martedì 15 aprile 2014

La spietata verità

                                                                 
Pubblichiamo il discorso che Ayaan Hirsi Ali avrebbe dovuto tenere alla Brandeis University in occasione del conferimento di una laurea honoris causa. Una rivolta dei docenti e degli studenti contro “l’islamofobia” di Hirsi Ali ha costretto l’università a ritirare il titolo.

Un anno fa la città di Boston era ancora in lutto. Alle famiglie che una settimana prima avevano figli e fratelli da abbracciare erano rimaste solo le fotografie e i ricordi. Altri erano ancora davanti ai letti degli ospedali a guardare giovani uomini, ragazze, bambini affrontare operazioni chirurgiche dolorose e menomazioni permanenti. Tutto questo perché due fratelli, influenzati da siti internet jihadisti, hanno deciso di lasciare vicino alla linea d’arrivo di uno degli eventi più importanti dello sport americano, la maratona di Boston, due bombe fatte a mano nascoste dentro a degli zaini. Tutti voi della classe del 2014 non dimenticherete mai quel giorno e i giorni successivi. Non dimenticherete mai il momento in cui avete appreso la notizia, dove eravate o cosa stavate facendo. E quando ritornerete qui, tra 10, 15 o 25 anni, vi tornerà tutto in mente. La bomba è esplosa appena a 10 miglia dal campus. Tempo fa ho letto un articolo che diceva che gli adulti non hanno molti ricordi della loro vita prima degli otto anni. Questo significa che uno dei vostri primi ricordi potrebbe essere la mattina dell’11 settembre.

Voi meritate ricordi migliori dell’undici settembre e dell’attentato alla maratona di Boston. E non siete i soli. In Siria almeno 120 mila persone sono state uccise, non in battaglia, ma in massacri di massa, a causa di una guerra civile che si combatte sempre più sul filo della divisione settaria. La violenza sta aumentando in Iraq, Libano, Libia, Egitto. Molto più di quanto non fosse quando voi siete nati, oggi la violenza è concentrata soprattutto nel mondo musulmano. Un’altra caratteristica dei paesi che ho appena nominato, e del medio oriente in generale, è che la violenza contro le donne sta aumentando. In Arabia Saudita c’è stato un aumento notevole nella pratica della mutilazione genitale femminile. In Egitto ci sono fino a 80 casi di violenza sessuale al giorno e il 99 per cento delle donne dice di aver subìto molestie.

E’ preoccupante soprattutto il modo in cui la legislazione conferma lo status delle donne come cittadine di second’ordine. In Iraq è stata proposta una legge che abbassa a 9 anni l’età minima per il matrimonio delle bambine. Questa legge dà al marito il diritto di negare a sua moglie il permesso di uscire di casa. Questo elenco di diritti è tristemente lungo. Spero di parlare a nome di molti quando dico che questo non è il mondo che la mia generazione sperava di lasciarvi in eredità. Quando siete nati l’occidente era in trionfo, il comunismo sovietico era appena stato sconfitto. Una coalizione internazionale aveva cacciato Saddam Hussein dal Kuwait. La missione successiva delle Forze armate americane sarebbe stata contro la carestia nella mia terra natale, la Somalia. Non esisteva un dipartimento della Sicurezza interna e pochi americani parlavano di terrorismo.

Vent’anni fa nemmeno il più cinico dei pessimisti avrebbe anticipato tutto quello che è andato storto nella parte del mondo in cui sono nata. Dopo così tante vittorie per il femminismo in occidente, nessuno avrebbe previsto che i diritti basilari delle donne sarebbero stati ridotti in moltissimi paesi mentre il Ventesimo secolo lasciava spazio al Ventunesimo.

Oggi tuttavia parlerò di un futuro migliore, perché penso che il pendolo abbia già oscillato troppo dalla parte sbagliata. Quando vedo milioni di donne in Afghanistan sfidare le minacce dei talebani e mettersi in fila per votare; quando vedo le donne in Arabia Saudita sfidare l’assurdo divieto di guidare; e quando vedo le donne tunisine celebrare l’arresto di un gruppo di poliziotti per un atroce stupro di gruppo, mi sento più ottimista di quanto non fossi qualche anno fa.

La mal definita primavera araba è stata una rivoluzione piena di delusioni. Penso tuttavia che abbia creato l’opportunità di sfidare le forme di autorità tradizionale – compresa l’autorità patriarcale –, e perfino di mettere in discussione le giustificazioni religiose per l’oppressione delle donne. Ma per soddisfare questa opportunità, noi occidentali dobbiamo offrire la giusta dose di aiuto. Esattamente come la città di Boston un tempo è stata la culla di un nuovo ideale di libertà, dobbiamo ritornare alle nostre radici diventando ancora una volta il faro del libero pensiero e della libertà del Ventunesimo secolo. Davanti a un’ingiustizia dobbiamo reagire, non soltanto con la condanna, ma con azioni concrete.

Uno dei posti migliori per farlo è nei nostri istituti di istruzione superiore. Dobbiamo rendere le nostre università dei templi non dell’ortodossia dogmatica, ma del vero pensiero critico, dove tutte le idee sono le benvenute e dove il dibattito civile è incoraggiato. Sono abituata a essere fischiata nelle università, per cui sono grata dell’opportunità di potervi parlare oggi. Non mi aspetto che tutti voi siate d’accordo con me, ma apprezzo tantissimo la vostra apertura all’ascolto.

Sono qui davanti a voi come qualcuno che sta combattendo per i diritti delle donne e delle ragazze in tutto il mondo. E sono davanti a voi come qualcuno che non è spaventato di fare domande scomode sul ruolo della religione in questa battaglia. La connessione tra la violenza, soprattutto la violenza contro le donne, e l’islam è troppo chiara per essere ignorata. Non aiutiamo gli studenti, le università, gli atei e i credenti quando chiudiamo gli occhi davanti a questa connessione, quando cerchiamo scuse anziché riflettere.

Per questo chiedo: il concetto di guerra santa è compatibile con il nostro ideale di tolleranza religiosa? E’ blasfemia – punibile con la morte – mettere in discussione l’applicazione alla nostra èra di certe dottrine risalenti al Settimo secolo? Sia il cristianesimo sia l’ebraismo hanno avuto le loro riforme. E’ arrivato il tempo anche per una riforma dell’islam.

