giovedì 5 settembre 2013

Lettera aperta a Silvio Berlusconi. Christian Rocca


......"Lei ha i mezzi e le capacità, ed è già riuscito a fare i miracoli con le pizze e con i fichi che le passa il convento e che si ritrova intorno. Ma allo stesso tempo, ci pensi bene: lei è soltanto una meteora. Un outsider. Un uomo politico senza eredi. Le sue idee, signor presidente, sono legate alla sua persona e alla sua fortuna. E già adesso scricchiolano ogni qualvolta un Follini o un Fini o un Casini o un Buttiglione prova a fare la faccia feroce. Quando deciderà di ritirarsi, caro presidente, non avrà nessuno a cui passare lo scettro. Non resterà niente. Non potrà restare niente. Sarà cancellato e liquidato come un’altra parentesi della storia italiana. I suoi colleghi americani, invece, non hanno avuto problemi di questo tipo: sono diventati maggioranza culturale, sociale e politica nel paese. Lo spiega mirabilmente un libro che la sua Mondadori ha appena tradotto dall’inglese, sia pure in colpevole ritardo e con un titolo così orrendo che reputo offensivo ripetere (in originale è The Right Nation).

I suoi colleghi americani, insomma, non si sono accontentati di vincere una volta o due e poi tirare a campare. Hanno provato a cambiare l’America e ci sono riusciti, al punto che la più importante delle fondazioni di cui le dicevo all’inizio, la Olin Foundation, ha appena deciso di chiudere bottega per l’esaurimento della propria ragione sociale: l’obiettivo è stato raggiunto. Il vecchio John Olin era stato chiaro con i suoi: voglio che spendiate i miei soldi entro una generazione. Detto e fatto. John e sua moglie Evelyn, mentre erano in vita, hanno sborsato 145 milioni di dollari. Dal 1982 la Fondazione ha finanziato libri, progetti, giornali, riviste, centri studi, ricerche, corsi, dottorati, borse di studio, associazioni di avvocati e club letterari per un totale di 380 milioni di dollari. I soldi di John Olin hanno finanziato la Heritage Foundation, cioè il serbatoio di idee della rivoluzione liberale reaganiana, e l’American Enterprise, il fulcro dell’attuale era bushiana.

Sono università senza studenti, templi del sapere e delle sue applicazioni pratiche. Sono fabbriche che producono pensiero. Sono la forza degli Stati Uniti. L’idea che tagliare le tasse è uno strumento per rilanciare l’economia è stata finanziata con i soldi di John Olin. E oggi nessun politico americano ha il coraggio di sostenere il contrario. Se nel 1994 l’avesse fatto anche lei, caro presidente, oggi si troverebbe con un mucchio di guai in meno. Sono stati i soldi di John Olin a creare il Centro per la Democrazia di Chicago, dove sono cresciute le menti più lucide dell’America odierna. Sono stati i soldi di John Olin a trasformare le coltissime lezioni del professor Allan Bloom e poi le tesi di Charles Murray in straordinari best seller che hanno cambiato i connotati del dibattito culturale e sociale americano. Mi chiedo, anzi le chiedo, perché non prova a fare lo stesso in Italia? Perché non tenta di rivoluzionare il nostro paese fin dalle fondamenta, specie ora che s’è accorto che da solo non ce la può fare e che nella stanza dei bottoni, i bottoni non ci sono? Perché non comincia a finanziare think tank seri, quindi diversi dai contenitori buoni soltanto per le passerelle mondane che abbiamo oggi in Italia?

Perché non finanzia con borse di studio e sovvenzioni individuali giovani ricercatori che producano papers, documenti e idee alternative a quelle che ci fornisce l’establishment intellettuale? Perché non usa una piccolissima parte del suo impero mediatico per fare la rivoluzione liberale? Si tratta certamente di un impegno generazionale, ma non crede che sia ben più utile di un orizzonte che non supera la più ravvicinata scadenza elettorale? Probabilmente rinunciare all’ennesimo Bonolis le farebbe guadagnare di meno, ma è sicuro che non ne valga la pena? Crede, per esempio, che il suo amico Murdoch, e parlo dello Squalo Murdoch, non abbia calcolato al centesimo quanto sia conveniente perdere quei milioni di dollari che perde per pubblicare un giornale influente come il Weekly Standard? Perché, ad esempio, non lancia sul mercato un newsmagazine autorevole e di alto livello come l’Economist o il New Yorker? Perché non fonda una specie di Radio Radicale televisiva che faccia servizio pubblico come si deve? Mi domando, anzi le domando, perché non apre una sezione della sua casa editrice dedicata a libri che non siano soltanto favori ad amici o barzellette su Totti o su Bush o di Michael Moore?

Ancora: le pare sensato che le sue televisioni siano le uniche del mondo occidentale a non avere uffici di corrispondenza negli Stati Uniti? Non crede che ciò possa spiegare l’esplosione di bandiere arcobaleno sulle finestre dei nostri palazzi? Le pare normale che il suo Giornale abbia inaugurato il sito Internet soltanto qualche settimana fa? Com’è possibile che nessuno dei suoi collaboratori sia corso a farsi spiegare dal gruppo di Ideazione le potenzialità della blog revolution? Io non l’ho mai votata, signor presidente. Ma le scrivo questa lettera perché credo che lei sia l’unico in grado di poter seguire l’esempio dei suoi colleghi americani e aiutare l’Italia a diventare un paese pienamente liberale, purché si ricordi che il conservatorismo americano è rivolto al futuro, visto che l’unica cosa che vuole conservare è la libertà. Con una sola frase, insomma, le chiedo di far confliggere i suoi interessi economici con i suoi interessi politici. E di far prevalere questi ultimi. Si guadagnerà la fama di statista e nel lungo termine non sarà il suo unico guadagno."


Con questa lettera aperta di Christian Rocca pubblicata da Ideazione e di cui riporto solo l'ultima parte, esattamente otto anni fa nasceva questo blog.
Inutile sottolineare l'attualità e la fondatezza di questo appello: dovrebbe essere il manifesto programmatico della nuova "Forza Italia".

In questi anni siamo stati visitati da più di 185 mila lettori e speriamo che a qualcosa sia servito il nostro lavoro di supporto ad un centrodestra che ha trovato solo in Berlusconi il portabandiera.

Personalmente mi sarei aspettato maggiore partecipazione e coinvolgimento attraverso i commenti che erano liberi e non censurati: invece i più affezionati sono stati i "compagni" che ce ne hanno dette di tutti i colori.
E' proprio per questo che postiamo di nuovo l'appello di Rocca: oltre ad una classe dirigente che manca nel centrodestra anche gli elettori ed i simpatizzanti non partecipano più di tanto al dibattito politico. E' un peccato perché gli spazi che non occupiamo noi vengono subito conquistati dagli avversari che non mollano più la presa.

Facciamo, quindi, circolare le nostre idee, prendiamoci i nostri spazi, non vergogniamoci di essere di centrodestra e/o berlusconiani, abbiamo il coraggio di uscire allo scoperto e di smascherare una sinistra che assieme alla grande delusione grillina, non ha idee, progetti e programmi se non quello di far fuori il Cav.

Ringrazio tutti coloro che in questi anni ci hanno seguito e spero che la platea si allarghi perché la nostra sopravvivenza dipende anche da noi.

martedì 3 settembre 2013

Il garantismo da Pannella a Violante. Paolo Pillitteri

03 settembre 2013
Sembrerà strano, ma c'è un filo che ricuce antiche avversità e inimicizie, vecchi odi e implacabili differenze. Parlo di Violante, dell'ultimo Violante, e parlo di Pannella, non l'ultimo ma quello di sempre. L'occasione è offerta dalla svolta referendaria del “Cav-meglio tardi che mai” (ma il tempo perso è un vero delitto) e dell'incrociarsi di uno spirito garantista che, vibrante e mai sopito nello spirito liberale e radicale in Marco, era omesso se non bandito nella logica politica della carriera di Violante, il non mai dimenticato ex Pm che, per dirla con Don Baget Bozzo, aveva mandato in galera la resistenza anticomunista (Edgardo Sogno) e offerto la testa di Andreotti "mafioso" alle amorevoli cure del Procura di Palermo.
 
Storie vecchie, si sa, ma storie vere, anzi,"la storia", quella scritta dalla sinistra: perché in Italia, e soltanto in Italia, la storia è stata narrata dalla sinistra che ne ha assunto la missione e il metodo, già dai tempi della Liberazione e grazie all'imponente massa di intellettuali sparsi nei gangli vitali del paese, dall'editoria, alla scuola, al cinema alla cultura. E non è così casuale che un certo retaggio di quella sinistra egemone sia confluita nelle scelte dei 4 senatori a vita, indiscutibilmente non di destra e ciò non per colpa della sinistra ma, appunto, della destra che, riprendendo l'antico vezzo democristiano, non si è mai occupata del cosiddetto culturame appaltandolo alla gauche, esattamente come ha fatto Forza Italia, sedicente Partito Liberale di Massa, già dal 1994, salvo qualche sprazzo, ben presto spento.
 
Il lamento del centro destra di oggi sui senatori voluti dal Quirinale dovrebbe essere l'occasione per un mea culpa,per le indifferenti e superficiali omissioni colpevoli di questi venti anni. A trovarla, infatti, una personalità culturale, scientifica, artistica, di livello internazionale a destra. E allora, di cosa stiamo parlando? Certo, il laticlavio lo meritava soprattutto Marco Pannella, ed è stata un'occasione mancata. Ma Marco non è certamente di destra. Ma tant'è. Il nuovo Violante, dicevamo, quello contestato dai suoi compagni per il "nuovo" atteggiamento garantista sul Cav, riprende, per certi versi, ciò che era una costante dell'antica sinistra, ovvero il garantismo, le amnistie, la giustizia giusta.
 
Temi travolti e sepolti dall'irruzione di "mani pulite" col suo carico di giustizialismo mirato che annientò tutti i partiti all'infuori di quello di Violante. "Et pour cause",si direbbe, anche perché il salvataggio dell'ex Pci offriva bensì una sponda politica alla mitica inchiesta ma faceva dei magistrati i lord protettori di un neo partito dei giudici con cui distruggere prima il Caf e, poi, il Cav, inopinatamente vittorioso sulla manettara gioiosa macchina da guerra.
 
Ma ciò che doveva essere il banco di prova, prima di FI e poi del Pdl, ovvero la riforma della giustizia, è stata ridotta a inutili e dannosi interventi con ministri balbettanti e programmi che col riformismo avevano ben poco a che fare. Contestualmente aumentava in questi venti anni la cosiddetta persecuzione antiCav in un crescendo di intercettazioni,violazioni dell'habeas corpus, indagini a tappeto, processi, fino alla Cassazione fatale. E cresceva, anche,il Partito dei Giudici, autonomizzato, che si sottraeva, mano a mano alla guida politica del partito che pure li aveva promossi. I Di Pietro, i De Magistris, gli Ingroia sono sfuggiti alla amorevoli cure, si sono messi in proprio, sono diventati una cosa "altra" finendo in rotta di collisione contro lo stesso Violante, soprattutto con l'Ingroia che aveva intercettato Napolitano onde portarlo alla sbarra palermitana insieme alla créme della mafia di oggi.
 
