava un’azione contro due appartenenti a «un servizio di informazioni dello Stato italiano (Sismi)». I due carabinieri rimasero in carcere per ventisei giorni e poi furono espulsi. L’ammiraglio Fulvio Martini, del Sismi, non fece una bella figura, e non la fece neppure il presidente del Consiglio di allora, Bettino Craxi.
«Le informazioni raccolte da Di Pietro finivano al Sismi», ha raccontato Pazienza, «e non c’erano dubbi... le passava a un altro magistrato il quale poi le riversava a Martini». Il magistrato, appunto, era Domenico Sica. Di Pietro ha fornito tiepidissime conferme ma non si è mai voluto soffermare sui particolari e neppure sulla sostanza. Pazienza, detenuto dal novembre 1995, ha confermato tutta la vicenda e così pure ha fatto Giovanni Mario Ricci, ma dell’intreccio si trova traccia anche nelle motivazioni della sentenza di primo grado per il cosiddetto crack del Banco Ambrosiano, dove si riferisce - pagine 2 e 3 - che «Il Pazienza era rifugiato alle Seychelles» e soprattutto di «irrituali indagini» di un allora «sostituto procuratore della Repubblica di Bergamo». Negli atti è finito anche un rapporto, con annesse fotografie, stilato da Di Pietro alle Seychelles: il presidente della Terza sezione penale Fabrizio Poppi prese appunto ampio spunto dalle «ricerche» di quello strano magistrato.
Quello strano rapporto
Perché strano? Uno degli avvocati di Pazienza, Giuseppe De Gori, interpellato, è stato esplicito: «È chiaro che qualcuno ce l’ha mandato. A che titolo sennò poteva stendere un rapporto per Sica? Se era un sostituto procuratore a Bergamo, allora scriva tranquillamente che Di Pietro ha commesso un reato, non poteva né indagare né stendere rapporti. Di Pietro ha detto che l’aveva spedito alla Procura di Bergamo, ma questo non è vero. Io so solo, ed è strano, che quel rapporto finì non si sa come nelle carte dell’Ambrosiano. Non esiste una norma giuridica per cui sia ammissibile che si sia verificato ciò». L’allora capo della Procura di Bergamo, Giuseppe Cannizzo, dichiarò oltretutto, sempre all’autore di questo articolo, che «A me non è mai arrivato nulla. Se fosse arrivato un rapporto del genere l’avrei saputo, ero il capo della Procura. Per quanto ne so, Di Pietro era in vacanza». L’allora capo del Sismi ammiraglio Fulvio Martini, a suo tempo interpellato, ebbe a confermare l’agguato contro Pazienza in Svizzera nonché l’arresto dei due suoi agenti, non escludendo un depistaggio architettato dal faccendiere; ha specificato di aver saputo della sua presenza alle Seychelles a mezzo intercettazioni telefoniche intercontinentali, ma ha detto di non aver mai saputo nulla di Di Pietro e di un suo rapporto con Sica; ha chiarito che «l’operazione Pazienza fu gestita interamente dai Servizi segreti fino al suo primo arresto, negli Stati Uniti» nel marzo 1985, ma di non aver spedito suoi uomini alle Seychelles; ha ipotizzato che Di Pietro «lavorasse anche per il ministero dell’Interno e avesse mantenuto dei legami col precedente mestiere».
Pazienza: «Di Pietro mi confidò il suo desiderio di dedicarsi presto a un’attività che non gli avrebbe consentito di avere più nulla a che fare con Mani pulite»
Stando a Francesco Pazienza, poi, altri contatti tra lui e Di Pietro risalgono al periodo di Mani pulite. Prima si incontrarono per caso il 9 gennaio 1993, in Corso di Porta Vittoria a Milano. Ma fu un attimo. Poi, il 19 luglio 1994, decisero di vedersi e solo quel giorno Di Pietro apprese che Pazienza, dieci anni prima, gli aveva salvato la pelle. Ha raccontato il faccendiere: «Accadde un fatto strano. Di Pietro mi confidò il suo desiderio di dedicarsi presto a un’attività che non gli avrebbe consentito di avere più nulla a che fare con Mani pulite. Mi chiese se ero disponibile a dargli una mano. La mia risposta fu immediata e positiva». Questo accadeva cinque mesi prima che si dimettesse dalla magistratura. È lo stesso anno, il 1994, in cui Di Pietro fu intervistato da Gianni Minoli a Mixer (Radue) e alla domanda «Ha mai incontrato un duro come lei?» rispose «Sì, Francesco Pazienza».