Queste argomentazioni sono inammissibili? Di certo non dovrebbero esserlo in un’università che è stata fondata dopo lo scandalo dell’Olocausto in un tempo in cui molte università americane ancora imponevano restrizioni agli studenti ebrei. Il motto della Brandeis University è “La verità, anche quella più inaccessibile”. E’ anche il mio motto. Perché è solo mediante la verità, la verità spietata, che la vostra generazione può sperare di fare meglio della mia nella lotta per la pace, la libertà e l’uguaglianza dei sessi.
di Ayaan Hirsi Ali Copyright Wall Street Journal
Per gentile concessione
di MF/Milano Finanza


Ayaan Hirsi Ali è un’intellettuale somala naturalizzata olandese, è nota per la difesa dei diritti delle donne e la polemica contro l’islamismo. E’ stata sceneggiatrice del film “Submission”, costato la vita al regista Theo van Gogh. A maggio Hirsi Ali avrebbe dovuto ricevere una laurea honoris causa alla Brandeis University, nella periferia di Boston, ma gli studenti, parte del corpo docente e altri gruppi hanno accusato Hirsi Ali di islamofobia e dopo settimane di proteste hanno costretto l’università a ritirarle il titolo e l’invito a parlare alla cerimonia di laurea. Questa è una versione abbreviata del discorso che Hirsi Ali avrebbe voluto pronunciare davanti agli studenti.

lunedì 14 aprile 2014

Condanna già scritta senza l'ombra di prove. Vittorio Sgarbi


Una grande tristezza. E la precisa coscienza di una sconfitta. Una sconfitta del diritto, ucciso da una casta che ha sostituito l'esame e il giudizio dei fatti con la battaglia politica e morale contro il male. Marcello Dell'Utri è stato spavaldo. In nome della sua innocenza (rispetto ai fatti) ha sfidato i giudici. E si è condannato quando ha dichiarato: «Vittorio Mangano è il mio eroe». Con quella frase un presunto innocente si è trasformato in presunto colpevole. Sono molto dispiaciuto per quello che tocca e toccherà, in una vecchiaia senza conforti e senza rimorsi, a Dell'Utri. Da vent'anni egli attende una sentenza che gli è data prima che il tribunale si pronunci, arrestandolo, appunto, non da presunto innocente, ma da presunto colpevole. E io sono vent'anni che mi chiedo, ostinatamente: dov'è il reato? Qual è il reato? Qual è il fatto? Penso, con Giovanni Battista Vico, certamente frequentato da Dell'Utri: «Verum ipsum factum». E a tutti quelli che, proprio nella «incertezza», sono certi della colpevolezza di Dell'Utri, chiedo: che cosa ha fatto? Quale trama, quale affare, quale favore ha fatto alla e con la mafia? E con chi? Eppure già una volta la Cassazione, supremo organo del diritto, non ha accolto le inconsistenti prove e ha rinviato alla Corte d'appello, con inoppugnabili argomenti, la sentenza di secondo grado insufficientemente motivata. Fu un luminare del diritto, procuratore generale della Cassazione, fino ad allora impeccabile, e poi deprecato e vilipeso, Francesco Iacoviello, che osò confutare il reato di concorso esterno. Un illuminista? Un giurista? No. Secondo molti, un pericoloso negazionista. Come negare l'evidenza? Ma quale evidenza? Sette anni di carcere per che cosa? Pochi per un mafioso di rango, come non poteva non essere Dell'Utri, esponente di una cupola imprenditoriale e politica; troppi per l'assoluta inesistenza dell'habeas corpus. Chiedo, continuo a chiedere: che cosa ha fatto con la mafia Dell'Utri? Qualcuno mi risponde: ha assunto nel 1974 Vittorio Mangano come «stalliere» di Arcore. Appunto, nel 1974 Mangano era incensurato e non risultano reati compiuti da lui in concorso con Dell'Utri. Con quali altri allora?

I giudici inseguono da vent'anni Dell'Utri. Ma senza prove, senza fatti. La risposta ci viene da Francesco Merlo, amico del giudice e ministro Filippo Mancuso (che certamente avrebbe assolto Dell'Utri). E le sue parole sono la miglior difesa e insieme la sicura condanna per Dell'Utri. Egli ci spiega «il codice della mezza mafia». Per questo discorso, in concorso con Michele Serra, Merlo demonizza, come solo in Italia può avvenire, un ristorante. Nella prima Repubblica, furono I Due ladroni e l'Agustea, tempio gastronomico dei socialisti (inevitabile: avevano la sede del partito sopra il ristorante); nella seconda Repubblica sono Fortunato e Assunta Madre («dove tutti sembrano comparse del film “Terapia e pallottole”»), luoghi evitati dai «buoni», come Serra, che scrive: «il puzzo del potere sovrasta, in quelle sale quello delle fritture più grevi». Ma la sentenza che sarà scritta è anticipata da Merlo: «La mezza mafia, nel codice penale, si chiama concorso esterno. Prima che un reato è un'antropologia fatta di mafiosità (che è diversa dalla mafia) e di narcisismo». Qui conta poco la certezza della colpa, la definizione del reato, perché nell'assunto del pubblico ministero Merlo «l'antropologia da mezza mafia è la stessa di Cuffaro. Ed è quella di Mannino... che è stato assolto perché l'antropologia non esclude l'innocenza penale». E qui è il nodo. Perché Dell'Utri è più vittima che carnefice, e ciò che si è detto di lui è più grande e più grave di quello che (non) ha fatto. È «antropologicamente» mafioso. Parola di Serra. Parola di Merlo. Parola di Travaglio. Parole, non fatti.

In questa tragedia umana e condanna politica e morale, il «concorso esterno» di Dell'Utri coinvolge, naturalmente, Berlusconi e Forza Italia. In una sola, condivisa responsabilità. È evidente che ha manovrato più potere siciliano Raffaele Lombardo di Dell'Utri. E anche Lombardo è stato condannato a 6 anni. Anche in questo caso antropologia? Resta il fatto (e lo ha rimarcato il governatore Crocetta, amico dei giudici e simbolo dell'antimafia) che, in concorso con Lombardo, hanno governato due valorosi magistrati, Massimo Russo e Caterina Chinnici. Perché nessuno chiede loro conto di essere stati a fianco di un «mafioso»? Quando loro erano con lui Lombardo era già indagato, mentre non lo era Mangano quando Dell'Utri lo assunse. I due magistrati hanno garantito per Lombardo. E come mai ora, il Pd, che ha escluso indica come capolista alle Europee la Chinnici? È certamente una questione antropologica. Ma il Libano è vicino, e forse scopriremo che, dal punto di vista antropologico e giuridico di quel Paese, non sarà possibile estradare un uomo per un reato che non esiste. Ci daranno una lezione di diritto, quella che Iacoviello aveva anticipato. E, non essendo prescrivibili i reati di mafia, e neanche di «mezza mafia», Dell'Utri morirà innocente, in Libano. Colpevole in Italia. Antropologicamente.