Carino, vero? Una sorta di golpe bloccato dalla fermezza del Quirinale e della Suprema Corte ma, nel contempo, la spia di una impressionante escalation giudiziaria che soltanto il popolo italiano ha interrotto alle elezioni, bocciando Di Pietro e Ingroia. Con l'avvento del supermanettaro e sfascistoide Grillo che ne ha preso il testimone in chiave se possibile ancora più antipdmenoelle. Il cerchio ventennale si è dunque chiuso sul Grillo cannibalizzante la sinistra e sul Cav sull'orlo dei servizi sociali,un esito dell'antipolitica in chiave giustizialista che, di fatto, rischia di catapultare più in là, nel populismo demagogico, lo stesso Pd in costante fibrillazione congressuale, il partito di Violante. Giacché un Senato tradotto in plotone d'esecuzione sarebbe un ulteriore gradino nell'escalation, una rivincita dell'ex partito dei giudici, un'onda anomala sul Quirinale che ha voluto questo assetto di larghe intese. Un salto nel buio.
 
Non so se Violante ha riflettuto sui mostri creati dal giustizialismo, sugli alieni che hanno contaminato la nostra vita politica. Può darsi. Ma questo Violante che non teme le contestazioni quando pretende anche per il Cav il diritto alla difesa, non è più quello di prima. Quam mutatus ab illo! (l'Opinione)

La nuova Forza Italia e il ruolo dell'Opinione. Arturo Diaconale

03 settembre 2013
La decisione di Silvio Berlusconi di sottoscrivere tutti i referendum radicali costituisce una indicazione estremamente significativa sull'ispirazione di fondo della prossima rinascita di Forza Italia. La stessa motivazione data dal Cavaliere alla scelta di firmare anche i referendum non condivisi, cioè la volontà di sottoporre comunque agli italiani il giudizio su questioni contrastate, conferma che la cultura a cui dovrà necessariamente rifarsi il nuovo soggetto politico destinato a sostituire il vecchio Pdl dovrà essere quella liberale, riformatrice ed innovatrice della Forza Italia delle origini.

Naturalmente, proprio perché il nuovo partito non dovrà avere una vocazione minoritaria ma puntare a rappresentare il maggior numero degli italiani ( l'obbiettivo di ogni forza politica di vocazione governativa è sempre quello di conquistare la maggioranza dei voti), l'ispirazione liberale, riformatrice ed innovatrice dovrà necessariamente convivere con quella solidale espressa dal mondo cattolico affrancato dalla sudditanza intellettuale al post-marxismo. Ed insieme i portatori dei valori della libertà, dell'innovazione riformatrice e della solidarietà dovranno indirizzare le loro istanze verso l'obbiettivo unificatore del rilancio dell'identità e della sovranita nazionale intese come presupposti indispensabili per la realizzazione dell'unità politica dell'Europa.

Il percorso ideale indicato da Berlusconi è dunque segnato. Rimane quello pratico. Che per essere portato avanti in maniera positiva deve necessariamente prendere atto della necessità che la struttura ed il vertice del nuovo partito siano rappresentativi non solo di falchi e colombe, di governativisti ed antigovernativisti per collocazione contingente, di ciellini inquadrati, di post-democristiani più o meno organizzati e di post-laici come sempre sparpagliati e votati all'individualismo e, naturalmente, di gente senza identità ma di salda vocazione al potere per il potere. Il nuovo partito, in altri termini, non potrà rappresentare solo gli interessi dei gruppi più o meno organizzati ma dovrà necessariamente essere rappresentativo dei valori che vorrà portare avanti.

Il problema, ovviamente, non è di quote. Tanto meno di rappresentatività di correnti. Il problema è di idee, che debbono essere espresse da personaggi sicuramente portatori delle idee stesse ed in grado di rappresentarle adeguatamente. In un partito tradizionale la selezione del gruppo dirigente passa attraverso lo scontro tra le fazioni. In un partito carismatico il naturale confronto-scontro tra i gruppi viene mediato e regolato dal leader carismativo a cui tutti fanno riferimento.

Il compito di formare una nuova squadra per la nuova Forza Italia spetta dunque a Silvio Berlusconi. Che, però, ha bisogno anche di sapere se accanto ai collaboratori della vecchia guardia divisa nelle diverse categorie sopra indicate esiste anche gente nuova capace di allargare la rappresentatività del partito nella società italiana. L'Opinione e la sua Comunità s'impegnano ad organizzare i laici, i liberali, i riformatori insieme con i riformisti del volontariato solidale! (l'Opinione)

Un altro anno buttato. Davide Giacalone

Ci avviamo a un altro anno scolastico sprecato. Altro tempo buttato fra le ginocchia dei nostri ragazzi, che dovranno correre competendo con giovani di ogni altra parte del mondo. Ai figli diciamo: studiate, impegnatevi, il successo è divertente e la nullafacenza deprimente. Ma a noi stessi ricordiamo: la scuola in cui li mandiamo è un reperto archeologico, senza la benché minima attenzione alla qualità. Una fregatura.

A sentire il ministero e a leggere le cronache sembra che alla scuola italiana manchino gli insegnanti. Invece ce ne sono troppi. Sono previste 44mila immissioni in ruolo nei prossimi tre anni. Più di 11mila solo quest’anno. Eppure gli studenti sono 7.862.470, gli insegnanti in organico 625.878, i posti di sostegno 97.636 e i dirigenti scolastici 1.584. Sia per la scuola primaria, che per la secondaria che per la secondaria superiore il numero di alunni per insegnante è costantemente inferiore alla media dell’Unione europea. Detto al contrario: abbiamo più insegnanti degli altri per ciascun alunno. Ma se interrogate non le statistiche, bensì le esperienze di amici e conoscenti sembra, invece, che i docenti scarseggino. Com’è possibile? Semplice: con un’organizzazione scolastica demenziale. La stanno cambiando? No, stanno assumendo. A quel punto la maggiore spesa pubblica andrà a consolidare e foraggiare la disfunzione organizzativa. E’ la regola che andrebbe scolpita sugli edifici governativi: di soldi non ce ne sono pochi, se ne spendono troppi.

Come li assumiamo? Durante il governo Monti si riconvocarono i concorsi, con la solita coda retorica e moralista secondo cui il governo dei politici aveva fatto clientele e quello dei professori, invece, avrebbe badato alla qualità. Il risultato è terrificante: i vincitori di concorso sono più numerosi dei posti messi a disposizione, ma la metà di quelli sarà occupato da precari, perché così ha stabilito il governo successore del Monti, che non teme concorrenti in quanto a retorica mendace. La metà rimanente, del resto, verrà assegnata solo in parte ai vincitori, perché la burocrazia è stata lenta e si è già fuori tempo. Niente paura, però, perché coloro che saranno assunti nel 2014-2015 vedranno partire la loro anzianità dal 2013. Altri soldi e tempo buttati.

Qualità e controlli, manco a parlarne. Negli Stati Uniti hanno stabilito che gli insegnanti verranno giudicati, e quindi pagati, in ragione dei risultati incrementali dei loro alunni. In Italia assistiamo alla sconcezza dei test Invalsi boicottati dagli stessi che dovrebbero curarne lo svolgimento.

Poi c’è lo scandalo dei testi digitali, di anno in anno rinviati al successivo. Perché al ministero la lobby degli stampatori è forte assai. Una schifezza assoluta. Nel Paese in cui le famiglie, con minori, dotate di computer arrivano all’84%; e quelle che hanno anche accesso a internet al 79%; in cui il 52% dei bimbi ha già usato il computer a 3 anni; e il 32, entro i 6 anni, lo usa tutti i giorni; nel mondo in cui tutti usano il digitale, dov’è l’oasi d’arretratezza analogica? Nella scuola. Dovrebbe essere l’opposto: una piattaforma avanzata, capace di dare vantaggi digitali ai ragazzi. E sarebbe possibilissimo, da oggi, da subito: con minore spesa per lo Stato e minore spesa per le famiglie si cancella il salasso dei libri di testo (che si chiamano “libri”, ma non sono libri) e si passa al mondo digitale. Invece restiamo inchiodati al passato disfunzionale, danneggiando l’interesse dei giovani, per assecondare quelli della spesa inutile e ignorante.

A fronte di tutto ciò i risultati della scuola italiana sono migliori delle premesse, perché ci sono insegnanti che fanno con il cuore e con il cervello il loro mestiere e studenti svegli che sanno apprendere. I primi saranno pagati come i parassiti e i secondi giudicati come gli ignoranti. Il tutto a spese di una collettività che continua a pagare assunzioni laddove si dovrebbero fare licenziamenti. A nessuno di questi guasti s’è neanche cominciato a porre rimedio, mentre il governo, come quelli di prima, rinvia, assume, galleggia inutilmente. Un altro anno buttato via.

Pubblicato da Libero

lunedì 2 settembre 2013

Campagna Imu. Davide Giacalone

La campagna dell’Imu rischia di diventare un po’ come la campagna di Russia: più vai avanti e conquisti terreno più accresci la distanza fra l’esercito e la sua stessa salvezza. In “Guerra e Pace” Tolstoj descrive una campagna vittoriosa, con i fantaccini napoleonici che, a Mosca, riempiono i loro zaini d’argenteria, che poi peserà nel tragitto di ritorno, non li sfamerà, né li difenderà dal gelo. Il centro destra, che punta molto sulla vittoria di questa campagna, deve tenere presente il ragionevole scetticismo di chi osserva: nel 1992 nacque l’Isi, dove la “s” stava per “straordinaria”; fu soppressa, ma nacque l’Ici; fu soppressa, ma nacque l’Imu. Ogni volta che si sopprimeva un’imposta e se ne metteva una nuova i soldi da pagare crescevano. Ora si sopprime l’Imu, ma non solo i conti non tornano, non solo siamo già alle smentite di quanto ufficialmente annunciato, ma la sensazione di un film già visto è assai forte e la “service tax” rischia di essere del genere horror.

A cominciare dal fatto che Isi, Ici e Imu avevano in comune la “i”, che sta per “imposta”. E tali erano, patrimoniali: un prelievo di ricchezza calcolato in ragione della proprietà, misurata in metri quadrati. La “tax”, sebbene all’inglese, sarebbe una tassa, quindi, così s’insegna, il corrispettivo di un servizio reso. Però nessuno ci ha detto come diamine si calcola, accatastando affermazioni fumose sull’unica cosa chiara: varranno i metri quadrati. Ma allora è anche quella una patrimoniale, come, del resto, lo è la tassa per la spazzatura, perché non è affatto commisurata a un servizio che mi viene reso, ma a una mia presunta capacità produttiva (di mondezza), calcolata mediante un parametro che con quella capacità non ha nulla a che vedere. Sarebbe come vendere la benzina a un prezzo variabile a seconda della cilindrata. Follia. Il film dell’orrore, quindi, comincia con la corruzione del vocabolario e della cultura tributaria. Ma questo è solo il primo urlo.

