Il governo Berlusconi è finito, ma non è finito l’elettorato che ha consegnato al centro destra, da lui ideato e diretto, diciassette anni di forza politica. Il governo non è finito ieri. La votazione sul rendiconto ha messo in evidenza la debolezza dell’esecutivo, oramai roso dalle fughe, ma anche l’inesistenza di maggioranze alternative. Il governo è finito da molti mesi. La sua anima s’è dannata quando la legislatura è partita con il piede sbagliato e la sua natura s’è corrotta quando ha preteso di salvare il bipolarismo a dispetto del tradimento del premio di maggioranza. Se la partenza non fu entusiasmante è bene che la fine non sia distruttiva, perché, a dispetto di quel che tanti propagandisti strillano, la sua caduta non risolve neanche uno dei problemi che dobbiamo affrontare.
Il governo si è affondato con le proprie mani, nel primo anno della legislatura. Operava avendo di fronte un massiccio fuoco di sbarramento e doveva mettere nel conto una sovranità istituzionalmente limitata (nella precedente legislatura una non maggioranza elettorale aveva eletto il Presidente della Repubblica senza cercare né dialogo né condivisione), ma aveva una solida maggioranza parlamentare, con la quale avrebbe potuto fare quel che oggi rimpiange di non avere fatto.
Fu cancellata l’Ici sulla prima casa, ovvero una tassa “federalista” (per usare un linguaggio che non mi piace e che spero passi di moda), ma la riforma fiscale fu solo impostata e rinviata a leggi delega che non hanno poi preso corpo. Il tasto dolente della giustizia è stato battuto freneticamente, ma senza il respiro delle grandi riforme e ancora cadendo nella trappola della guerriglia. Noi segnalammo sia gli errori interni (micidiali) di leggi come lo scudo, sul processo breve o sulle intercettazioni, sia l’ancor più macroscopico errore di accettare battaglia su quelle senza darne sull’insieme di una giustizia penale da molti anni in coma. Non abbiamo mai abboccato alla polemica ottusa sulle leggi penali varate a scopo personale, abbiamo ripetutamente puntato il dito su forzature e spropositi che segnalavano vere e proprie aggressioni giudiziarie, ma abbiamo anche avvertito la terribile inutilità di trincee scavate nel nulla, a difesa di norme di rara inconsistenza e pratica inutilità. Ma parlammo a nostra volta al muro, perché gli errori del passato si riproducevano pari pari, condannando la maggioranza parlamentare e il governo a pestare l’acqua nel mortaio.
E’ vero che questo governo ha il merito, colpevolmente sottovalutato, quando non occultato, da una pubblicistica zuppa di tifoseria e a secco di senso di responsabilità, di avere contenuto la spesa pubblica, talché il nostro deficit è fra i più bassi e il nostro debito pubblico è cresciuto, dal 2008 a ieri, assai meno di quelli altrui. Ma è anche vero che questo sforzo è stato condotto senza essere capaci di riportare sotto controllo non solo i saldi della spesa pubblica, ma anche la sua composizione. Tagliare dall’alto la spesa è stato un bene, ma metterci le mani dentro, scompigliare l’equilibrio consolidato della sua improduttività, recuperare risorse per gli investimenti sarebbe stato un passo di grande significato politico e di enorme rilevanza riformatrice. E’ mancato.
Il presidente del Consiglio ha lasciato che il ministro dell’economia s’intestasse la politica economica complessiva e la garanzia internazionale sulla tenuta del debito. Anche questo è stato un considerevole errore. A noi il pettegolume non piace, né ci convince la politica letta costantemente alla luce di ambizioni e rivalità personali. C’è la forza delle cose, che è notevole. Era evidente che il tema del debito sarebbe stato centrale, anche prima che partisse la speculazione sui debiti sovrani, che è speculazione dovuta alle deficienze dell’euro, e chi non governa quel che sta al centro delle cose va a finire che passeggia sui margini.
Tutto questo ci faceva dire, già a metà del 2009, che il governo era sul binario morto dell’inoperatività. Poi è arrivata la rottura con Gianfranco Fini. Ho l’impressione che sarebbe stata comunque inevitabile, perché sospinta dall’esterno e alimentata dall’illusione che potesse avere uno sbocco politico. Fini ha mostrato la sua stoffa, dalla trama non eccelsa, ma Berlusconi ha commesso due errori di fila: il primo è stato quello di non gestire con calma la faccenda, in modo da lasciare sull’altro l’intero peso della rottura; il secondo è stato quello di accettare una conta che consegnava al governo una maggioranza parlamentare composta da deputati non eletti con il centro destra. Qui è venuta al pettine l’insanabile contraddizione: non si può essere bipolaristi e, al tempo stesso, giovarsi di norme costituzionali nate con e per il proporzionale. Avvertimmo che quella scelta avrebbe reso (politicamente, perché costituzionalmente non si discute) legittimi governi diversi da quello votato.
Ha pesato, negativamente, e non poco, la corte dei miracoli con cui si sono composti i gruppi parlamentari. La logica berlusconiana era lineare: meno personale politico possibile, in modo da potere contare sulla fedeltà. Peccato che abbia pagato il prezzo della loro insipienza e si sia ritrovato tradito dagli stessi che aveva miracolato. Ha pesato anche il modo in cui la pubblicistica non pregiudizialmente ostile ha interpretato la propria funzione: pronta ad addentare il polpaccio dell’avversario, con un ringhio continuo e talora fastidioso, incapace di dare sostanza politica e culturale a quella che era e resta la maggioranza degli elettori. Ha pesato la condotta personale di Berlusconi, che certamente rientra fra i suoi affari personali, nella quale non c’è nulla di criminale, ma che era semplicemente folle non considerare incompatibile con la funzione svolta. E’ stato un tema assai utilizzato, che mi ripugna anche solo ricordare, ma sottovalutarne gli effetti poteva essere possibile solo a patto di perdere il contatto con la realtà.
Berlusconi ha annunciato le dimissioni. Fin qui l’opposizione è stata solo capace di chiederle, senza saper proporre politiche alternative. Ora avviene per consunzione della maggioranza. Noi non abbiamo mai condiviso l’odio contro di lui, ma non abbiamo neanche rinunciato a puntare il dito verso le tante mancanze. E’ il tempo di guardare al futuro, e il suo dovere è quello di non ostacolare la nascita della terza Repubblica.
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