(il Giornale)

giovedì 3 aprile 2014

Il Castello degli annunci. Antonio Polito

 
La politica dell’annuncio è politica. Produce fatti e conseguenze politiche. Non è solo marketing. Se un annuncio convince dieci milioni di italiani che dal giorno dopo le Europee staranno un po’ meglio, non solo vanno meglio le Europee, ma cresce anche l’indice di fiducia delle famiglie, e si può sperare in più consumi e investimenti.
Tony Blair visse per l’intera prima legislatura sull’onda degli annunci: si chiamavano white paper , riforme annunciate, date in pasto alla stampa, digerite dal pubblico come cambiamenti epocali, e poi dimenticate. Ma tirarono su il morale di una nazione depressa dal post-thatcherismo. Mentre fu solo quando dagli annunci passò ai provvedimenti che Gerhard Schröder perse le elezioni, per aver davvero rifatto il welfare tedesco e salvato la Germania dal declino economico. Ma il problema di Renzi, come ha notato ieri il Financial Times , è che i suoi giorni non ricordano neanche pallidamente gli anni ruggenti di Blair e Schröder. I quali danzarono su un’era di espansione e di crescita. Mentre Renzi si deve calare nella peggiore recessione del dopoguerra.
 
La politica dell’annuncio di Renzi è l’opposto di quella praticata dal suo predecessore. Quando Letta voleva fare una cosa, prima cercava il consenso dei tecnici e della sua maggioranza, e poi procedeva col minimo comun denominatore. Quando Renzi vuole fare una cosa, prima l’annuncia e poi chiede ai tecnici e alla sua maggioranza di realizzarla. In questo modo Letta produsse uno sconto fiscale di 18 euro al mese per i redditi bassi e Renzi ne produrrà uno da 80 euro al mese. Si direbbe dunque che funziona.
Non c’è però bisogno di essere un gufo, un rosicone, un disfattista (o come altro si chiama oggi chi si permetta di coltivare l’arte liberale del dubbio) per capire che tutto ciò comporta dei rischi. Questa tattica, che nel ciclismo si chiama «dell’elastico» (uno in testa scatta a ripetizione, e il gruppo deve accelerare per stargli dietro) ha i suoi limiti: se l’elastico si allunga troppo, si spezza. Fuor di metafora: Renzi ottiene ciò che vuole minacciando ogni volta di andarsene. Siccome oggi a nessuno conviene che se ne vada, la spunta. Ma prima o poi a qualcuno converrà, e i termini dell’equazione cambieranno. Per questo l’esperimento Renzi dipende così tanto dal risultato delle Europee.
 
In secondo luogo bisogna considerare l’effetto boomerang che potrebbe derivare da una inflazione degli annunci. In Europa, dove è essenziale essere creduti quando offriamo riforme in cambio di flessibilità. Ma anche in Italia, dove si vive in uno stato di sospesa incertezza, come in un castello delle fiabe, e tutti attendono di capire, prima di agire, se Renzi riuscirà a fare tutto ciò che dice, o solo una parte, e come.
Facciamo l’esempio del lavoro. Se un imprenditore può assumere, oggi sta sicuramente aspettando l’esito del braccio di ferro tra governo e sinistra parlamentare sull’unico decreto fin qui varato, che rende più facili i contratti a tempo determinato. E poi aspetterà di vedere se il disegno di legge seguente, il Jobs Act propriamente detto, lo contraddirà, restaurando un contratto unico a tempo indeterminato. Del resto è già successo che aspettative generate da Renzi siano cadute: quella di ricavare maggiori risorse dalle pensioni, per esempio, o dalla lotta all’evasione.
Il governo è quindi giunto a un momento cruciale. A metà mese ci saranno le tabelle del Def, numeri vincolanti. Gli annunci sono stati tutti fatti, e da qui alle Europee bastano e avanzano. Ora serve che diventino leggi e provvedimenti. Come in ogni storia d’amore, alla seduzione deve seguire l’atto.

(Corriere della Sera)


 

venerdì 28 marzo 2014

Renzi è come Matrix: parla tanto ma non esiste. Giampaolo Rossi

Matteo Renzi non esiste. Tutto ciò che noi vediamo di lui in tv o leggiamo sui giornali italiani, è solo una proiezione del nostro inconscio collettivo.

Renzi è come Matrix, una neuro simulazione interattiva; una finzione digitale che percepiamo come reale.

Ha invaso i media, i social network, è costruita a tavolino da fabbricatori di immagini e dispensatori di sogni ma in realtà, nel mondo reale, di lui non c’è traccia: è come un cartoon della Disney.
 
Basta vedere cosa è successo in occasione della visita di Obama: i media italiani ci hanno invaso di immagini e parole per descrivere lo storico incontro tra il capo della più grande democrazia del mondo e il premier italiano; lo hanno descritto attimo per attimo, svelandoci i retroscena più umani e divertenti, il feeling di sorrisi e ammiccamenti che li ha legati; hanno contato quante pacche sulle spalle i due si sono dati, hanno analizzato la precisa gradazione di colore del vestito che li accomunava, chiaro segno di un destino condiviso; hanno descritto le grandi strategie concordate.
 
Poi, una volta usciti da questa proiezione, leggiamo i giornali americani e di Matteo Renzi non c’è traccia, il suo incontro con Obama non è pervenuto ed il premier italiano è al massimo una citazione tra la visita al Colosseo del Presidente americano e i commenti su come i romani sopportino il traffico caotico. Per la stampa Usa, Obama è venuto in Italia ad incontrare Papa Francesco; addirittura l’inviato del New York Times al seguito non scrive da Roma ma da “Vatican City”, perché per gli americani non esiste una capitale della Repubblica Italiana ma solo la Città Eterna, sede temporale della Chiesa Cattolica e l’unico leader sul suolo italico veste di bianco, parla argentino e viene chiamato Holy Father (Santo Padre). Persino nel resoconto video della Casa Bianca il premier italiano non compare neanche come comparsa.
 