Il fatto è che, per ammissione degli stessi che a cotale accordo giunsero, è vero che s’è preso l’impegno di non far pagare la seconda rata sulla prima casa (avendo già sospeso e poi soppresso la prima rata), ma non si ha idea di come compensare il mancato gettito. Se ne riparla alla legge di stabilità. Quindi: per trovare l’accordo su una cosa banale e marginale, ma di alto valore simbolico, c’è voluto il tempo dalla nascita del governo alla fine di agosto, e per trovare la copertura siamo rimandati a ottobre. Difficile non vedere una tattica alla Kutuzov, il generale russo che fece a pezzi Napoleone: lasciare che il nemico avanzi e regalargli terreno per fargli perdere tempo. Quando se ne accorgerà non saprà più sottrarsi alla trappola. Che farà il Pdl a novembre, quando non dovesse trovarsi la copertura e si mettessero altre tasse? Diranno che non ci stanno? Vedo sui loro volti l’espressione gioiosa e infelice di quelli che zavorravano lo zaino con metalli preziosi: li accuseranno di agire per ripicca, trovandosi con il leader agli arresti; daranno loro degli irresponsabili, perché se il governo casca torna la seconda rata Imu; li avvertiranno che approvare la legge di stabilità è emergenza di salvezza nazionale, altrimenti ci commissariano (cosa non esclusa neanche se la approvano); notificheranno loro che, comunque, non si va a elezioni, perché i tempi portano troppo sotto altri impegni internazionali. Perdere tempo, campare di rinvii, serve solo a chi predilige la sopravvivenza senza vita. Meglio chiedere che coperture e dettagli siano definiti subito, come era lecito attendersi e come sarebbe ovvio.

Infine: non ho nulla contro le imposte patrimoniali, che svolgono un ruolo importante, ma se si tassa più il patrimonio immobiliare di quello finanziario è segno che si ritiene i tassati abbiano da parte molti liquidi, così drenabili. Cosa irreale e pericolosa, perché impedire il risparmio significa mettere sabbia in uno dei meccanismi virtuosi che ancora funzionano. E se è vero che l’Italia ha una pressione fiscale intollerabile sulla produzione e il lavoro, sicché può essere saggio spostarne una parte sul patrimonio, si deve anche tenere presente che ove ciò accada senza diminuire di un pelo il prelievo su redditi e profitti il risultato sarà opposto al mitico “botte piena e moglie ubriaca”, ritrovandosi nell’orrido “botte sfondata e moglie alterata”.

A me fa piacere che ci si diverta dicendo di avere vinto, sostenendo che la prova di ciò sta nell’animo triste di chi avrebbe perso. Ma occhio alla furbizia democristiana e non si creda che gli altri siano allocchi. Si rischia di trovarsi allo specchio.

Pubblicato da Libero

Il carisma non si trova con la primarie. Francesco Alberoni

Perché è così difficile sostituire Berlusconi, trovare uno che, in caso di impedimento, prenda il suo posto a capo del Pdl e di Forza Italia? Perché prima di lui non esistevano né Forza Italia né il Pdl. Lui e il suo movimento sono nati insieme e continuano ad avere un'identità comune. I suoi elettori hanno con lui un rapporto personale di fiducia, di attaccamento. È un fenomeno che avviene sempre nei cosiddetti «partiti personali», cioè, in termini sociologici, nei movimenti collettivi che hanno un capo carismatico.

Quindi non solo in Forza Italia con Berlusconi, ma anche nella Lega con Bossi e nei Cinque stelle con Grillo.

In Italia, dopo la scomparsa dei partiti storici Dc, Psi, Psdi, Pri, e Msi - è rimasto un solo partito di apparato, il Pds, poiché conservava l'impronta del partito comunista che è sempre stato concepito come «Il Partito», superiore a qualsiasi suo membro.

Invece, nei partiti nati da un movimento, l'adesione al partito passa attraverso il rapporto emotivo col capo. Ed è un legame simile all'innamoramento: l'elettore può essere deluso, amareggiato, sdegnato, rifiutarsi di votare, astenersi, votare per rabbia un altro partito, ma è difficile che si innamori di un altro leader.

I rapporti affettivi col capo carismatico di solito durano a lungo. In Francia, anche dopo la morte a Sant'Elena, metà dei francesi continuava ad avere nostalgia di Napoleone.

Pensate al culto che c'è ancora oggi per Lenin, Fidel Castro, Che Guevara. E conta poco anche l'assenza fisica. Nelson Mandela fu imprigionato per 27 anni dal 1963 al 1990 ma i suoi continuarono a battersi al grido di «Mandela libero».

I leader carismatici non vengono designati o eletti. Emergono dai movimenti di cui sono ad un tempo gli artefici e il prodotto e il carisma è quasi una qualità fisica, corporea, che non si trasmette designando qualcuno. A volte è più facile che si trasmetta in via ereditaria, come nelle monarchie. Nel caso di Berlusconi nonostante il bunga-bunga, la condanna e forse domani la prigione, è estremamente probabile che il capo carismatico resti lui. (il Giornale)

sabato 31 agosto 2013

Una vecchia storia. Angelo Libranti

 

 
Le vacanze estive, per chi ha un eremo in cui rifugiarsi, rappresentano un’ottima occasione per riassumere la propria vita attraverso testimonianze quali lettere, documenti, libri, giornali, oggetti, raccolti e conservati a futura memoria.
Fra un piatto di sagne e fagioli ed una visita al monastero di San Benedetto, c’è abbastanza tempo per rileggere vecchie riviste, fra le quali ha colpito la mia attenzione un numero de “Gli oratori del giorno” del 1962, con un articolo di Titta Madìa riguardante “L’indipendenza della magistratura”, argomento di urgente attualità. L’autore, tra le altre osservazioni, scrive: “Facile è eccepire l’assurdo di processi dibattuti e risolti sui giornali, giornali di parte dove spesso il recente giudice improvvisato è un antico istigatore complice; se anche si voglia prescindere da questa solidarietà faziosa, è evidente che al giudizio del pubblico manchino gli integrali elementi di conoscenza, oltre che l’altezza professionale, la tecnica quotidiana e la superiore responsabilità del magistrato”.
Sembra uno scritto di oggi, invece sono passati cinquantuno anni. Invano.
In quel tempo non c’era ancora “Magistratura democratica” ma restava evidente il retaggio del Guardasigilli Togliatti, che dette un’impronta “interessata” alla giustizia italiana.
I tempi maturarono fin quanto certi giudici si tolsero la maschera e fondarono “Magistratura democratica”, scrivendo, operando e giudicando secondo il proprio punto di vista politico.
Non a caso il manifesto di presentazione dell’associazione, a Bologna il 4 Luglio 1964, pubblicato su “La Magistratura” del Sett.Ott. 1964, tra gli altri proponimenti, recita nelle Finalità immediate e mediate:”Tali aspettative si concretano nella richiesta ognora più pressante di rottura delle strutture istituzionali ereditate da un lontano e tragico passato e nella esigenza di instaurare la nuova tavola di valori scaturita dalla Resistenza e consacrata nella Costituzione”. Prosegue nelle direttive programmatiche:
”Il Movimento vuole evitare ogni superficiale improvvisazione e ogni generica formulazione di principio per aprire il più largo dibattito sugli obbiettivi stessi, non solo all’interno, ma anche all’esterno dell’Associazione e a tutti i livelli. Proprio in armonia con queste esigenze di approfondimento, la presente mozione si limita a tracciare soltanto le grandi linee della futura riforma, quali sono state trasfuse nella Carta costituzionale. Tenendo presente che l’esegesi di quest’ultima non deve mai prescindere da quel significato politico cui abbiamo ancorati i fondamenti ideologici del movimento, e al di fuori del quale le strutture giuridiche volute dal Costituente perdono qualsivoglia valore, soggiacendo la loro attuazione alla valutazione discrezionale della forza politica dominante”.
Ed ancora, fra tante elucubrazioni di tipo prettamente politico:“Ne discende la necessità della più ampia e profonda democratizzazione dell’esercizio della funzione, affinché la sovranità popolare sia posta sempre in grado di esercitare il suo controllo, e affinché si impedisca al magistrato di sentirsi avulso dal corpo sociale, chiuso nella torre eburnea di un esclusivo tecnicismo, o, peggio ancora, posto al di sopra del corpo sociale stesso.”
Come si nota non vengono citate norme di diritto, di doveri e di applicazione dei codici, previsti dal Potere Legislativo.
Allora non ci si deve meravigliare se il World Economic Forum, nel comunicato del 27 marzo 2013, pone l’Italia al 19° posto sui 27 Stati dell’Unione Europea come credibilità della Magistratura nell’emettere sentenze rispettando l’imparzialità secondo le regole del Paese. (the Front Page)

Perché pacificazione. Piero Ostellino


Il Foglio - L’obbligatorietà dell’azione penale genera mostri; il più colossale, e vergognoso, dei quali – che ha, di fatto, trasformato la nostra Repubblica in una Repubblichetta delle banane nelle mani di caudilli in toga – è la distinzione, che una parte della magistratura fa, quando apre un fascicolo su qualcuno, fra “chi non sapeva”, che è ontologicamente non colpevole (innocente in se stesso), e chi “non poteva non sapere”, che è teoricamente colpevole (per deduzione accusatoria). E’ con la (legittima) autonomia e indipendenza di cui giustamente gode – ma anche, diciamolo, con discrezionalità e arbitrarietà spesso extra legem e contro ogni senso comune – di propendere per l’una o per l’altra delle due interpretazioni che essa tiene sotto permanente ricatto chiunque ed esercita il suo dominio sul paese. La politica, a sua volta, per viltà e quieto vivere, ha abdicato alle proprie funzioni.

D’altra parte, non saremmo il paese che siamo se la parte della magistratura politicamente radicale e impegnata non godesse di certe complicità fra gli stessi soggetti ricattabili. Diciamola, allora, tutta. Tangentopoli e Mani pulite non sono state (solo) l’auspicabile lavacro di un paese allora devastato dalla diffusa corruzione, ma (anche, e soprattutto), al riparo della legalità, un golpe, il sovvertimento di ogni ordine costituzionale, legale e politico razionale. Il “controllo di legalità”, che qualcuno, adesso, vorrebbe addirittura assegnare alla magistratura inquirente, è il modo col quale ogni regime illiberale tiene sotto il proprio tallone la propria popolazione e sovrintende ad ogni zona grigia nei comportamenti regolati dalla moralità individuale e da principi etici universalmente riconosciuti nei paesi di più matura democrazia liberale. Il controllo di legalità sarebbe l’ultimo passo verso il totalitarismo di un cammino già da tempo in corso.

