Un destino beffardo consegna al coma profondo due generali che nel 1973 si combatterono con vigoria sulle sabbie del Sinai: l’israeliano Ariel Sharon, in coma dal 2006 e oggi l’egiziano Hosni Mubarak. Ma quando Sharon morirà, il suo popolo, e anche i suoi non pochi avversari, lo piangeranno come un eroe. Così non sarà certo per Mubarak, che ha conosciuto la polvere del tiranno abbattuto e l’umiliazione del carcere, sì che ha palesemente cessato di voler vivere e ora, lentamente, muore. Certo è che se vi è stato nella storia un “dittatore per caso” questi è stato proprio Mubarak che si trovò letteralmente tra le mani tutto il potere sull’Egitto solo e unicamente a seguito dell’attentato del 6 ottobre 1981 in cui fu ucciso al Cairo il presidente Anwar el Sadat. Gli attentatori, infatti dimostrando di non avere buona mira, pur avendo diretto sventagliate di mitra anche contro di lui sul palco in cui assisteva ad una parata militare, fianco a fianco di Sadat, lo ferirono solo, e non gravemente. Mubarak divenne presidente e padrone dell’Egitto per caso e quasi per errore: era stato infati nominato 6 anni prima vicepresidente per una ragione sostanziale: era politicamente non debole, debolissimo, e non poteva dare la minima ombra né il minimo fastidio ad un Sadat dalla personalità di livello storico (fu lui a volare nel 1976, senza avvertire nessuno a parlare nella Knesseth di Gerusalemme e a firmare a Camp David con Menahem Begin la storica pace con Israele nel 1979). L’unico punto a suo favore era stato l’avere comandato l’Aviazione durante la guerra del Kippur del 1973. Mubarak comprese subito quello che doveva fare quando il potere gli cadde in grembo: nulla. E lo fece. Si limitò a proclamare lo stato d’emergenza (durato per 21 anni) e a continuare inerzialmente la politica di Sadat in ogni campo. Sul piano internazionale, mantenne fede agli impegni presi con Israele e continuò a garantire che l’Egitto non avrebbe mai più fatto una guerra con lo Stato Ebraico (da qui il dispiacere di Israele per la sua dipartita dal potere). Il tutto in sempre più stretto raccordo con gli Usa, che peraltro gli hanno garantito 2 miliardi di dollari l’anno di aiuti. Questo gli ha garantito all’estero una immeritata fama di “dittatore illuminato”, rafforzata dalla frenetica attività di public relations svolta sul jet set dalla moglie Suzanne (amica personale di Danielle Mitterrand e di Hillary Clinton che definì infatti Mubarak, a piazza Tharir già bagnata di sangue “un amico di famiglia”…). Quanto alla questione palestinese: unica preoccupazione sua è stata impedire il contagio di Hamas dalla striscia di Gaza all’Egitto (la chiusura del maggior numero dei valichi era operata dagli egiziani). Non per caso è così sempre fallito ogni tentativo –ad opera del suo “Jago”, Omar Suleiman, per 20 anni suo braccio destro e nel 2011 autore della congiura di Palazzo che l’ha detronizzato- persino di far fare la pace tra Abu Mazen e Hamas, prima, durante e dopo la guerra civile fratricida e sanguinaria che li ha opposti e tuttora li oppone.
Sul piano politico –questo sfugge agli analisti che definirono il suo Egitto uno Stato “laico”- in tanto continuò nella tradizione che fu di Nasser e di Sadat di perseguitare i Fratelli Musulmani, in quanto recepì sempre di più la loro agenda, le loro istanze politiche (ma non quelle sociali). Già Sadat aveva riformato nel 1980 la Costituzione stabilendo che la Sharia non era più “una” ma “l’unica” fonte di ispirazione della legislazione e Mubarak ha poi favorito una legislazione che sempre più ha modificato la legge in senso shariatico, imponendo poi alla Corte Costituzionale sentenze di interpretazione delle norme sempre più ispirate alla sharia, sì che oggi, ben poche riforme islamiste dei codici restano da fare agli islamisti, pur vinte le elezioni. La affiliazione del suo partito Pnd, alla Internazionale Socialista (spesso ribadita con orgoglio da Giuliano Amato) era dunque tanto fuori luogo, quanto grottesca. Mubarak si guardò bene soprattutto dal riformare l’economia egiziana che si basava e si basa tuttora su uno strano “condominio” tra un “capitalismo di Stato” e alcune grandi famiglie (anche di religione copta). Un “capitalismo di Stato” gestito in prima persona dai generali, che concorre per il 30-40% al Pil è prodotto da società (incluse immobiliari, agricole, telecomunicazioni, meccaniche e turistiche) di proprietà formale delle Forze Armate, dirette da generali in pensione (a 50 anni!), e in cui una grande peso hanno i proventi del Canale di Suez e il petrolio. Le grandi famiglie egiziane, formatesi dalla fine ‘800 in poi grazie al capitale sedimentato dallo sfruttamento agricolo del Delta del Nilo, (Highazi, Azzam, Tawil, Shazli, Sultan Khamis, Sawiris, Ghali ecc….), hanno continuato ad agire indisturbate, allargando semmai la loro influenza sugli spiccioli di “privatizzazioni” che, malvolentieri Mubarak ha attuato. Immobile, Mubarak, lo è stato soprattutto sul piano politico interno, là dove non ha mai permesso che si aprissero spazi di democrazia, ha sempre manipolato le elezioni –quando le convocava- e ha sempre cacciato in galera gli oppositori, laici o islamisti che fossero
Una e una sola è stata la sua mossa politica “di coraggio”, che l’ha poi consegnato alla sua triste fine: rompere platealmente l’accordo con gli Usa quando George W. Bush tentò di coinvolgerlo nella sua Freedom Agenda. Sfida frontale, che lo portò nel 2004 a disertare il G8 di Savannah in cui fu approvata la Greater Middle East Initiative, per organizzare a Alessandria un penoso convegno di “intellettuali arabi” che decretò che libertà di stampa, istruzione per tutti, diritti delle donne e democrazia politica auspicati da Bush come “estranei alla tradizione araba e islamica”. Nel 2005, per punirlo, Bush presentò al Congresso una legge per sospendere i 2 miliardi di dollari annui di aiuti Usa e Mubarak dovette allora inscenare la sua prima elezione –fasulla- per voto popolare. A seguire, nessuna riforma, inerzia, gestione autocratica del potere e intrighi per portare il figlio Gamal alla successione dinastica. Sino a quando i suoi stessi generali non l’hanno deposto e cacciato in quella galera da cui ora può fuggire solo con il coma e la morte.
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