Ecco perché sorge il sospetto che Renzi non esista; o se esiste davvero, che i due non si siano mai visti e che quelle foto Renzi le abbia fatte con la sagoma di cartone di Obama che l’ambasciata Usa ha utilizzato nei giorni scorsi per promuovere l’arrivo del Presidente americano.
 
Il problema in realtà è politico. L’Italia di Renzi sbruffona e megalomane che si celebra su twitter, si sbrodola da Fazio e dalla Bignardi e si ride addosso di battute toscane, all’estero è percepita meno che nulla; per ora, è scomparsa dai radar della politica internazionale. Sarà che in America la democrazia è una cosa seria, e un leader salito al potere senza consenso popolare e con manovre spudorate, in genere non gode di grande credibilità, a meno che non sia un esecutore di tecnocrati e di banchieri (come lo era Monti).
 
Sono lontani i tempi in cui un premier italiano si recava negli Usa e veniva accolto dall’intero Congresso americano con una standing ovation di 5 minuti, mai riservata ad un leader straniero (per la cronaca quel premier si chiamava Silvio Berlusconi).
 
Oggi Matteo il rottamatore non è ancora pervenuto nella percezione dell’opinione pubblica internazionale. L’egocentrismo non è una qualità in politica estera.
 
Renzi l’americano si è convinto di essere l’Obama italiano. In realtà sembra più la versione toscana del mitico Nando Mericoni, il personaggio che consacrò Alberto Sordi: altro che “yes we can”; piuttosto “Americà facce Tarzan!”.
 
(il Giornale)
 
 

Il Cav. e i rompicoglioni. Giuliano Ferrara


C’è da domandarsi, e me lo domando, e ce lo domandiamo: perché rompono tanto i coglioni a Berlusconi? Maramaldeggiano secondo il vecchio costume codardo del giornalismo italiano, e spettegolano ogni giorno, con poca fantasia ma spietatamente: è out, finisce agli arresti domiciliari, non potrà più comunicare, non è più cavaliere, il partito è distrutto, la dinasty di famiglia lo imbriglia, Barbara è eager, vuole tutto, Marina non ci sta, Pier Silvio rilutta e mugugna, la fidanzata Pascale s’impiccia, Scajola minaccia, Cosentino minaccia, Verdini se ne va, sono pronti nuovi gruppi parlamentari, non decide abbagliato dalle sue grane giudiziarie, non ci sta con la testa, è fuori dal Senato, il cerchio magico si chiude a riccio e lo isola sotto l’inflessibile governo della badante Maria Rosaria Rossi, è senza passaporto e non può fare il popolare europeo, non si può candidare, i sondaggi lo danno intorno al 20 per cento, più sotto che sopra, è stretto nella tenaglia tra Grillo e Renzi, siamo ormai alle testimonianze di Bossi, provocato, che strologa sul futuro di un supersconfitto, lui sì che se ne intende, e poi carinamente dice “ora lasciatemi in pace, voglio fumare”.
Il Cav. (ora l’ex Cav. per i vecchi ruffiani della stampa dattilografa) è sempre stato impresentabile e inaccettabile. Per motivi diversi. Ha un vita privata incompatibile. Ha una vita pubblica disseminata di gaffe. Fa le corna, fa cucù, parla in modo spigliato di Mussolini, oltraggia la memoria (che secondo il bel romanzo su don Ciotti di Luca Rastello è, dico la memoria specie se condivisa ed esornativa, uno degli ultimi rifugi delle canaglie degli idolatri del Bene Sommo). Inoltre non ha scrupoli, è pregiudicato, è Caimano, è amico di Putin l’Orrendo Tirannico, è sempre in agguato, come forza reazionaria, per sbaragliare la Repubblica, smontare il Quirinale che odia eccetera.

I fatti dicono che Berlusconi è l’ultimo campione dell’autogoverno democratico, l’ultimo capo di un esecutivo voluto a mani basse dall’elettorato. In seguito a trame varie, costellate da suoi errori, in un contesto di perdita della sovranità nazionale, fu dissellato nel novembre del 2011, ma la caduta del cavaliere avvenne nelle forme blande di sue dimissioni, nel quadro di un accordo con l’allora capo dell’opposizione, il Bersani dalla pompa di benzina, benedetto e ispirato da Giorgio Napolitano. Tra poco saranno tre anni: in questi tre anni Berlusconi ha appoggiato un governo di emergenza tecnocratica che ha fatto la riforma delle pensioni e poi si è perso nei meandri della vanità e di una infelice discesa in politica del suo capo, il professor Mario Monti; ha sbloccato lo stallo postelettorale, dopo una clamorosa rimonta che ha impedito il formarsi in questa legislatura di una maggioranza di sinistra fondata su un premio di maggioranza incostituzionale secondo la tardiva ma chiara decisione della Corte, e lo ha sbloccato proponendo e ottenendo la rielezione del capo dello stato, una prima assoluta, e la formazione di un governo di larga coalizione presieduto dal nipote del suo Cardinal nepote Gianni Letta; ha fronteggiato con stile una condanna definitiva ratificata dalla famiglia giudiziaria del dottor Esposito, che famiglia!, per un reato di quelli che adesso, considerando il processo a Dolce & Gabbana per maneggi fiscali all’estero, passa per essere la capacità di pensare in grande di un imprenditore (il procuratore generale dixit); ha subìto con un rapido e indolore passaggio all’opposizione, costruttiva, una piccola secessione ministeriale senza conseguenze, che rientrerà e non ha basi politiche serie; ha ricostruito il suo ruolo di player e pater patriae avviando Renzi a Palazzo Chigi, un cambio generazionale della Madonna, attraverso la stipula di un accordo sulla riforma elettorale e sulle riforme istituzionali che ha spiazzato tutti, dal Nipotissimo floscio e furbo ai poveri profeti dell’Antipolitica comica all’establishment pigro e sornione, consentendo al paese di riprendersi un poco in sintonia con un attenuarsi della crisi. E per il futuro vedremo.

Risultato provvisorio: non è il Caimano, non si sono visti i fuochi, non tira aria di tempesta masaniellesca, c’è un uomo di stato responsabile che non molla e tiene insieme l’altro polo della democrazia compiuta, il centrodestra, consolidando il profilo istituzionale di un paese tanto scombiccherato. Ecco. Questo è lo scandalo che impone ai bru bru della stampa e della televisione più faziose e penose del mondo di maramaldeggiare e spettegolare ad libitum.