Come ha scritto Guido Carli, un ex presidente della Confindustria (!), nelle sue memorie,il mondo degli affari aveva compensato l’ingresso dell’Italia nella Comunità europea, e l’apertura del suo mercato alla concorrenza esterna, con la complicità col mondo della politica e la diffusione della corruzione; di fatto, le tangenti avevano cancellato il mercato interno e ogni possibilità di corretta concorrenza. Con Tangentopoli e Mani pulite, la magistratura aveva cercato di fare piazza pulita del malcostume imperante ma – per le ambizioni politiche, o la vanità, di alcuni dei suoi stessi esponenti – ne era stata, a sua volta, coinvolta e politicamente inquinata. Non c’era alcun uomo d’affari che, per la natura stessa delle sue attività, non avesse qualcosa da nascondere al principio di legalità. Chiunque, perciò, avrebbe potuto finire nella rete di Mani pulite e potrebbe ancora cadere sotto la mannaia del “non poteva non sapere”. Dipendeva (dipende) unicamente dall’obbligatorietà dell’azione penale e dal conseguente incontrollato potere discrezionale, leggi arbitrarietà, di cui la magistratura disponeva e dispone. Né ne era esente alcun partito politico, come avrebbe detto Bettino Craxi in un memorabile discorso alla Camera nel 1993. Ma nessuno gli aveva dato retta; Dc e Pci avevano pensato di potersene tenere fuori e di guadagnarci persino in reputazione e voti; Craxi sarebbe morto in esilio, cui l’aveva condannato l’accusa, peraltro da lui stesso confessata in Parlamento (!), che “non poteva non sapere”; il Partito socialista, con tutti gli altri, era stato spazzato via a vantaggio di uno solo, il Pci, che avrebbe cambiato nome per la bisogna e per opportunismo, ma non avrebbe mai vinto le elezioni, né riflettuto su se stesso e la propria storia.

Nacque, così, tacitamente una sorta di pactum sceleris fra il mondo dell’informazione – di proprietà di quello degli affari non sempre esente da qualche peccato, piccolo o grande che fosse – e la parte della magistratura interessata a sovvertire gli equilibri politici esistenti e a portare al governo il Partito comunista che ne era rimasto fuori per i suoi rapporti con l’Unione sovietica dalla quale aveva ricevuto sostegno finanziario, peraltro senza che a nessun magistrato fosse mai venuto neppure in mente di aprire un relativo fascicolo sul caso. “Voi – dissero i media a magistrati ormai più interessati a cogliere e a mettere a frutto la portata sovvertitrice dell’alleanza che veniva loro proposta e ad accrescere il proprio potere che ad amministrare la giustizia – tenete fuori da Mani pulite i nostri editori e noi vi aiutiamo a mettere le mani, e a far fuori, i loro concorrenti e ad attribuire tutta la responsabilità della corruzione alla politica; fidatevi, sosterremo la vostra azione”. Fu ciò che puntualmente avvenne.

Dietro la parvenza di un’informazione “civile”, e legalitaria, si consumò la condanna dello stato di diritto, si realizzò la trasformazione dell’Italia in un paese nelle mani di una magistratura inquirente e di un sistema informativo che ignoravano l’Habeas corpus e istruivano processi e comminavano condanne sulle pagine dei giornali prima che a farlo fossero i tribunali. I giornalisti che si occupavano di vicende giudiziarie diventarono il megafono delle procure e, dalla santificazione di un uomo ambiguo come Antonio Di Pietro, acquistarono, a loro volta, un potere di pressione nei confronti dei loro stessi direttori. La cui permanenza al proprio posto, da quel momento, sarebbe dipesa dal grado del loro rispetto del pactum sceleris e dallo spazio dato a scandali e ruberie senza, però, che se ne spiegassero le ragioni intrinseche alla estensione dei poteri pubblici, come, in realtà, era. Spuntarono i direttori di professione, uomini d’ordine – che passavano, indipendentemente dalla loro linea politica, da una testata all’altra, come i questori passano da una città all’altra col compito di evitare disordini – per i quali la linea editoriale era quella fissata dal pactum sceleris.

Il giornalismo entrò in coma e, poco per volta, morì per carenza di pensiero; forse, per la natura dei rapporti di produzione capitalistici, direbbe Marx, non era mai stato libero e indipendente come qualche anima candida aveva preteso fosse; ma, almeno, fino a quel momento, aveva conservato una accettabile funzione informatrice e, in se stessa, liberatoria e una parvenza di dignità rispetto a quello dei paesi di socialismo reale. Di questo ha via via assunto la funzione, invece di darle, di nascondere ai lettori le informazioni e le idee non gradite al regime, mantenendoli in uno stato di permanente ignoranza e soggezione. Ad esso sta progressivamente assomigliando sempre più, senza che nessuno, né editori, né giornalisti mostri di accorgersene e di preoccuparsi. E, poi, si dice – senza aggiungere a quali, ad evitare anche solo di alludere al pactum sceleris – che gli italiani sarebbero incapaci di mantenere fede ai patti.

Senatori a morte. Davide Giacalone


Non m’indigna che i quattro nuovi senatori a vita siano riconducibili all’area della sinistra. Non so neanche se sia vero, visto che tutti loro si sono distinti per meriti che nulla hanno a che vedere con la politica, o anche solo con il dibattito pubblico e la vita collettiva. In ogni caso non è rilevante, perché la storia della seconda Repubblica (quella della prima è un’altra storia) dimostra, come nel caso del governo Prodi, che o sono utili alla sinistra o sono inutili. Essere utili alla sinistra non è né un male, né un disvalore, ma è un dato politico di cui solo gli ipocriti possono non tenere conto.

Non m’indigna che ne siano stati nominati quattro in un colpo solo. Assumendo così il solo significato che i meritevoli, in Italia, possono essere tutto, tranne che persone politicamente impegnate. Il che poi, forse, ha pure un fondamento. Fino alla presidenza di Sandro Pertini la regola era: cinque senatori a vita nel Senato. Pertini innovò: cinque senatori a vita per ciascun presidente. Amen.

Non m’indigna che Giorgio Napolitano non abbia voluto nominare, prima delle elezioni anticipate, o subito dopo la sua rielezione, Silvio Berlusconi e Romano Prodi, vale a dire i due soli vincitori elettorali della seconda Repubblica. Entrambe, poi, incapaci di tradurre quelle vittorie in effettiva attività di governo. Sarebbe stato un modo per chiudere un capitolo della nostra storia e prevenire problemi che era facilissimo prevedere che sarebbero arrivati. Non m’indigna perché queste sono scelte che ricadono nella esclusiva potestà (ma non responsabilità, perché la Costituzione non fa eccezioni, e il Colle è irresponsabile) del presidente della Repubblica. Ha valutato diversamente. Amen.

Né, infine, m’indigna che il seggio di senatore a vita sia oramai diventato una specie di cavalierato lautamente retribuito, perché, in effetti, da molto tempo quelle nomine hanno perso il senso e il valore che i Costituenti immaginavano. Anziché animarsi per questa o quella nomina ritengo che, quando un giorno si metterà finalmente mano alla profonda riscrittura della Costituzione, quel genere di nomine vada semplicemente e risolutivamente cancellato.

M’indigna, invece, la nomina di Claudio Abbado. Lo dico con franchezza e rispetto. Si tratta di un grande direttore d’orchestra (preferisco Riccardo Muti, ma questi son gusti, benché temo che nella scelta quirinalizia abbia pesato poco la musica e molto l’intonazione culturale). Si tratta anche di un cittadino italiano che ha manifestato ammirazione e condivisione per la feroce dittatura cubana, nemica delle libertà individuali, politiche, culturali e artistiche. E non vedo come possa essere compatibile la presenza in Senato (non frutto di elezione, perché in quel caso anche i sostenitori d’ideologie dispotiche, e ce ne sono, a destra come a sinistra, hanno comunque dovuto accettare il sistema democratico e il libero voto popolare), per meriti repubblicani, di chi ha in così poco conto la libertà. E la libertà viene prima di ogni altra cosa, anche della convenienza e della prudenza, che suggerirebbero di non scrivere queste cose.

Nel mio cuore c’è Reinaldo Arenas. Grande poeta e scrittore cubano. Discriminato e avviato al gelido lager tropicale perché uomo libero e omosessuale. Fuggito, approdato negli Stati Uniti, un giorno si trovò a un ricevimento, con banchetto: uno dei presenti, con il piatto in mano, magnificava il castrismo, sicché Arenas gli tolse il piatto e lo scaraventò contro al muro: faccia la fame e taccia, come noi cubani. La sua autobiografia s’intitola: “Prima che faccia notte”. Racconta che era costretto a scrivere nascosto su un albero, prima del buio. Se le sue pagine finivano nelle mani degli squadristi castristi venivano distrutte. Con questa nomina s’è fatta notte. In Italia.

Pubblicato da Il Tempo

venerdì 30 agosto 2013

Lista Berlusconi


Se fossi in Silvio Berlusconi più che della ineleggibilità, mi preoccuperei degli eventuali arresti domiciliari.

Essere ristretto a casa propria comporta certamente molti vantaggi rispetto alla detenzione in carcere, ma non bisogna dimenticare che non si può uscire di casa (sarebbe evasione), non è possibile comunicare con l'esterno né per telefono, né tramite web, è vietato ricevere estranei in casa e ci si può relazionare solo con familiari conviventi.

Per il Cav. sarebbe un anno di morte civile!

Sarà bene che, assieme ai suoi avvocati, trovi una soluzione al problema: forse l'affidamento ai servizi sociali offre qualche spiraglio di libertà in più.

Per le eventuali elezioni credo non ci siano problemi, anche se risultasse incandidabile.
Gli elettori gli hanno sempre dato fiducia e, se proprio non volesse rinunciare al nome, potrebbe promuovere una Lista Berlusconi, composta da candidati selezionatissimi, come ha fatto Pannella a suo tempo: sono certo che i voti non mancheranno, soprattutto da parte di coloro che considerano un sopruso l'esclusione di Berlusconi dalle elezioni.

I suoi detrattori potranno fiaccare l'uomo, ma non potranno mai più cancellare il messaggio che Silvio Berlusconi è riuscito a diffondere: l'amore per la libertà, il rispetto della persona ed il primato del singolo sullo Stato.

Forza Silvio!

giovedì 29 agosto 2013

Pannella, volta a destra!


Ho già firmato tutti i 12 referendum radicali anche se per alcuni devo ancora fare mente locale: mi importa che possano essere votati, con un sì o con un no, oppure con l'astensione.
E' doveroso che si apra un dibattito e si possano sentire le opinioni di tutti.

I quesiti sono ben riassunti nell'articolo che segue:
http://www.linkiesta.it/testo-referendum-radicali

Mi auguro che tanti elettori vadano nei Comuni a firmare per raggiungere il numero necessario di firme da depositare in Cassazione.
Vorrei, però, fare anche una riflessione che spero i radicali prendano in considerazione: i compagni del Pd latitano e fanno orecchie da mercante, mentre il Pdl si è speso per la riuscita della raccolta firme e non è escluso che Berlusconi stesso firmi i quesiti.

I radicali hanno guadagnato voti e consensi solo quando sono stati alleati del centrodestra: l'otto per cento alle europee del '99 con Emma Bonino, è una vetta inarrivata per i seguaci di Pannella.

Personalmente ritengo che i radicali abbiano più affinità con i moderati del centrodestra che non con la sinistra che li ha sempre usati. A sinistra si tengono stretti i voti e non faranno mai un atto di generosità votando candidati alleati che hanno idee e progetti in sintonia ma migliori dei loro.
A sinistra interessa solo il potere: il bene del Paese non è compreso nel programma.