Un altro «fatto strano» avvenne il 14 ottobre successivo. Di Pietro fissò a Pazienza un altro appuntamento ma quest’ultimo, mentre era in viaggio verso Milano per incontrare il magistrato, ricevette una telefonata dalla sua segretaria: i carabinieri gli stavano perquisendo l’ufficio di La Spezia.
La motivazione ufficiale era legata ai suoi presunti rapporti con la contessa Francesca Vacca Agusta, allora già latitante. «Il giorno dopo, al ritorno nel mio ufficio, diedi un’occhiata per controllare se durante la perquisizione era state mischiate alcune carte. Mi accorsi subito che tutto era al suo posto tranne il dossier sulle Seychelles: era sparito. Provvidi a informare subito il mio avvocato Scipione Del Vecchio e il titolare dell’ufficio Rino Corniola. Appresi poi che non era stato stilato, come prevede la legge, un elenco dettagliato dei documenti asportati, ma soltanto un verbale in cui c’era scritto “scatola con documenti”».
Il 17 aprile 1996 Francesco Pazienza venne convocato dalla Corte d’Appello di Milano per il citato processo sul Banco Ambrosiano. In primo grado, come detto, era stato condannato anche in base al rapporto che Di Pietro aveva steso su di lui alle Seychelles: lo si era utilizzato per sostenere che il faccendiere se la spassasse ai tropici coi soldi del Banco. Il faccendiere, per difendersi da quest’accusa, in aula raccontò parte della storia che si è appena narrata, ma priva di particolari decisivi. «Di Pietro spiava per Sica» titolò quindi il «Corriere» del giorno dopo con un tono di sufficienza, fingendo ironia. Nessuno o quasi realizzò. Tanto che Di Pietro, non poco imbarazzato, dovette ammettere ai giornalisti: «La faccenda è molto più complicata... comunque ne feci oggetto di un rapporto al pm Sica». Nulla più. Nessuno ci capì niente.
A distanza di tanti anni, però, qualcosa si vorrebbe capire: anche perché Antonio Di Pietro frattanto è divenuto un politico col marchio di fabbrica della trasparenza: non ha mai spiegato, però, come e perché si ritrovò a condurre una missione da intrigo internazionale, spiando un latitante cui il responsabile del Servizio segreto militare teneva in particolar modo, e a cui pure teneva il principe dei magistrati antiterrorismo, e sopra tutti, se non disturba, teneva il presidente del Consiglio dei ministri.
Tonino non ha mai spiegato come e perché si ritrovò a condurre una missione da intrigo internazionale, spiando un latitante cui il responsabile del Servizio segreto militare teneva in particolar modo
Riepilogo finale
Si provi a ricapitolare: un giovanotto molisano ha lavorato negli ambientini dell’Aeronautica (Nato, Ufficio sicurezza, Aster, Ustaa) per cinque anni; si è successivamente laureato in soli trentun mesi, pur lavorando; è divenuto poliziotto; avrebbe lavorato per un’intelligence antiterrorismo; è divenuto magistrato, e - con una doppia bocciatura e un imminente «processino» al Csm - è poi partito per i tropici stendendo poi un rapporto per Domenico Sica, per alcuni aspetti continuatore del generale Dalla Chiesa, e su chi? Su uno come Francesco Pazienza, che racconta e mette nero su bianco - anche in un libro - storie di agenti sovietici e nordcoreani a tal punto convinti che Di Pietro sia un agente, guarda caso, da volerlo ammazzare.
Poi si appura che, pur risultando egli magistrato, le sue informazioni arrivano al Sismi e fanno scattare altre azioni del Sismi, gradite alla Cia.
Piacerebbe coltivare qualche curiosità a proposito, piacerebbe insomma conoscere la biografia di Antonio Di Pietro per intero: senza dover sospettare che ne esista un’altra, parallela a una carriera parallela. È gradita risposta.