(il Foglio)

giovedì 27 marzo 2014

L'Orlando bocciato. Davide Giacalone


Un ministro italiano è andato a fare richieste precise in una sede europea. Auspico siano rigettate. Il ministro è quello della giustizia, Andrea Orlando. Il tema è quello delle carceri sovraffollate. La sede non è l’Unione europea, ma il Consiglio d’Europa, per la precisione la Corte Europea Diritti dell’Uomo. Ci hanno già condannati. Spero confermino la condanna. Smettiamola di prenderci in giro, evitiamo di provare a prendere in giro gli altri, finiamola di fare gli incivili e affrontiamo il problema vero, che è quello della malagiustizia. Le carceri sono “solo” una conseguenza.

Nel gennaio del 2013, giustamente, la Cedu condannò l’Italia a risarcire sette detenuti, che si erano trovati ad avere a disposizione meno di tre metri quadrati a testa. Condizioni considerate illegali negli allevamenti di bestiame, figuriamoci nel trattamento di umani. Siamo arrivati al punto che un giudice inglese rifiuta un’estradizione in Italia perché il detenuto andrebbe incontro a trattamenti disumani. La stessa Cedu, sapendo che non si trattava di casi isolati, ci diede tempo fino al prossimo 28 maggio, per rimediare. I rimedi fin qui approntati, ripetutamente denominati “svuota carceri”, adottati dai governi Monti e Letta, sono inaccettabili e tutti incentrati sugli sconti di pena. Il piano di Orlando è in coerenza con questa vergogna, sicché propone: a. le cause oggi pendenti a Strasburgo siano riassorbite in Italia; b. per chi è stato detenuto e non lo è più ci sia un risarcimento che va dai 10 ai 20 euro per ogni giorno scontato in quelle condizioni; c. per chi è ancora detenuto si faccia un ulteriore sconto, pari al 20% della pena residua. Tre proposte, tre errori.

Il trucco di riportare le cause di Strasburgo in Italia lo abbiamo già sperimentato nel 2001, quando fu approvata la legge Pinto. Con quella erano le Corti d’appello che avrebbero dovuto decidere per la giustizia negata, dovuta all’eccessiva durata dei procedimenti. Anche allora scrissi contro, prevedendo che il trucco avrebbe provocato un ulteriore allungamento dei tempi, oltre che una beffa per i danneggiati. E’ andata così. Ero (e sono) favorevole ai ricorsi a Strasburgo, che provai a incentivare e facilitare pubblicando un manuale su come potevano e dovevano essere fatti, così come personalmente usai la legge Pinto, vincendo la causa e ottenendo risarcimento per le ingiustizie subite. Ma lo scopo dei ricorsi europei doveva essere quello di spingere a riformare la moribonda giustizia italiana, mentre la legge Pinto voleva solo riportare il coma nei confini nazionali. Orlando, ora, propone la stessa cosa. Stesso trucco, stesso errore.

Secondo: le cause pendenti a Strasburgo (per questa specifica ragione) sono 3000, il che comporta una spesa che va da 30 a 60.000 euro al giorno, quasi 22 milioni in un anno. Senza contare che portando la giurisdizione in Italia quelle cause aumentano (come è già successo con la Pinto). Soldi che non pagano i responsabili, ma i cittadini. Un chirurgo che ti macella, per colpa o dolo, paga il risarcimento. In diversi casi sono stati allontanati dalle sale operatorie. Per i detenuti, invece, pagano i cittadini e i responsabili restano al loro posto.

Terzo: se si accede allo sconto di pena, già recentemente diminuita con decreto legge, non solo si fa marameo alla certezza del diritto e un gran regalo ai delinquenti, ma si commette la più incredibile delle ingiustizie, perché, come capitò con l’indulto (altra legge contro cui scrissi, prevedendo che non avrebbe risolto nulla, come è stato) ne beneficiano i condannati, quindi i colpevoli, e ne restano esclusi gli innocenti in custodia cautelare o in attesa di giudizio. Una fragorosa pernacchia al più elementare senso del diritto.

Il problema delle carceri esiste (sempre meritoria la lunga battaglia radicale), ma non si risolve in questo modo. Prima di tutto si affronta il tema del 40% dei detenuti, che non sono condannati e non scontano la pena. E già con quelli sparisce il sovraffollamento. Poi si rivede l’applicazione della custodia cautelare, che nella metà dei casi colpisce cittadini che non saranno condannati. Quindi si introduce la (vera) responsabilità dei magistrati. E, a seguire, si riforma la giustizia in modo che i suoi tempi non siano il trionfo dell’ingiustizia. A quel punto, se si deve spurgare il bubbone, si faccia anche l’amnistia, che è provvedimento ingiusto, ma utile. Il legame fra riforma e clemenza deve essere strettissimo, altrimenti si generano mostri che non risolvono il problema, ma si limitano a rinviarlo per poi ritrovarselo sempre più grosso e sempre meno risolvibile. Per queste ragioni, spero che le richieste del governo italiano siano respinte. Con sdegno.

Pubblicato da Libero

giovedì 20 marzo 2014

L'ipocrisia del Cavaliere Augias. Giampaolo Rossi


Corrado Augias è stato netto e perentorio: dal salottino tv di Daria Bignardi ha dichiarato, con il suo solito stile british con il quale dissimula le prediche, che “Berlusconi è un interdetto e un condannato quindi non può tenersi il titolo di Cavaliere”. Augias è uomo di grande morale, anzi di grande moralismo; è da sempre un fustigatore del berlusconismo, che osserva con la solita superiorità antropologica degli intellettuali radical-chic. Da moralista dell’Italia migliore, a Corrado Augias non basta che Berlusconi si sia autosospeso: vuole che gli venga tolto con ignominia quel titolo di Cavaliere del Lavoro che si è guadagnato grazie alla sua straordinaria attività di imprenditore di successo.

D’altro canto anche Corrado Augias è un Cavaliere; per la precisione è Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, onorificenza e titolo che condivide con un altro illustre Cavaliere al Merito: tale Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito. Eh sì, perché Augias, che si scandalizza perché Berlusconi è Cavaliere, non si scandalizza del fatto che l’onorificenza di cui lui si fregia sia la stessa conferita, nel 1969, ad uno dei più feroci dittatori comunisti della storia, responsabile delle foibe e della pulizia etnica di decine di migliaia di italiani in Istria e Dalmazia.

