sabato 12 ottobre 2013

L'Alitalia paradigma dell'Italia. Gianni Pardo


Pare che nell’Ottocento uno dei fondatori della paleontologia, Georges Cuvier, abbia detto che, trovato un osso preistorico, se ne sarebbe potuta dedurre l’intera struttura dell’animale. E del resto Virgilio, se pure con altro intento, diceva “ex uno disce omnes”, se ne esamini uno sai come sono tutti gli altri. In questo senso il caso dell’Alitalia spiega non solo le difficoltà delle industrie italiane ma addirittura dell’intera Italia.

Nel 2007-2008 l’Alitalia era già nei guai e Romano Prodi cercò di salvarla. Si parlava di Air France, si parlava di Lufthansa, ma poi la Lufthansa si ritirò, soprattutto vedendo l’opposizione dei sindacati italiani. E questi ultimi festeggiarono. Poco tempo dopo subentrò Berlusconi, col suo piano di non vendere ad Air France, di risanare l’Alitalia e di consegnarla ad imprenditori privati perché la facessero prosperare. Anche stavolta i sindacati festeggiarono. Ora, cinque anni dopo, abbiamo letto che sabato 12 ottobre sarebbe stato l’ultimo giorno in cui gli aerei della Compagnia avrebbero avuto il carburante per volare. Tecnicamente, una situazione di fallimento, ma in Italia vige il principio che per ciò che ha grande visibilità un rimedio va sempre trovato. Magari a spese del contribuente.

Stavolta si tratta di un aiuto delle Poste. Il ministro Lupi afferma virtuosamente che non ci saranno esborsi dell’erario, ma come credergli? Già non sappiamo chiaramente se le Poste siano dello Stato o private. E poi, se domani l’Alitalia facesse affondare anche le Poste, lo Stato lascerebbe fallire sia l’Alitalia sia le Poste? Il ministro ha anche temerariamente affermato che le Poste entreranno nell’impresa non con una mera operazione finanziaria, cioè fornendo denaro, ma come partner industriali: cioè occupandosi della gestione dell’impresa. Personalmente ricordiamo che le Poste, tempo fa, avevano come simbolo un “aeroplanino” fatto con un foglio di carta. Ciò probabilmente le qualifica per dirigere una compagnia aerea.

Si ha una ricapitalizzazione quando qualcuno versa denaro nelle casse di una S.p.A. in difficoltà e ne ottiene in cambio azioni. Ciò avviene quando la dirigenza non sa condurre un’impresa, e un altro signore, che dispone di capitali, quell’impresa si sente capace di raddrizzarla e di farla prosperare. Se invece la società è inguaribile come struttura e tecnicamente fallita, la ricapitalizzazione è un versamento improduttivo che non serve a creare nuove occasioni di guadagno ma a ripianare buchi e pagare debiti. Un versamento che prolunga di qualche mese una morte inevitabile o dà vita a un’organizzazione che opera in deficit, a spese dei contribuenti.

La storia dell’Alitalia è esemplare, in questo senso. Nel 2008, falliti i tentativi con Lufthansa ed Air France, Berlusconi indusse i cosiddetti “capitani coraggiosi” ad effettuare una corposa ricapitalizzazione, che avrebbe dovuto comportare una sostanziale ristrutturazione dell’impresa. Risultato: quegli imprenditori hanno perso un miliardo e mezzo di euro e l’Alitalia è tecnicamente fallita. Pare che l’impresa perda circa un milione e mezzo al giorno. E ciò malgrado, non è concorrenziale ed ha prezzi alti.

Visti i ripetuti insuccessi, nasce il dubbio che ci sia qualche carenza di qualità dell’imprenditorialità italiana. Ma è dubbio pressoché assurdo. Non solo fra i difetti degli italiani non v’è la stupidità, ma proprio non si vede perché dovremmo essere più incapaci di altri. Il difetto sta nelle condizioni in cui operano gli imprenditori. Da un lato lo Stato è esoso, dall’altro, con le sue leggi e la sua magistratura, dà mano libera ai sindacati. I fallimenti a ripetizione dell’Alitalia non insegnano nulla sugli imprenditori italiani, ma molto sull’Italia stessa. E se i sindacati sono sempre felici della “soluzione domestica” è perché temono che, con l’ingresso di una società straniera, i dipendenti siano costretti a lavorare sul serio, per giunta con il rischio che l’impresa, se non fa profitti, chiuda.

Il problema dell’Alitalia è la pretesa, caratteristicamente italiana, che una grande società possa indefinitamente operare in perdita. Del resto, non è esattamente ciò che ha fatto l’Italia da quando ha cominciato a gonfiare, anno dopo anno, il suo astrale debito pubblico? Come dice “Libero”, non c’è un’unica Alitalia, c’è il Sulcis, la Tirrenia, il Monte Paschi di Siena, e molte altre imprese. L’ultima è la De Tomaso (900 licenziamenti in gennaio). Attualmente, mentre si spreme il contribuente fino a creare la più impressionante recessione europea, e lo stesso il debito pubblico continua a salire, o San Gennaro fa un miracolo ben più grande del solito, oppure siamo destinati al fallimento.

Si notino le due ipotesi: o miracolo o fallimento. Non è stato citato il cambiamento di mentalità economica e sindacale perché quel miracolo va oltre le pur notevoli capacità di san Gennaro.

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