Usa, 007 e Seychelles: il lato oscuro di Di Pietro
Se si vuole capire davvero la furibonda arrabbiatura di Antonio Di Pietro per il dossier che (secondo quanto da lui stesso rivelato) lo vorrebbe collegare all’universo dei servizi segreti, bisogna andare indietro di dieci anni e più. All’ultimo periodo italiano di Bettino Craxi, e poi al lungo crepuscolo ad Hammamet. È in quel periodo che il leader socialista rende sempre più esplicita la sua convinzione, maturata fin dagli esordi di Mani Pulite e poi rafforzatasi strada facendo: quella che l’origine dei suoi guai giudiziari stia da qualche parte nella nebulosa dei servizi segreti, e più direttamente nella frangia della nostra intelligence di obbedienza americana. La convinzione che Mani Pulite fosse stata - se non progettata - comunque oliata ed agevolata da Oltreoceano, da quella parte di establishment Usa deciso a chiudere i conti con l’anomalia italiana, con l’Andreotti del dialogo con gli arabi, con il Craxi dell’affronto di Sigonella.
Questa convinzione - ribadita implicitamente pochi giorni fa da Rino Formica, ex ministro socialista - passava necessariamente per una rivisitazione del personaggio Di Pietro. Non c’erano solo le Mercedes, i prestiti, le piccole magagne per cui Di Pietro verrà processato e assolto. C’erano dubbi ben più corposi, e che comportavano una rilettura integrale della biografia del magistrato milanese: una carriera solo in apparenza naif, e in realtà compiuta sotto l’egida degli apparati occulti dello Stato, di qua e di là dall’Atlantico. È una ipotesi che, oggi come allora, Di Pietro considera una calunnia senza capo né coda. E fornisce risposte - a volte precise, a volte meno - sui misteri, veri o presunti, della sua storia personale. Eccone una sintesi.
Il rientro in Italia Secondo le biografie autorizzate, Di Pietro emigra in Baviera nel 1971, a ventun anni, e rientra in Italia due anni dopo. Colpo di scena. Viene assunto dall’Aeronautica militare, e assegnato alla struttura che si occupa di controllare la sicurezza delle forniture ad alta tecnologia bellica delle nostre industrie. È una mansione da sempre svolta in parallelo con un reparto apposito del Sismi, l’Antiproliferazione. E comunque chi vi lavora deve godere di un lasciapassare di sicurezza che in quegli anni viene rilasciato proprio dagli 007. Come fa Di Pietro a ottenere immediatamente il nulla osta? La versione di Tonino è semplice: ho fatto un concorso come impiegato civile, l’ho vinto e sono entrato all’Aeronautica.
La laurea Il 19 luglio 1978 Di Pietro si laurea in Giurisprudenza alla Statale di Milano. Nel giro di trentuno mesi ha sostenuto ventidue esami, a un ritmo forsennato. Un esame che terrorizza tutti gli studenti di legge, «Istituzioni di diritto privato», lo sostiene e lo passa dopo appena un mese dall’esame precedente. Si laurea con una tesi in Diritto costituzionale, voto 108/110. «Lavoravo di giorno e studiavo di notte», è sempre stata la versione di Di Pietro: e d’altronde la sua incredibile capacità di lavoro è nota. Ma una serie di stranezze rafforzano i dubbi di chi ipotizza che il suo percorso accademico sia stato accompagnato da segnalazioni e raccomandazioni. Un appunto del centro Sisde di Milano sostiene che Di Pietro in quegli anni era in contatto con un diplomatico Usa in servizio nel nord Italia, e con una associazione vicina alla Cia. In una indagine riservata dei carabinieri dell’Anticrimine milanese si legge che il giorno in cui risulta avere sostenuto un esame, in realtà Di Pietro era fuori città: ma sono illazioni che resteranno prive di riscontro. Come pure i sospetti sul ruolo di Agostino Ruju, avvocato, legato ai nostri servizi segreti, che alla Statale fa l’assistente di Diritto costituzionale quando Di Pietro si laurea proprio in quella materia. A indicare Ruju come uomo dell’intelligence sarà Roberto Arlati, uno dei collaboratori più stretti del generale Dalla Chiesa. Peraltro sia Ruju che Arlati verranno arrestati da Di Pietro nel corso di Mani Pulite.