Ora, la prima questione è capire come sia possibile che la Repubblica Italiana abbia conferito la sua più importante onorificenza ad un massacratore di italiani. La seconda questione è che, come tutti i moralisti, Augias tende a moralizzare la vita degli altri per non affrontare la moralità della propria. Nell’intervista alla Bignardi lui stesso ha cercato di banalizzare, ridendoci sopra, una storia emersa quattro anni fa da un interessantissimo libro del giornalista d’inchiesta Antonio Selvatici e costruito studiando scrupolosamente gli archivi della StB (la polizia segreta cecoslovacca); la storia riguarda un intero dossier, ritrovato negli archivi, dedicato all’informatore italiano Corrado Augias, nome in codice “Donat”.
In 135 pagine si elencavano gli incontri, i rapporti, i resoconti che tra il 1963 ed il 1967 interessavano il giovane Augias, allora funzionario Rai.

Ovviamente all’inizio Augias ha negato, annunciando querele mai presentate e dovendo poi ammettere che quei contatti c’erano stati sotto forma di “blande frequentazioni”. Rimane sorprendente la capacità camaleontica di molti intellettuali e corposi pensatori della sinistra italiana di nascondere la propria storia e le proprie responsabilità rispetto ad un passato ingombrante. Coloro che hanno giustificato gulag, Pol Pot, foibe, dittature caraibiche, rivoluzioni proletarie, che sono stati “frequentatori” di apparati stranieri non certo alleati dell’Italia, sono riusciti a cambiarsi d’abito alla velocità della luce, inserendosi tranquillamente nei gangli del potere. È la stessa capacità camaleontica che consentì a Berlinguer di denunciare la “questione morale” in politica, dimenticando la “doppia morale” del PCI. Il caso del cavalierato di Berlusconi va oltre la miseria della polemica politica e riguarda l’ipocrisia di un paese che non fa mai i conti con la propria storia.

Ora ci aspettiamo due cose: primo, che la Presidenza della Repubblica revochi la vergognosa onorificenza di Cavaliere al Maresciallo Tito. Secondo, che Corrado Augias, il grande moralizzatore, si autosospenda da Cavaliere al Merito in attesa di spiegarci per filo e per segno chi era l’agente Donat. Se, come lui ha detto, “uno che è condannato per frode fiscale non può essere Cavaliere”, allora non lo può essere neppure uno che “frequentava” i servizi segreti nemici.

(il Giornale)

martedì 18 marzo 2014

Votare non serve, l'Ue è solo una farsa. Ida Magli

 
Renzi “sfida l’Europa”, come afferma il Corriere della Sera, gridando ai quattro venti che l’Italia terrà fede ai parametri di Maastricht. Se non fosse che tali affermazioni riguardano sessanta milioni di cittadini italiani troveremmo paradossale o addirittura grottesca la situazione in cui si muove il capo del governo e le leggi che promette di mettere in atto entro i prossimi mesi. Sembra, infatti, che Renzi e tutti i politici insieme a lui, si siano dimenticati che la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge con la quale l’attuale Parlamento è stato eletto. Di che cosa parla, dunque, Renzi? Riformare la Costituzione mentre si è fuori dalla Costituzione? È così sproporzionato alla realtà il suo vagheggiare: ad aprile questo, a maggio quest’altro, che si finisce col lasciarsi trasportare nel mondo surreale dei suoi sogni.

È atrocemente squallido invece, e tuttavia altrettanto paradossale, l’affannarsi di tutti i politici per convincere gli italiani a votarli alle prossime elezioni europee, assicurandoli che combatteranno così contro l’euro, contro i tanto odiati burocrati di Bruxelles. Poveri italiani! Non si rendono conto che a coloro che perseguono la mondializzazione distruggendo i singoli Stati, ai veri unici Capi di cui non conosciamo il nome, l’unica cosa che serve è che i cittadini votino, riconoscendo così la validità dell’Unione europea. Non ha nessuna importanza a quale scopo votino: il “parlamento europeo” è una finzione visto che l’Unione europea non è uno Stato. Serve a fornire ricchissime poltrone ai politici, ma il trattato di Lisbona ha certificato l’impossibilità dell’Ue di diventare uno Stato. Soltanto uno Stato, ovviamente, può godere di un “parlamento”, tanto che perfino i costruttori dell’Unione europea non hanno riconosciuto al parlamento un’autonoma capacità di fare leggi. Siamo dunque, anche in Europa, nel mondo surreale di cui parlavamo a proposito di Renzi il quale infatti assicura, navigando a vele spiegate nel suo Superuranio, che si vedrà di che cosa l’Italia è capace quando assumerà con il prossimo semestre la guida dell’Europa.

In Italia, però, i politici somigliano tutti a dei piccoli e forse meno simpatici “renzi”. Mantenere la finzione rappresenta la parte più cospicua della loro attività. L’impero europeo deve continuare a esistere, o meglio a fingere di esistere agli occhi dei poveri cittadini che del trattato di Lisbona così come dei parametri di Maastricht non sanno nulla. La bandiera europea, che il trattato obbliga ad esporre soltanto nel giorno della festa dell’Europa, in Italia affianca sempre i governanti e sventola perfino sulla caserma del Comando generale dei Carabinieri, non si sa in base a quale precetto. Roma sembra la succursale di Bruxelles o di Strasburgo: è tutto uno sventolio di bandiere celesti piene di stelle che fingono l’esistenza di un Impero immaginario. Dato che non è uno Stato ma semplicemente un’organizzazione internazionale, l’Ue non può concedere nessuna cittadinanza, concessione che pertanto è illegittima; è illegittima la costituzione di una Banca estranea agli Stati come la Bce (che infatti appartiene per la sua massima parte ad azionisti privati) ed è illegittima, e dunque invalida, la cessione della sovranità monetaria ad una banca privata che i governanti italiani hanno fatto in nome dell’articolo 11 della Costituzione.