Speriamo che Pannella abbia il coraggio di riportare i suoi nell'area liberale che è il brodo di coltura dei radicali.


martedì 27 agosto 2013

Perché credo in Berlusconi


E' un self made man. Ha dimostrato di essere un imprenditore di successo con intuizioni lungimiranti.

Non ha bisogno di vivere con la politica, è ricco di suo.
Ha dimostrato da subito di scendere in campo per fermare l'avanzata comunista e non per salvare le sue aziende: avrebbe potuto mediare con il potere. Infatti è difficile trovare imprenditori che non siano arrivati a compromessi con la politica pur di salvarsi dal dissesto o per avere finanziamenti agevolati da banche sottomesse alla regola che favorisce gli amici degli amici.

Si è inimicato mezza Italia che sperava nella vittoria tirandosi addosso le maledizioni, e non solo, di una sinistra vogliosa di governare ad un passo dall'agognato potere ( anche se con il consociativismo si era abituata ad esercitarlo seppure sotto forma di ricatto).

Una sinistra priva di idee, chiusa in se stessa, dominata da burocrati attaccati al potere, impreparata e spocchiosa ha trovato l'antiberlusconismo come sostituto dell'antifascismo che, dopo cinquant'anni, era diventato stantio.

Comodo e facile lasciar perdere il fascismo e passare all'attacco di un quasi sconosciuto imprenditore che ha l'ardire di presentarsi alle elezioni e di vincerle.
Il potere è "cosa loro": l'intruso deve essere abbattuto con qualsiasi mezzo.

La parobola, non ancora discendente, di Silvio Berlusconi va letta in quest'ottica.

Il mosaico che compone i suoi vent'anni di politica ha una serie di tessere che, solo partendo dal presupposto che quest'uomo sia sincero ed abbia sempre detto la verità, possono incastrarsi alla perfezione.
Il comportamento di Berlusconi ha una sua logica solo partendo dal presupposto che il suo scopo fosse il bene dell'Italia: se avesse agito per puro interesse personale la sua condotta sarebbe stata incoerente, per usare un eufemismo.
Se avesse voluto si sarebbe potuto ritirare quando e come voleva e le persecuzioni sarebbero finite: per quale scopo rimanere a prenderle?
Le sue aziende sono più in pericolo ora o quando è sceso in campo?

Basta una lettura in buona fede della biografia di Silvio Berlusconi per capire che è un perseguitato

Democrazia arrestata. Davide Giacalone


Può la magistratura emettere provvedimenti che abbiano l’effetto di modificare i risultati elettorali e impedire a chi è stato eletto di adempiere ai propri doveri e far valere i propri diritti? No, non sto parlando della solita persona, del caso di cui tutti discettano. Di questo si occupano in pochini e la grande politica lo snobba. Sbagliando, di molto. Perché per chi ha a cuore le sorti dell’altro caso, quello arcinoto e arcidibattuto, sarebbe saggio indicare che la faccenda non è limitata e le degenerazioni assai pericolose. Per chi, all’opposto, antipatizza verso il celeberrimo condannato, ma non ha perso la testa e non sbava latrando, sarebbe utile dimostrare sensibilità laddove a finire in ceppi è la democrazia. E’ il caso di Luigi Villani: consigliere regionale in Emilia Romagna e, in assenza di alcuna sentenza, senza che mai si sia visto un processo, su richiesta della procura e con l’avallo del giudice per l’indagine preliminare, ha perso il diritto di onorare i doveri che ha contratto con gli elettori. Follia, allo stato puro. Si tratta di un consigliere del Pdl. Se stessimo ragionando fra persone civili la cosa sarebbe del tutto irrilevante: potrebbe essere del Pd, grillino o dipietrista, non cambierebbe niente. Ma nell’Italia faziosa vale solo la divisione per bande. Lo dico da sbandato.

Si tratta di un cittadino che la Costituzione ci obbliga a considerare innocente. Ma se dovesse dimostrarsi colpevole anche questo è irrilevante, perché ciò seguirebbe un (si spera regolare) processo, mentre qui la pena lo precede. Ora spalanchiamo la finestra sull’orrore.

Indagando su casi di peculato la procura chiede e ottiene provvedimenti di custodia cautelare. Già su questo ci sarebbe, e non poco, da ridire: il codice prevede tale misura, estrema e devastante, per reati che comportino rischi collettivi, mica per ogni cosa (c’è scritto, non è una mia fantasia), e in quanto all’inquinamento delle prove e alla fuga ci devono essere pericoli concreti, non la mera ipotesi (di per sé sempre presente, quindi insignificante). Ma le leggi sono declamazioni inutili, se chi le applica se la suona e se la canta. La prassi della custodia cautelare ha devastato diritto, diritti e civiltà. Oltre che troppe vite. Comunque: il consigliere non è accusato di peculato, bensì di concorso (detta facile: avrebbe raccomandato una persona), e va agli arresti domiciliari.

In quel momento l’Assemblea regionale, applicando la legge, provvede alla sua sospensione, che durerà fin quando durerà la misura cautelare. Del resto, stando agli arresti è difficile che prenda parte all’Assemblea. Lo tengono privo di libertà per cinque mesi, ottenendo meno di nulla, perché quello continua a dichiararsi innocente del reato contestato, ma colpevole non di una, bensì di numerose raccomandazioni. Che, però, non sono reato. Dopo cinque mesate gli arresti cadono, quindi potrebbe tornare a fare il consigliere. Invece no, perché la procura chiede e ottiene, aprite le orecchie, che all’indagato sia interdetto l’ingresso nella città di Bologna, dove il Consiglio regionale ha sede. Non deve andarci, perché se ci mette piede “consolida” i suoi legami e le sue amicizie politiche.

E qui fermiamoci un attimo. Il ragionamento della misura cautelare presuppone una delle due possibilità: a. la politica è per definizione un’associazione a delinquere; b. la giustizia è in mano agli eversori. Nel primo caso è finita la democrazia, nel secondo lo stato di diritto. Essendo opzionale la richiesta delle misure cautelari, sicché a certuni si applicano e ad altri no, non è escluso che siano finiti entrambe.

Ecco, questo è il caso di un eletto cui non una sentenza, non un processo, ma una mera misura cautelare impedisce di fare il consigliere regionale. Il problema, però, non è lui (è un chirurgo e ha già fatto richiesta di tornare a fare il suo mestiere), non i suoi diritti, ma i diritti di noi tutti. L’offesa è arrecata non alla sua persona, ma alla collettività. Chi di questo non si dice scandalizzato, pur conservando il diritto di non condividere neanche una delle cose che quel signore pensa, dice o fa, è già democraticamente morto. A me è sfuggito cosa, sul tema, hanno detto i capipartito di questa maggioranza, come anche dell’opposizione. Non i parlamentari locali (che pure tacciono), ma i capi. Solitamente loquaci oltre i limiti della logorrea. Chiariscano subito, oggi stesso, cosa pensano di questo caso, possibilmente senza biascicare minchionerie del tipo “la giustizia faccia il suo corso”, perché qui se ne vede l’opposto, vale a dire il sopruso. Parlino, così, almeno, da quel che diranno e da quel che non diranno, ciascuno capirà di che pasta son fatti.

Pubblicato da Libero

Siria ed Egitto come la Libia: islamisti campioni di inganni. Gian Micalessin

I Fratelli musulmani hanno costruito notizie toccanti per spingere l'Occidente a (disastrosi) interventi

La fiducia è una cosa seria. Riservata alle persone serie. Il rischio in Siria è, invece, di schierarci con chi si fa beffe della nostra fiducia, della nostra buona fede e della nostra disponibilità alla compassione. Tutti temi in cui la Fratellanza musulmana, artefice della ribellione, ha una consolidata tradizione.
Dalla Fratellanza musulmana nasce Hamas, l'organizzazione maestra nell'innescare le rappresaglie israeliane e moltiplicarne poi il numero delle vittime. Alla Fratellanza erano legati i militanti di Bengasi trasformati in protetti della Nato grazie alle «bufale» di Al Jazeera.
Alla Fratellanza appartengono i militanti egiziani pronti a piangere centinaia di «fratelli» caduti, ma anche a ospitare nei propri cortei - come documentano le foto esclusive de Il Giornale - gli armati chiamati a sparare sui militari e a innescarne la reazione.
E Fratelli musulmani sono quei rivoltosi siriani puntualissimi nel denunciare un attacco con i gas perfettamente «sincronizzato» con l'arrivo a Damasco degli ispettori Onu chiamati ad indagare sulle armi chimiche.

Hamas e le resurrezioni
di Jenin e Gaza

Nell'aprile 2002 quattro militanti di Hamas portano a spalla una barella con un cadavere coperto da una bandiera dell'organizzazione nata da una costola della Fratellanza Musulmana. Siamo a Jenin, la città dove per dieci giorni Israele ha stretto d'assedio i militanti palestinesi. D'improvviso i quattro inciampano e barella e «defunto» franano a terra. A rialzarsi però non sono, come documentano le riprese di un drone israeliano, solo i quattro barellieri, ma anche il «cadavere» prontissimo a risaltare nella lettiga. La mesta processione precipita nuovamente nel grottesco quando i quattro tornano ad inciampare e il «morto» torna a «rialzarsi» terrorizzando un gruppo di civili convinti di aver davanti uno zombie. La farsa inscenata da Hamas per moltiplicare i 54 caduti palestinesi dell'assedio di Jenin si ripete negli anni a venire. L'ultima rappresentazione va in scena a Gaza nel novembre 2012. Anche lì una presunta vittima delle bombe israeliane, un uomo in giacca beige e maglietta nera trascinato dai soccorritori, riprende vita al termine delle immagini destinate alla Bbc. Poi si rialza, si guarda attorno e soddisfatto s'allontana.

Le finte fossi comuni
di Al Jazeera in Libia

In Libia nel 2011 i video e le immagini fornite dai ribelli ad Al Jazeera e Al Arabya spingono le opinioni pubbliche occidentali ad appoggiare la richiesta di una «no fly zone» santificata dal voto dell'Onu e realizzata dalla Nato. I falsi storici con cui l'emittente del Qatar prepara il terreno a un intervento militare «indispensabile» per fermare i «massacri» di Gheddafi sono due. Il primo nel febbraio 2011 documenta un presunto intervento dei Mig del Colonnello scesi in picchiata nelle strade della capitale per mitragliare i dimostranti. La notizia è palesemente falsa, ma l'Occidente se la beve come un caffelatte a colazione. Così, subito dopo, si ritrova servite le immagini di un cimitero spacciato per fossa comune in cui verrebbero sepolti gli oppositori uccisi dalle milizie governative. Non è vero niente, ma intanto il Colonnello diventa un mostro sanguinario. Un mostro da eliminare con l'aiuto di un Occidente obbligato a difendere i più deboli e chiamato ad instaurare libertà e democrazia.