Al fianco di Dalla Chiesa? In una intervista a Paolo Guzzanti, la madre di Emanuela Setti Carraro racconta che Di Pietro lavorava agli ordini di suo suocero, il generale Dalla Chiesa, nella lotta al terrorismo. Non indica date precise, ma l’episodio dovrebbe essere precedente al 1980, quando Dalla Chiesa viene trasferito al comando della divisione Pastrengo: all’epoca, dunque, Di Pietro è ufficialmente ancora un dipendente civile dell’Aeronautica.
L’ingresso in magistratura Sul concorso con cui, due anni dopo la laurea, Di Pietro entra in polizia non ci sono ombre. Nei dossier craxiani ce ne sono invece, e corpose, sul modo in cui nel 1981 il commissario diventa magistrato, superando al primo colpo un concorso famoso per la sua asprezza. Ai giudici della commissione d’esame resta impressa una certa rozzezza espositiva del candidato. A presiedere la commissione c’è il giudice Corrado Carnevale che più tardi racconterà di essersi fatto commuovere dal curriculum dell’ex emigrante. Ma ancora più inconsueto è quanto accade tre anni dopo, quando il consiglio giudiziario di Brescia valuta l’«uditorato» (cioè l’apprendistato) di Di Pietro. È un giudizio molto severo, che conclude per l’inadeguatezza di Di Pietro a diventare magistrato. Ma il Csm ribalta tutto e promuove l’uditore Di Pietro. Tra i membri del Csm c’è allora Ombretta Fumagalli Carulli, una deputata Dc in ottimi rapporti con gli Usa, che diventerà uno dei primi fan delle indagini anti-corruzione a Milano. Ma Di Pietro ha dalla sua una dichiarazione al Csm del procuratore capo di Bergamo, Cannizzo, che appena un anno dopo cambia radicalmente il giudizio su di lui, aprendogli la strada al trasferimento alla Procura di Milano.
Il viaggio alle Seychelles È l’episodio più surreale, quello dove è più difficile collocare le tessere in un mosaico sensato. Ruota intorno a Francesco Pazienza, un faccendiere dai mille contatti, iscritto alla loggia P2, bene introdotto negli ambienti dei nostri servizi segreti. Nel 1984 Pazienza viene accusato di avere creato, insieme ad alcuni boss dell’intelligence, una sorta di servizio segreto parallelo, viene colpito da mandato di cattura e si rifugia alle Seychelles. Craxi, che allora è presidente del Consiglio, gli scatena contro il Sismi. Mentre i servizi cercano inutilmente di afferrarlo, alle Seychelles sbarca Di Pietro, sostituto procuratore a Bergamo, ufficialmente in viaggio di piacere. Di Pietro si mette sulla tracce di Pazienza, all’insaputa dei suoi capi. In una dichiarazione riportata dal giornalista Filippo Facci, l’allora capo del Sismi Fulvio Martini ipotizza che «Di Pietro lavorasse anche per il ministero degli Interni e avesse mantenuto legami con il precedente mestiere».
Il viaggio in America Nel 1985 Di Pietro arriva a Milano, in Procura. Inizia a scavare sul marcio nella pubblica amministrazione partendo dal caso delle «patenti facili». Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, con la testimonianza di Luca Magni e l’arresto di Mario Chiesa, dà il via all’operazione Mani Pulite. Nel giro di poche settimane viene sollevato il coperchio sulla inverosimile commistione tra business e politica che si è impadronito dell’ex «capitale morale». Tutta l’Italia tifa per Di Pietro. Ma a ottobre, nel pieno del tourbillon dell’inchiesta, il pm sparisce improvvisamente da Milano e vola negli Stati Uniti. Non si sa bene cosa faccia. Di certo partecipa all’interrogatorio di un imprenditore italiano, tale Grassetto. Poi svanisce, i cronisti italiani gli danno la caccia tra New York, Los Angeles, la Pennsylvania. Sui giornali si parla di una traccia che metterebbe in collegamento le indagini di Mani Pulite con i fondi americani di Cosa Nostra: non se ne saprà mai più nulla. Di Pietro fa una sola dichiarazione: «Siamo qui per alcuni incontri con giuristi e agenti dell' Fbi che ci devono spiegare come si fanno qui in America certe indagini». Ma si dice che venga ospitato anche da quelli della Kroll, la superagenzia di investigazioni private che da sempre lavora anche per l’intelligence a stelle e strisce.