E i famosi parametri di Maastricht, quelli per i quali ci siamo svenati fin dall’inizio quando i cari Prodi, Ciampi, Amato ci esortavano a soffrire pur di poter entrare nell’eldorado dell’euro? Ebbene di quei parametri è stato detto di tutto. Ci si sono messi i maggiori economisti, banchieri, Premi Nobel d’Europa e d’America, a definirli: arbitrari, cervellotici, bislacchi, perfino “stupidi” (parola di Prodi, il quale non si vergogna mai di se stesso), ma Renzi insiste: “Dimostreremo che siamo capaci di tenervi fede”. Surreale, grottesca, folle? Non si trovano parole per descrivere la situazione di degrado logico, di straripamento da qualsiasi regola di ordine politico e sociale, di abbandono di ogni principio di realtà nel quale nuotano ormai senza sapere dove vanno politici, giornalisti, intellettuali. Esaltano l’Europa gridando: “Credo perché è assurdo”.

È indispensabile che almeno quei gruppi di cittadini che criticano le istituzioni europee, che vogliono la riappropriazione della sovranità sulla moneta e su tutto l’ambito che riguarda la Nazione e il suo territorio, non vadano a votare alle elezioni europee e convincano il maggior numero possibile di cittadini a non andarvi a causa della loro illegittimità. Bisogna che piuttosto si uniscano in un solo partito per ottenere al più presto il ritorno alla legalità con nuove elezioni e imporre nel parlamento italiano l’uscita dall’euro e dalle normative europee.

(il Giornale)

 

venerdì 14 marzo 2014

Liquidazioni. Davide Giacalone


Non lasciatevi distrarre dalla coreografia, per sdilinquirvi in piaggeria o allenarvi nella supponenza, e guardate la sostanza: Matteo Renzi ha posto in liquidazione sindacati e Confindustria; messo la mordacchia al suo partito; mentre guida un governo privo di opposizione politica. Il che gli consente di affrontare anche il tema della copertura finanziaria delle cose annunciate.

La più impressionante inversione a U è quella della Cgil, con Susanna Camusso che, per tenere il volante, è costretta a far finta di gioire. Ma non è che la Uil di Luigi Angeletti e la Cisl di Raffaele Bonanni siano messe meglio. Tutti stringono i denti e dicono: ha fatto quel che chiedevamo. Non ci credono minimamente, ma non hanno scelta: da molti anni il sindacato rappresenta gli interessi di una ridottissima minoranza di lavoratori dipendenti, ovvero dei soli beneficiati dall’operazione fiscale impostata dal governo. Che volete che dicano? Solo che non è una loro vittoria, bensì la dimostrazione della loro inutilità. La maggioranza degli iscritti al sindacato sono pensionati, inoltre, esclusi dall’operazione, ma singolarmente ricompresi per un taglio ipotizzato dal commissario Cottarelli che, però, è basato sul livello della pensione e non sulla differenza fra quel che è generato dai contributi versati e quel che è stato regalato nel tempo. Il sindacato chiede che la soglia sia più alta, ma togliere a chi incassa in ragione di quanto ha versato si chiama solo in un modo: furto.

La Confindustria tace, ma con quali sponde potrebbe porsi all’opposizione di un governo che promette la possibilità di contratti di lavoro triennali senza motivazioni e vincoli? E se è vero che sull’Irap c’è un’elemosina è anche vero che una parte degli industriali era favorevole all’operazione Irpef. Diciamo che si sono presi il lusso di potere star zitti. Il loro quotidiano, Il Sole 24 Ore, è dovuto andare di cerchio e di botte, al più dubitando.

Forza Italia ha un accordo di ferro, sul terreno di riforme elettorali e istituzionali che si danno per già fatte laddove sono sì e no avviate. Solo il tempo e le delusioni potrebbero portare ruggine, al momento pare oro. La destra di governo è riuscita a definirsi “sentinella delle tasse” e assistere alla presentazione di un programma che da una parte esclude gli autonomi da ogni beneficio, dall’altro porta la tassazione delle rendite finanziarie al top europeo. Che volete che facciano? Se rompono il problema non è perdere i posti, che già intristisce, ma le elezioni, che getta nella disperazione. Abbozzano, sorridendo per la foto. L’unica opposizione che nasce dal cuore è quella della gran parte del Partito democratico, maggioritaria nei gruppi parlamentari. Ma dove possono andare? A dire che vogliono il sistema elettorale proporzionale, che rifiutano gli sgravi fiscali per i dipendenti e inorridiscono per la tassazione delle rendite? (A me resta il dubbio che l’esclusione del titoli di Stato sia illegittima, però).

Ma i conti non tornano, si osserva da diverse parti. E perché? I soldi dell’edilizia e dei debiti ci sono, come qui descritto (da tempo). Gli sgravi porteranno a far salire il deficit, questo è sicuro, ma il governo potrà scaricare sul Parlamento l’onere di tenere fede agli impegni europei, barattando elasticità con riforme (è questa la logica dei contratti bilaterali). Che fanno, i signori parlamentari, non votano? Così non solo vanno a casa, ma con la colpa di avere affondato il Paese. Non vota il Pd? Per vedere il proprio segretario sostenuto dall’odiato nemico? Va loro ancora bene se Renzi non avverte l’impellente e berlusconiano bisogno di cambiare nome al partito, affinché sia chiaro che il passato è stato tumulato.

Tutto bene e alla grande, allora? La cosa più scombiccherata è la partita elettorale e costituzionale. Quella più pericolosa è l’eventuale scarto delle autorità europee (ieri la Bce ha fornito un assaggio). Ma attenti a non sottovalutare la liquidazione di forze un tempo considerate imprescindibili. Altro che concertazione di stampo ciampista, qui siamo a un passo da quel che non osò sognare neanche un illuso liberista. Posto che il confine con l’incubo è ancora labile.

Pubblicato da Libero



venerdì 7 marzo 2014

La grande bellezza sarebbe riconoscere l'Oscar di Berlusconi. Alessandro Sallusti


Per Renzi, l'Oscar alla Grande Bellezza è la prova che «non dobbiamo aver paura ad allargare le nostre ambizioni». Per Franceschini, ministro della Cultura, che «se l'Italia crede in se stessa, ha fiducia e investe nei propri mezzi può vincere».
Vendola ringrazia «tutti coloro che hanno reso possibile questa magnifica opera», la Boldrini afferma che «il cinema è risorsa fondamentale per la cultura».