Egitto, i cortei armati
dei Fratelli Musulmani

Queste foto, parte di un dossier esclusivo fornito a Il Giornale, dimostrano come la reazione dell'esercito sia stata innescata dai militanti di Hamas armati di pistole e kalashnikov. I militanti mascherati vengono mandati a sparare contro le postazioni dei militari dopo essersi mescolati ai cortei di protesta della Fratellanza Musulmana. Gli uomini armati utilizzano i dimostranti come scudo innescando la reazione dei militari che causerà centinaia di vittime. La presenza dei militanti armati cambia la dinamica di un massacro attribuito al cinismo di una cricca di generali pronta a tutto pur di costringere alla resa i sostenitori del deposto presidente Morsi.

Siria, il gas stermina i bimbi
e risparmia i soccorritori

Le immagini di Ghouta, la località dove il governo avrebbe usato i gas sono devastanti dal punto di vista emozionale, ma assai ambigue dal punto di vista documentale. La contraddizione più evidente è la mancanza di protezioni da parte dei presunti sanitari arrivati a soccorrere le vittime. L'altra è la sistematica plateale teatralità con cui i bambini deceduti vengono allineati davanti agli obbiettivi. Ad Halabja nel marzo 1988 i gas di Saddam non fecero distinzione tra vittime e soccorritori e sterminarono chiunque non si fosse allontanato. A Ghouta nessuno fugge, non c'è un clima di panico e gli ospedali continuano a funzionare. L'impressione è di un attacco circostanziato e molto limitato. E questo fa sorgere due grossi interrogativi. Perché Assad avrebbe atteso due anni e mezzo prima di usare i gas salvo poi impiegarli sotto gli occhi degli osservatori dell'Onu? E soprattutto perché incominciare da una zona dove il regime non è militarmente in difficoltà e dove non viene sfruttato il vantaggio tattico offerto dall'arma chimica per riconquistare il territorio e nascondere le prove? (il Giornale)

Macché superscontrini. E' la legge del mercato. Nicola Porro

Va di moda pubblicare sul web i conti di aperitivi in posti esclusivi e raccogliere l’indignazione popolare. È il segno di una società che vuole farsi guidare dall'alto


Prima è arrivato lo scontrino da 100 euro del caffè Lavena, in piazza San Marco a Venezia. Poi l’acqua minerale alla Zagara di Positano. E ieri la ricevuta da 120 euro per quattro succhi di frutta al Phi beach in Sardegna.
 
Tutti a stracciarsi le vesti per il costo esorbitante della consumazione. È un pieno di indignati su Twitter e su Facebook, i due popolari confes­sionali elettronici, e poi giù arti­coli moralistici sui giornaloni. Un caffè non può costare dieci euro, e un succo venti. E così an­dando. Fino a qualche lustro fa aveva­mo l’equo canone. Perché non stabilire per legge l’equo drink o il caffè solidale?

Sulla vicenda ci si potrebbe scherzare su. Ma è più seria e ri­guarda la nostra ignoranza sul funzionamento dei mercati: qualcuno forse pensa che i prez­zi ( come un tempo i salari) deb­bano essere una variabile indi­pendente. Non vogliamo fare troppa filosofia, ma abbiate la pazienza di seguire ancora per un po’ il ragionamento. Tutti e tre gli scontrini di cui parliamo hanno caratteristiche simili. Sono battuti da locali piut­tosto rinomati. E i prezzi consi­derati ex post scandalosi erano esposti. Entrano così in gioco i due principi fondamentali di una società libera.
1. Il prezzo è un’informazio­ne, oltre che l’incrocio tra la do­manda (di acqua o caffè) e l’of­ferta. Quando l’informazione ci dice che un caffè costa dieci eu­ro, mentre il suo prezzo cosid­detto normale sarebbe di un eu­ro, ci dice che per particolari mo­tivi vi è un effetto rarità. O troppe persone lo vogliono acquistare o pochi commercianti sono in grado di somministrarlo. Il prez­zo è lo strumento migliore fino a oggi inventato per raccontare sinteticamente cosa stia succe­dendo su un mercato. L’alterna­tiva è che «qualcun altro» fissi il prezzo. Ma a quel punto ne di­scende che tutti i fattori di produ­zione, come ad esempio la loca­zione del bar, il tipo di prodotti venduti, la remunerazione dei camerieri debbono essere stabi­liti da questo «qualcun altro».Ec­co perché è fondamentale che un mercato sia competitivo: sol­tanto l’esistenza di altri luoghi in cui è possibile comprare il caf­fè o sedersi a un tavolino è garan­zia di buon funzionamento del mercato. Ma direte voi, se tutti i bar di piazza san Marco (visto che il luogo è quello) si mettono insieme per tirare su i prezzi, il nostro ragionamento non vale più un acca. Si forma un cartel­lo. Ecco perché diventa fonda­mentale il secondo aspetto del nostro ragionamento.
2. I maggiorenni che hanno comprato caffè a Venezia, ac­qua a Positano e succhi di frutta in Sardegna possono votare, sti­pulare un contratto, fare un fi­glio, abortire, divorziare, aprire un’impresa,assumere persona­le e comprarsi anche una pisto­la. Ma per quale ragione non sia­no i­n grado di stabilire la loro mi­gliore convenienza su come spendere i loro quattrini qualcu­no ce lo deve spiegare. Insom­ma non si vede per quale motivo economico e sociale si debbano tutelare questi signori dal loro er­rore ( se tale si giudica) posto che hanno a disposizione, in tutti e tre i casi, milioni di comporta­me­nti alternativi e più economi­ci da tenere ( la concorrenza esi­steva eccome): tipo prendere il caffè al banco, portarsi l’acqua da fuori,scegliere un’altra locali­tà per il proprio svago e via di­scorrendo.
Il punto fondamentale è che ci stiamo abituando a rivendica­re una molteplicità dei diritti (anche il caffè a prezzo calmiera­to) senza neanche supporre che prima c’è un dovere all’informa­zione e pretendiamo poi di esse­re deresponsabilizzati nelle no­stre scelte. L’abbiamo buttata giù un po’ dura,per soli tre scon­trini, ma temiamo che sia il ter­mometro di una società che chiede, forse inconsapevolmen­te, di essere sempre meno libe­ra. O più banalmente pretende che lo Stato sani i suoi errori. (il Giornale)

domenica 25 agosto 2013

Guerra al Monopoly. Machete

 



Il ridicolo è un grande patrimonio nazionale e qualcuno dovrà pure prendere il posto di Berlusconi. A sorpresa ci prova un gruppo di deputati renziani (?) con una lettera di severa protesta, niente popò di meno che all’ambasciatore americano a Roma. Contro che cosa ? Gli F35 ? Contro le violazioni della privacy da parte della National Security Agency? No: contro la nuova versione del Monopoly! Che, secondo notizie di intelligence (si fa per dire) dei nostri “contraddicendo la chiave etica della amministrazione Obama”, prevede la sostituzione di immobili con pacchetti di azioni! Il che rappresenta una minaccia gravissima ed un cedimento inammissibile ai falchi della speculazione finanziaria! Che “non permetteremo”. Nella versione (sempre del Monopoly) che piaceva ai magnifici 7, era specificato invece che l’acquisto, che so,di Vicolo Largo e Parco della Vittoria avveniva con regolari rogiti notarili..come in tutto il mondo?! Vi si potevano infatti costruire immobili e alberghi in tutta tranquillità chiedendo pedaggi in dollaroni a chi vi transitasse. Vuoi mettere?

Inoltre, lamentano i parlamentari, c’era la prigione! Dove è finita la prigione in cui si finiva , più o meno come da noi, pescando una carta a dadi tra Probabilità e Imprevisti. Perché rinunciare proprio alla prigione? È evidente, lamentano, la contraddizione della nuova versione del gioco della Hasbro con la legge americana severissima contro gli speculatori. Quella di prima era certamente una versione più educativa e meno minacciosa per chi il seggio parlamentare deve averlo vinto a “Scemopoly”, gioco nostrano derivato dalle cosiddette parlamentarie del PD nelle quali bastava pescare la carta “sono sempre stato con…Renzi o con Bersani”, “imbertare” il voto di tanti che credono ad una rivoluzione, poi magari mettersi d’accordo con qualche camarilla locale per diventare rappresentanti del popolo senza preferenze, e con la partecipazione più bassa della storia.. fino a che Letta non ci separi. Sempre meglio che discutere delle regole del Congresso PD.

Ora aspettiamo di sapere se i nostri coraggiosi, illustreranno la determinazione internazionale del Parlamento con la abolizione di tutti gli sport e giochi da combattimento dal pugilato alla scherma fino alla morra cinese, per la eliminazione dei War Games da tutte le piattaforme e per il rilancio della educativa “palla prigioniera”, anche on line. Vale la pena anche porsi il problema di riformare il Risiko rottamando almeno l’Alberta e la Kamchatka, rivedere radicalmente Cluedo (se ancora ci gioca qualcuno), nonché di scrivere una lettera alle Nazioni Unite contro i rischi che comporta per la lotta contro l’obesità l’icona negativa di Peppa Pig! Peggio di così…     (the FrontPage)

Il pericolo è che vincano i manettari. Giuliano Ferrara

Da Mauro a Travaglio a Zagrebelsky c'è chi vuole la galera per Berlusconi. Eppure anche a sinistra in molti non chiedono lo scalpo del Cavaliere



Nella coscienza pubblica c'è un'Italia diversa da quella dei republicones, i militanti dell'antiberlusconismo indignato, e dei manettari duri e puri. Solo che fino a ora non ha avuto una voce, o la sua voce è risultata timida.

Faccio qualche nome. Il professor Giovanni Orsina, cattolico liberale, docente, non sarà contento se la mannaia cadrà sulla testa del reo di frode fiscale, cioè il maggiore contribuente italiano condannato in via definitiva da un giudice che si chiama Esposito e non brilla a quanto pare per impersonalità e imparzialità, se stiamo a certe testimonianze vernacolari dei suoi commensali. La sua teoria è che Berlusconi è combattuto con assurdo accanimento perché la sinistra e le caste non elette non sopportano l'Italia che egli rappresenta, più ancora che lui.
Piero Ostellino, liberale da una vita, ha avuto tanto coraggio civile da unirsi a noi del Foglio quando facemmo del nostro essere restati in mutande, nudi di fronte alla furia vendicatrice della Boccassini, una bandiera contro i violatori della privacy e i banditori della caccia alle streghe, figuriamoci una soluzione finale contro il centrodestra guidata dalla sentenza Esposito. Non può piacergli.

Angelo Panebianco spiega da anni le sue ragioni, da gran signore: i magistrati hanno assunto un prepotere che fa di loro, in modo illiberale, gli arbitri e i signori della politica. Non va bene. Sergio Romano e Antonio Polito, o Pierluigi Battista e qualche altro, ragionano di politica e giustizia in modo diverso dai manettari semplici e da quelli di risulta, non la dicono né la scrivono come Mauro, Zagrebelsky, Travaglio. Nessuno di loro, che la pensano ciascuno a suo modo sui rimedi possibili, sottoscriverebbe la cinica sciocchezza dei republicones: la sentenza è legale e dunque legittima, non c'è ombra di sospetto su un eventuale fumus persecutionis, non c'è problema se non quello di applicare il dispositivo integralmente, possibilmente mandando Berlusconi in galera per espiare la sua colpa di diritto comune.