Dimissioni dalla magistratura Qui i servizi segreti non c’entrano, ma siamo comunque nella categoria del «giallo». Il 6 dicembre ’94, dopo avere concluso la sua requisitoria nel processo Enimont, Di Pietro si toglie la toga e comunica al procuratore Borrelli la sua decisione di lasciare la magistratura. Nei giorni precedenti appariva provato psicologicamente, c’è chi racconta di averlo visto scoppiare a piangere all’improvviso, senza motivo, in ufficio. La spiegazione di Di Pietro è: sapevo che stavo per venire incriminato, dimettendomi ho evitato che a venire travolta fosse l’intera inchiesta e contemporaneamente ho potuto difendermi con maggiore libertà. I fatti gli daranno ragione, verrà assolto e Mani Pulite andrà avanti (anche se per poco). Eppure sono in diversi a pensare che anche la storia di quell’addio sia, in tutto o in parte, ancora da scrivere.
Il rientro in Italia Secondo le biografie autorizzate, Di Pietro emigra in Baviera nel 1971, a ventun anni, e rientra in Italia due anni dopo. Colpo di scena. Viene assunto dall’Aeronautica militare, e assegnato alla struttura che si occupa di controllare la sicurezza delle forniture ad alta tecnologia bellica delle nostre industrie. È una mansione da sempre svolta in parallelo con un reparto apposito del Sismi, l’Antiproliferazione. E comunque chi vi lavora deve godere di un lasciapassare di sicurezza che in quegli anni viene rilasciato proprio dagli 007. Come fa Di Pietro a ottenere immediatamente il nulla osta? La versione di Tonino è semplice: ho fatto un concorso come impiegato civile, l’ho vinto e sono entrato all’Aeronautica.
La laurea Il 19 luglio 1978 Di Pietro si laurea in Giurisprudenza alla Statale di Milano. Nel giro di trentuno mesi ha sostenuto ventidue esami, a un ritmo forsennato. Un esame che terrorizza tutti gli studenti di legge, «Istituzioni di diritto privato», lo sostiene e lo passa dopo appena un mese dall’esame precedente. Si laurea con una tesi in Diritto costituzionale, voto 108/110. «Lavoravo di giorno e studiavo di notte», è sempre stata la versione di Di Pietro: e d’altronde la sua incredibile capacità di lavoro è nota. Ma una serie di stranezze rafforzano i dubbi di chi ipotizza che il suo percorso accademico sia stato accompagnato da segnalazioni e raccomandazioni. Un appunto del centro Sisde di Milano sostiene che Di Pietro in quegli anni era in contatto con un diplomatico Usa in servizio nel nord Italia, e con una associazione vicina alla Cia. In una indagine riservata dei carabinieri dell’Anticrimine milanese si legge che il giorno in cui risulta avere sostenuto un esame, in realtà Di Pietro era fuori città: ma sono illazioni che resteranno prive di riscontro. Come pure i sospetti sul ruolo di Agostino Ruju, avvocato, legato ai nostri servizi segreti, che alla Statale fa l’assistente di Diritto costituzionale quando Di Pietro si laurea proprio in quella materia. A indicare Ruju come uomo dell’intelligence sarà Roberto Arlati, uno dei collaboratori più stretti del generale Dalla Chiesa. Peraltro sia Ruju che Arlati verranno arrestati da Di Pietro nel corso di Mani Pulite.