Anche Mario Monti, senatore a vita ed ex presidente del Consiglio, non ha mai partecipato alla festa della forca intorno a Berlusconi. Luciano Violante da anni dubita che il controllo di legalità, inteso come prepotere della magistratura sulla politica, sia una buona soluzione per la Repubblica. La sinistra è piena di testimoni, da Renzi a De Gregori, del fatto che vincere con lo scalpo giudiziario di Berlusconi in mano è fonte di imbarazzo, non di gloria. Lo stesso capo dello Stato può essere criticato per non aver fatto abbastanza di quanto era ed è nei suoi poteri, ma non di aver operato nella direzione del giustizialismo manettaro, via, siamo seri.

I nomi che ho fatto sono nomi che a diverso titolo contano. Hanno influenza in molti ambienti, sono credibili in Parlamento, nelle redazioni dei giornali e delle televisioni, fra i facitori di opinione. Perché hanno più appeal giochini verbali violenti e retorici del partito degli indignati permanenti? Perché le tifoserie prevalgono su un pubblico civilizzato, disponibile a ragionare, che pure avrebbe in molti di coloro che ho menzionato una rappresentanza non banale? Credo dipenda dal fatto che Repubblica e il suo gruppo fanno in modo appena dissimulato una guerra civile permanente, trasformano in mostri i nemici, in opportunisti e traditori coloro che alla mostrificazione sono riluttanti, agitano bandiere ideologiche capaci di sostituire, per interessi di gruppo e golosità di copie e di glamour mondano, l'insulto al dialogo («servi!», «venduti!») e una bande déssinée, un fumetto, al racconto delle cose e delle idee. In poche parole: mettono paura, minacciano ostracismo, e in questo sono campioni. È un guaio. Se prevalesse questa Italia indignata e pasticciona, che finge eleganza morale ma esercita solo un pietoso snobismo, non solo la giustizia e la politica ne risentirebbero. È tutto un clima di civiltà, di pluralismo e di buona educazione istituzionale che sarebbe dissolto nella fog of war, nella nebbiosa e opaca luce di una guerra senza significato e onore. (il Giornale)

giovedì 22 agosto 2013

Così Berlusconi smaschererà i giudici. Paolo Guzzanti

L'ex premier spiegherà agli italiani tutte le falle del processo Mediaset e l'assurdità della condanna: ecco cosa dirà

Che dirà agli italiani Silvio Berlusconi all'inizio di settembre? Tutti si arrovellano, molti si chiedono, altri ipotizzano e quanto a me, ho formato il numero di telefono di Arcore e ho avuto fortuna: mi ha risposto dopo un paio di minuti. Quella che segue non è un'intervista, ma quel che resta di una conversazione durata otto minuti e 43 secondi, tanti quanti ne ha contati il mio cellulare.

Che cosa farà dunque l'ex presidente del Consiglio? Se ho capito bene, sta preparando una vera lezione di storia.
 
Certo, sarà la sua storia, ma nessuno può negare che la sua storia coincida con una parte della storia collettiva del nostro Paese.

Berlusconi traccerà dunque la storia del suo processo e spiegherà ciò che a suo parere documenta la sua innocenza e l'ingiustizia subíta. Spiegherà che cosa avrebbero potuto dire i testimoni che la sua difesa aveva chiesto di udire, ma che sono stati rifiutati dalla Corte. Sosterrà l'assurdità di una condanna penale per un reato fiscale su una vicenda ancora aperta in sede di ricorso per dire ai suoi ascoltatori ed elettori (prima o poi, si dovrà pur andare a votare) di essere stato vittima di un'antica e ben oliata trappola giudiziaria per farlo fuori.

Mi ha però particolarmente colpito quel che Berlusconi ha detto a proposito della magistratura. La sua tesi è che il problema non è tanto quello di un'entità astratta (potere? ordine?) come la magistratura, ma di quella specifica parte dei magistrati che fa capo alla corrente politica chiamata Magistratura democratica.

Così, mentre ascoltavo mi è venuto un flash: rivedevo me stesso negli anni Sessanta e Settanta, quando ero psiuppino (da Psiup, Partito socialista di unità proletaria) cioè parecchio più a sinistra del Pci, e cominciai a seguire le vicende e le parole dei primi magistrati di sinistra - chi ricorda più i «pretori d'assalto»? - i loro congressi, le pubblicazioni, i dibattiti.

Non ne mancavo uno e li trovavo straordinari: vi si diceva, su una vasta scala di tonalità, che in Italia c'è un deficit di democrazia che sarebbe stato colmato soltanto quando la sinistra, allora comunista, sarebbe andata al potere.

I magistrati di quella corrente che diventò «Emmedì» (Magistratura democratica, appunto) non facevano mistero della loro missione politica mentre indossavano la toga e dicevano tutti più o meno così: «Noi, in quanto operatori della giustizia, dobbiamo fare tutto quanto in nostro potere per bloccare qualsiasi persona o partito che possa ostacolare l'avanzata della sinistra». A me, allora che avevo quarant'anni meno di oggi, sembravano propositi meravigliosi, rivoluzionari e «in linea» con la nostra linea di allora.

Non ce ne fregava assolutamente niente - politicamente parlando - di che cosa fosse vero e che cosa fosse falso, di chi fosse buono e di chi fosse cattivo, purché la linea andasse avanti. Eravamo tutti, allora, «sdraiati sulla linea». Non avevamo, noi giovani rivoluzionari e i giovani magistrati di allora, nulla di liberale: la parola «libertà» la trovavamo utile per le lapidi e le canzoni partigiane che cantavamo a squarciagola, perché venivamo da una scuola di pensiero - comune a tutti i comunisti, ma anche a tutti i fascisti e nazionalsocialisti del secolo scorso - secondo cui l'unica cosa che importa è la presa del potere, possibilmente per vie legali e democratiche (ma senza rinunciare ad altre opzioni che la Storia nella sua generosità può metterti a disposizione) sapendo che questa presa del potere, come ogni parto difficile, ha bisogno di bravi ginecologi, talvolta del forcipe e anche della lama del bisturi.

«La rivoluzione non è un pranzo di gala» disse Lenin a Bertrand Russell orripilato per le esecuzioni di massa a Mosca, e neanche la giustizia deve essere tanto ossessionata dalle buone maniere, o semplicemente dall'idea «borghese» del giudice terzo, indipendente, sereno, che appende con il cappotto anche le sue idee sull'attaccapanni.

Qualcosa di analogo avveniva in psichiatria. Ero molto amico di Franco Basaglia, padre della psichiatria democratica, che quando era a Roma veniva spesso a prendere un caffè da me. Basaglia mi spiegava con entusiasmo rivoluzionario che non esiste la malattia mentale, ma soltanto la malattia generata dalla classe borghese che con le sue contraddizioni e violenze crea la malattia, schizofrenia e paranoia. Dunque, mi diceva, il disturbo andava trattato come una questione politica: «Non si tratta soltanto di chiudere i manicomi - chiariva - ma di far esplodere il nucleo sorgente della borghesia stessa, ovvero la famiglia borghese». Ne seguì una legge di riforma psichiatrica che ha seguito quelle direttive: i manicomi sono stati chiusi, ma la sofferenza psichiatrica è stata spostata sulla famiglia incriminata con il bel risultato di far accatastare negli anni più di diecimila morti per violenze psichiatriche, come documentò l'indimenticato psicanalista liberale e libertario Luigi De Marchi in un convegno che promovemmo insieme in Senato anni orsono.

È sintomatico come due cardini regolatori della stabilità sociale come la psichiatria e la giustizia siano stati mossi dallo stesso impulso ideologico e negli stessi anni. E che da allora seguitino a diffondere le conseguenze di quella distorsione ideologica.

Ma torniamo alla chiacchierata con Berlusconi. Quando mi ha riportato alla memoria storica di Emmedì per averne letto - mi ha detto - centinaia di documenti antichi e recentissimi - mi sono suonati parecchi campanelli. Ho ricordato che quando io stesso mi sentivo dalla loro parte mi rendevo conto che non avessero come primo scopo l'esercizio di una giustizia indipendente, tale da garantire ogni cittadino a prescindere dalle sue idee.

Volevano, al contrario, garantire la vittoria di chi stava sul carro della presa del potere e procurare la sconfitta di chiunque fossa dalla parte opposta e ostacolasse la sinistra. La fedina penale di Berlusconi diventò subito nerissima appena sfidò «la gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e la ridusse in frantumi. Partirono subito raffiche di avvisi di garanzia che mi ricordavano i killer di Al Capone che, quando andavano a far fuori qualcuno, prima di tirare il grilletto ci tenevano a precisare: «Nothing personal: it's just business». Nulla di personale, è solo una questione di affari, e facevano fuoco.

Anche con Berlusconi, e non soltanto con lui molti magistrati sembrano comportarsi come se fossero animati da quell'antico modo di intendere la giustizia. E così quando il Cavaliere mi ha detto che si era messo a studiare i dossier di tutte le dichiarazioni politiche dei magistrati di Emmedì raccolte negli ultimi anni, ho capito perfettamente a che cosa si riferiva.

Spesso si leggono delle espressioni sarcastiche sulla questione delle «toghe rosse», come se si trattasse di una tipica panzana berlusconiana, del tutto inventata. Penso che siano sarcasmi difensivi. Penso anche - calendario e fatti alla mano - che la magistratura avesse fin dal 1980, almeno, tutti gli elementi per scatenare una campagna moralizzatrice sulle ruberie della politica, sulla commistione tra affari e politica, come io documentai con la storica e fortunata intervista a Franco Evangelisti passata alla storia delle cronache come «A' Fra' che te serve».

La risposta della magistratura fu il silenzio di tomba. Il sistema di approvvigionamento dei partiti, Pci in testa, andava allora benissimo anche a quella parte della magistratura democratica che soltanto quando partì la parola d'ordine di decapitare la prima Repubblica, scattò gridando allo scandalo, alla necessità di fare pulizia, di castigare e demolire. Prima, neanche un fiato.

L'operazione Mani pulite annunciò con le trombe e i tamburi la scoperta dell'acqua calda, annunciando che i partiti prendevano il pizzo dagli imprenditori e il Pci, in barba al codice penale e alla Costituzione, lo prendeva dall'Urss. Anzi, il reato commesso dal Pci, che importava capitali in nero su cui non pagava una lira di tasse - a proposito di evasione fiscale! - veniva usato come alibi: poiché i comunisti prendono soldi dai russi, noi per pareggiare il conto li andiamo a prelevare dalle tasche degli imprenditori.

La magistratura inquirente usò senza risparmio la detenzione preventiva come forma di tortura che condusse molti al suicidio (penso a Gabriele Cagliari che si ficca in testa un sacchetto di plastica e muore in cella e a Raul Gardini che si ficca una pallottola nella tempia dopo essersi fatto una lunga doccia purificatrice) e tutte le suggestioni mediatiche che indussero gli italiani a credere davvero che la corruzione a favore dei partiti fosse nata con il Psi di Craxi e con la Dc di Andreotti e Forlani.

Mentre la memoria mi riportava a quei vecchi fatti - ma come mai il libro The Italian Guillotine di Peter Burnett e Luca Mantovano non è stato mai tradotto in italiano? - Berlusconi sosteneva che è veramente un caso straordinario in Italia che un uomo sia condannato a una pena detentiva per una supposta evasione fiscale per una cifra ancora sottoposta a vari ricorsi.

E riflettevo: è vero. Ditemi voi, dica qualcuno più informato di me, quanti imprenditori, evasori, uomini politici e no, sono finiti in galera per evasione. La memoria non mi soccorre. La Guardia di finanza ha appena accertato che 5mila evasori totali, ora identificati, hanno sottratto al fisco ben 17 miliardi di euro «a spese dei contribuenti onesti». Non ricordo di aver letto che una processione di cellulari li abbia trasferiti in galera. Eppure, 17 miliardi sottratti sono più del doppio dei miliardi di ricchezza che le aziende di Berlusconi hanno versato nelle casse dello Stato. Ma Berlusconi è stato condannato alla galera per una supposta evasione dell'1,2 per cento delle sue imposte. Bah, sarà tutto vero, ma non c'è qualcosa che non quadra?

Per la cronaca, Berlusconi mi ha confermato che non chiederà la grazia, non chiederà i servizi sociali, non chiederà i domiciliari, non chiederà nulla: c'è in ballo un enorme problema politico e a quello deve pensare chi ha gli strumenti per farlo, dice. Penso alluda al presidente della Repubblica, ma non l'ha detto. Ci siamo salutati e mi sembrava tutt'altro che depresso e rassegnato. (il Giornale)

martedì 20 agosto 2013

Severino law. Davide Giacalone

Abbiamo un problema di giustizia, che latita, ritarda, si nega. Abbiamo un problema di magistratura, afflitta da corporativismo e divismo, autoreferente e irresponsabile. Ma abbiamo anche un problema di leggi, scritte male, votate senza neanche leggerle, compitate per la gran parte da burocrazie ministeriali a loro volta affollate di magistrati. Prendete la legge Severino, che disciplina la decadenza di un parlamentare condannato, quella su cui può infrangersi il governo: neanche hanno finito di votarla che s’apre il festival delle interpretazioni, non escludendo la possibilità che sia incostituzionale o contraria alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma quando quella legge (madre) era in discussione, quando il governo Monti sollecitò il voto della propria maggioranza sulle norme intitolate all’anticorruzione, noi qui scrivemmo che erano sbagliate, contraddittorie e pericolose. Sostenemmo che nella loro applicazione sarebbero sorti problemi irrisolvibili. Parole al vento. Sicché una prima cosa vorrei dirla ai parlamentari che oggi inorridiscono: abbiate orrore della vostra superficialità. Fate tesoro della vostra incapacità, anche perché vi apprestate a votare altre norme demenziali e controproducenti, con la stessa giuliva faciloneria che vi portò a votare la legge che ora v’accorgete essere abominevole.

Detto questo, ribadito che prima di votare potrebbero leggere, sottolineato che se non capiscono quel che leggono potrebbero anche andare via, per decoro proprio e collettivo, veniamo al merito della faccenda. Ebbene: supporre che un parlamentare, che in questo caso è anche un capo politico, possa essere destinato alla detenzione, sebbene domiciliare, quale esito di una sentenza penale, ma possa, al tempo stesso, restare parlamentare, in questo modo supponendo di potere continuare la propria attività, è troppo idiota per essere oggetto di discussione. Che, infatti, è del tutto diverso: dopo avere votato la soppressione dell’autorizzazione a procedere, dopo che il “Parlamento degli inquisiti” (epoca manipulitista) consegnò sé stesso al potere delle toghe, dopo che nell’era successiva nessuno ebbe il coraggio di ripristinare una guarentigia presente in tutte le democrazie del mondo civile, ora si accorgono che avendo votato una legge che comporta la decadenza l’odierno parlamentare non solo va a scontare la pena, ma può essere oggetto di custodia cautelare. Tante volte quante volte piacerà ai pubblici ministeri e ai loro colleghi giudici delle indagini preliminari. Ecco il problema.

Pensare di risolvere quello di Silvio Berlusconi facendo una battaglia contro la sua decadenza è curioso assai. Se il centro destra tacesse, sul punto, lascerebbe nei guai gli alleati (e già, alleati sono). Invece s’agitano, senza costrutto. In ogni caso il problema che va sollevato è quello del mostruoso abuso che in Italia si fa della custodia cautelare. Ma, anche qui, con che faccia lo denunciano quelli che votano norme per cui è obbligatorio l’arresto degli stupratori, salvo il fatto che magari stupratori non sono, ma glielo diciamo con comodo, dopo averli sbattuti in galera? Con che faccia fanno i paladini del diritto quelli che votano norme per cui se A picchia B è più grave che se B picchia A, ove la differenza è il sesso? Questi forcaioli della domenica si scoprono garantisti al lunedì. E se me la prendo più con i parlamentari del centro destra che con quelli del centro sinistra è solo perché i primi sbagliano per inammissibile confusione mentale, mentre i secondi per profondissimi immoralità e cinismo.

Ergo: fate quel che credete per metterci una pezza, tanto non funzionerà (l’unica sarebbe la commutazione della pena), ma imparate a ragionare come se stesse legiferando per tutti, e non solo per gli amici vostri: va rivoluzionata la custodia cautelare, riportando la magistratura al rispetto della legge. Perché è la magistratura, in tale campo, a violare continuamente la legge.

Poi ponete il problema generale delle pene accessorie e dell’eleggibilità. L’interdizione dai pubblici uffici deve essere divieto d’accesso agli incarichi per nomina, non per elezione. L’idea stessa che una sentenza sottragga al voto chi altrimenti raccoglierebbe molti voti (perché se non lo votasse nessuno il problema non esisterebbe) ha un che di malato. In democrazia il diritto di votare per Tizio è sì quello dell’interessato di candidarsi, ma prima di tutto quello di tutti i Caio e Sempronio che si recano al seggio.

L’odierno dibattito sulla legge Severino è il trionfo del fallimento legislativo, il tripudio dell’azzeccagarbuglismo velenoso per la libertà e per la ricchezza, l’apogeo della legislazione improntata alle chiacchiere farlocche, al “lanciare messaggi”, al “segnalare orientamenti”. Chi segnala e lancia, all’evidenza, non ci capisce un accidente.

Pubblicato da Libero

lunedì 19 agosto 2013

Occasioni sinistre. Davide Giacalone

La destra ha un vantaggio: sa che il proprio futuro non può essere uguale al proprio presente. Magari non gradisce, ma prima o dopo lo digerisce. La sinistra, invece, è popolata da funzionari di partito, gente che non ha mai assaggiato il gusto del lavoro, tutti talmente convinti d’avere avuto sempre ragione da non avvedersi non solo degli immensi torti che la storia ha certificato, ma neanche del vuoto pneumatico nel quale coltivano l’illusione d’esser pregni d’idee e moralità. Per dare contezza delle occasioni che la destra perde ho usato il rapporto fra diritti civili e libertà individuali. Per capire l’abisso conservatore in cui è piombata la sinistra usiamo il rapporto fra diritti di cittadinanza e libertà dal bisogno.

Prima, però, da tosco-siculo, consiglio a Matteo Renzi di leggere le poesie in lingua di Renzino Barbera. In una si racconta delle piccole gioie, compresa quella di indossare l’abito della festa, abito “ca di vint’anni è novu”. La modestia di un tempo portava a considerarlo sempre “nuovo” perché aveva due caratteristiche: era stato confezionato per un evento festoso e non veniva mai usato. Ecco, si faccia due conti e chiarisca a noi tutti per quanto tempo pensa di restare il promettente nuovo di una sinistra che non c’è. E non ci sarà, senza affrontare quel che segue.

La contraddizione della sinistra italiana è genetica: dal punto di vista teorico crede nello Stato forte, capace di svolgere ogni funzione, in modo da compensare ogni ingiustizia, ma dal punto di vista storicamente realizzatosi, essendo consapevole d’essere una minoranza (con la spocchia di rappresentare la totalità), ha puntato sulla debolezza del governo, quindi dello Stato, quindi sulla sua incapacità di rimediare ai guasti del mercato. Non è un caso che a sinistra trovate i più inebetiti innamorati della finanza e delle scalate, perché diffidano del mercato, aborrono il lavoro, ma si sdilinquiscono innanzi al dio che già ispirò il fondatore che non lessero: il capitale. Li sordi, i piccioli, la pecunia. Che frequentano con indole subordinata e anima soggiogata. Nessuno adora nobili e ricchi con più bastarda generosità della sinistra.

Al punto in cui siamo giunti, nel mentre favoleggiamo di riprese e procediamo nell’imbuto che ci porta o a uscire dall’euro o a imporre manovre ulteriormente recessive, la sinistra ha una grande occasione: sappiamo tutti che l’Italia ha bisogno di poteri funzionanti, in grado di decidere e governare, altrimenti l’andazzo rinviante e conservante asfissia anche quella parte del Paese che è rimasta forte e dinamica, inducendola a chiudere o fuggire. Sappiamo che la debolezza istituzionale è consustanziale alla Costituzione del 1948. Ecco l’occasione: sia la sinistra a far quel che alla destra non riesce, ovvero seppellire il mito mendace della Costituzione nata dalla Resistenza. Cacci dal tempio i mercanti di perline tarocche, i biascicanti della “migliore Costituzione del mondo” e apra il cantiere della sua riscrittura. Non si tratta di un tradimento repubblicano, ma dell’unica fedeltà ragionevolmente possibile: cambiare e crescere per non fossilizzarsi e morire.

E nel porre la questione come irrinunciabile e immediata, non come opzionale e futura, metta in chiaro che i cardini sono due: la forma governo e la giustizia. La prima serve a restituire potere al popolo, il cui voto oggi vale troppo poco. Dal 1948 in poi l’obiettivo della sinistra ideologica fu quello di evitare che il vincitore governasse. C’erano motivi seri, legati al quadro internazionale. Quel mondo è finito. Nessuno, che non soffra il vuoto, può avere paura di Alfano o di Letta. Mentre il vuoto di potere governativo spalanca le porte del disfacimento e impedisce la fuga dal bisogno.

La seconda, la giustizia, serve a ricordare che nulla è più dalla parte dei diritti collettivi e della difesa dei deboli se non una giustizia funzionante. La nostra, pessima e sfregiata dalla faziosità, non è più neanche connivente con il potere o agente per censo, è distruttiva del diritto e sterminatrice di ogni debolezza e innocenza. La sinistra rompa con il partito reazionario delle toghe, inverta la retriva connivenza con i pochi forti contro i tanti deboli, e comincerà a parlare il linguaggio del futuro.

Una destra attenta all’individuo e al merito, una sinistra attenta al colletivo e al diritto. Sarebbe il segno che l’Italia cambia e si rimette a correre. Come in passato ha saputo fare. Resterà un sogno, però, finché dall’una e dall’altra parte ci saranno a far da capi i peggiori nostalgici rintronati che si possa immaginare: quelli che hanno nostalgia di ciò che mai fu e di quel che mai furono.

Pubblicato da Libero