Il viaggio alle Seychelles È l’episodio più surreale, quello dove è più difficile collocare le tessere in un mosaico sensato. Ruota intorno a Francesco Pazienza, un faccendiere dai mille contatti, iscritto alla loggia P2, bene introdotto negli ambienti dei nostri servizi segreti. Nel 1984 Pazienza viene accusato di avere creato, insieme ad alcuni boss dell’intelligence, una sorta di servizio segreto parallelo, viene colpito da mandato di cattura e si rifugia alle Seychelles. Craxi, che allora è presidente del Consiglio, gli scatena contro il Sismi. Mentre i servizi cercano inutilmente di afferrarlo, alle Seychelles sbarca Di Pietro, sostituto procuratore a Bergamo, ufficialmente in viaggio di piacere. Di Pietro si mette sulla tracce di Pazienza, all’insaputa dei suoi capi. In una dichiarazione riportata dal giornalista Filippo Facci, l’allora capo del Sismi Fulvio Martini ipotizza che «Di Pietro lavorasse anche per il ministero degli Interni e avesse mantenuto legami con il precedente mestiere».
Il viaggio in America Nel 1985 Di Pietro arriva a Milano, in Procura. Inizia a scavare sul marcio nella pubblica amministrazione partendo dal caso delle «patenti facili». Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, con la testimonianza di Luca Magni e l’arresto di Mario Chiesa, dà il via all’operazione Mani Pulite. Nel giro di poche settimane viene sollevato il coperchio sulla inverosimile commistione tra business e politica che si è impadronito dell’ex «capitale morale». Tutta l’Italia tifa per Di Pietro. Ma a ottobre, nel pieno del tourbillon dell’inchiesta, il pm sparisce improvvisamente da Milano e vola negli Stati Uniti. Non si sa bene cosa faccia. Di certo partecipa all’interrogatorio di un imprenditore italiano, tale Grassetto. Poi svanisce, i cronisti italiani gli danno la caccia tra New York, Los Angeles, la Pennsylvania. Sui giornali si parla di una traccia che metterebbe in collegamento le indagini di Mani Pulite con i fondi americani di Cosa Nostra: non se ne saprà mai più nulla. Di Pietro fa una sola dichiarazione: «Siamo qui per alcuni incontri con giuristi e agenti dell' Fbi che ci devono spiegare come si fanno qui in America certe indagini». Ma si dice che venga ospitato anche da quelli della Kroll, la superagenzia di investigazioni private che da sempre lavora anche per l’intelligence a stelle e strisce.
Non capisco per quale motivo, se un giornale vende 100mila o più copie, debba essere considerato attendibile.
Chi compera "il Fatto" desidera leggere certi articoli, ne condivide la linea editoriale, la pensa come Travaglio e non si preoccupa di sapere quanto fondate siano certe notizie.
19 gennaio, 2010 15:22
grazie acchiappab.
mi leggero' i tuoi articoli preziosi come sempre (tranne segugio e Facci, ma solo perche' gia' li avevo letti...)
Luigi
caro luigi , oltre agli articoli di facci segugio ,e chiocci , che presumo abbia letto , consiglio questi :
su di pietro :
Di pietro e i s.s.
http://www.camelotdestraideale.it/2010/01/19/di-pietro-e-i-servizi-segreti/
la parenti sicura..
http://www.ilgiornale.it/interni/la_parenti_sicura__servizi_segreti/18-01-2010/articolo-id=414583-page=0-comments=1
dal libro di pazienza :
http://www.ilgiornale.it/interni/ce_magistrato_italiano_che_fa_spia_seychelles/17-01-2010/articolo-id=414362-page=0-comments=1
leeden e luttwakk confermano :
http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=PECNA
Su tangentopoli
l epilogo della guerra fredda
http://www.ilgiornale.it/interni/tangentopoli_lepilogo_guerra_fredda/17-01-2010/articolo-id=414360-page=0-comments=1
Pomicino e la manina americana
http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=PEA11
su craxi
craxi antipinochet
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201001articoli/51267girata.asp
lo scandalo craxi
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=30068
una figura chiave della nostra storia
http://www.ragionpolitica.it/cms/index.php/201001182423/cultura-politica/una-figura-chiave-della-nostra-storia.html
il vangelo socialista
http://www.dorinopiras.it/ostrakon/articoli/301-il-vangelo-socialista-craxi-e-berlinguer-30-anni-fa
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