Napolitano parla di «una grande vittoria per l'Italia», e la ministra europea alla Cultura Vassiliou esclama: «Fantastica Italia».
L'Italia della sinistra postcomunista e quella renziana (al momento teniamo una separazione in attesa di giudizio) si intestano il merito dell'Oscar di Sorrentino. Loro sì che sanno come si fa a far trionfare il made in Italy. Ma tacciono colpevolmente due cose. La prima. Il film è la presa per i fondelli del loro mondo, vuoto e ipocrita. La seconda è ancora più ridicola. Perché chi ha permesso a Sorrentino di salire sul palco, quello che - per citare i signori di cui sopra - non ha avuto paura di allargare le sue ambizioni, di investire propri soldi, quello che va ringraziato, quello che ha capito che il cinema è una risorsa e che ha contribuito a fare vincere l'Italia ha un nome e un cognome volutamente assenti dai loro commenti.

Si chiama Silvio Berlusconi, fondatore e azionista di maggioranza del gruppo Mediaset, la cui controllata Medusa ha creduto nel progetto di Sorrentino, prodotto (insieme a piccoli partner) e distribuito la pellicola.
Scusate Renzi, Franceschini, Vendola, Boldrini, Napolitano e soci: dire un grazie alla più importante e prestigiosa azienda culturale privata del Paese, Mediaset, è chiedere troppo? La risposta è scontata: troppo. Perché ammettere che Berlusconi, la sua famiglia e i suoi manager (Carlo Rossella e Giampaolo Letta a Medusa) sono il volano del migliore sapere italiano vuole dire sconfessare vent'anni di linciaggio mediatico. Significa rinnegare i fischi di giornalisti e cinefili di sinistra che alla mostra di Venezia accompagnano la vista del logo Medusa in testa di pellicola (anche per questo alla scorsa edizione del festival Medusa non presentò alcun film in concorso).
Ci sono voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è quell'associazione a delinquere immaginata dai magistrati italiani.

Oggi siamo orgogliosi di Sorrentino, ma anche di Mediaset e di quel folle di Berlusconi che continua a investire in un Paese così. E adesso, cari compagni, continuate pure a fischiare Medusa e a spiegarci che cosa è cultura e come si fa: siete come le patetiche caricature della Grande bellezza. Poca cosa.

(il Giornale)


giovedì 6 marzo 2014

Bocciatura da bocciare. Davide Giacalone


La Commissione europea gioca sporco. Che il debito pubblico italiano vada ridotto non è poco, ma è sicuro. Che le riforme vadano fatte, anche. Che qui se ne parla e non si quaglia, purtroppo è vero. Ma gli squilibri non sono solo nostri. I dati a nostro favore sono molti, ma omessi e nascosti. Elencare quali cose deve fare il governo italiano, ove non voglia incorrere in sanzioni e restrizioni che peggiorerebbero la nostra condizione, non è da leale collaborazione, ma da commissariamento. Mentre il surplus commerciale della Germania non è un’infrazione da buffetto sulla guancia, amorevolmente dato dai commissari, bensì una delle cause che genera squilibri gravi. La dimostrazione che c’è chi guadagna, dall’inerzia europea.

Surreali le parole del commissario Olli Rehn, pronunciate illustrando il rapporto della Commissione: “L’Italia dovrà mantenere il surplus primario per molti anni”. Peccato che non abbia avuto modo di citare i dati della stessa Commissione, dai quali risulta una solare verità: l’Italia è in avanzo primario da 21 anni (nel 2009 andammo in disavanzo per appena lo 0,8%). Nessuno è stato capace di fare altrettanto. Solo nel 2013 il nostro avanzo primario ha raggiunto i 36 miliardi, mentre la Francia, in tutta la sua storia, ha toccato il massimo avanzo primario nel 2001, per un ammontare di 21 miliardi. Non solo, ma posto che arrivammo alla crisi dei debiti sovrani con un debito pubblico troppo alto (colpa nostra), dal 2008 a oggi il nostro è cresciuto assai meno di quelli altrui, solo poco più di quello svedese, meno del tedesco, la metà del francese. Eravamo patologici, ricoverati nel reparto malattie infettive, in isolamento, ora siamo in corsia, con gli altri. Però la Commissione ci mette fra i soli tre con “squilibri eccessivi”: noi, la Slovenia e la Croazia. Spiacente, ma questa non è una constatazione contabile, bensì un’offesa politica e istituzionale. L’Italia non è solo uno dei paesi fondatori, la seconda potenza industriale e la terza economica, è anche il Paese che ha sganciato più di 50 miliardi, in quattro anni, per aiutare gli europei in crisi. Anche quelli vanno messi nel conto.

Perdiamo competitività, dice la Commissione. Ce ne lamentiamo con noi stessi da anni, invocando le riforme che anche la Commissione chiede. E’ colpevole non averle ancora fatte. Sottoscrivo. Ma il resto no: in questi anni siamo cresciuti nelle esportazioni in area extra Ue, e lo abbiamo fatto grazie a imprese, lavoratori e innovazioni capaci di navigare la globalizzazione e la competitività. Non crescono le esportazioni interne all’Ue, ma questo anche perché la Germania tiene chiuso il proprio mercato interno. E qui è necessario chiarire: un Paese può ben scegliere di esportare, arricchirsi e non far crescere la propria domanda interna, rientra nella sua autonomia politica e sovranità economica; ma non può farlo se ha in tasca la stessa moneta degli altri, se in questo modo importa risparmio altrui, tiene alto il cambio facendo scendere la competitività degli altri e paga tassi d’interesse minori per finanziare i propri debiti, grazie ai difetti strutturali dell’euro. Questo non è uno squilibrio è il massimo di ostilità e aggressività economica possibile. Un secolo addietro si sarebbe chiamata in modo più crudo: guerra.

Ne volete un bilancio provvisorio? Dal 2008 al 2012 gli investimenti nel debito pubblico, provenienti dall’estero, sono cresciuti di (soli) 24 miliardi per l’Italia (il 35% del debito lo abbiamo dentro i confini nazionali), di 297 per la Francia e di 345 per la Germania. Non c’è nulla d’innocente, negli attacchi che abbiamo subito. Le odierne parole della Commissione sono in quel filone.

La nostra colpa, qui continuamente denunciata, consiste nel procedere senza cambiare. Mica solo il mercato del lavoro, perché si deve aggredire la malagiustizia tanto quanto il satanismo fiscale. Chiedere deroghe senza riformare è da scemi. Ma pensare di riformare nel mentre si pagano più di 80 miliardi di interessi e ci si appresta a dovere tagliare ogni anno di un ventesimo il debito pubblico è da pazzi. Tedeschi e francesi sforarono ripetutamente quei parametri, senza che nessuno dicesse nulla, ora la Commissione annuncia che a noi potrebbe dire cosa, come e quando fare. In pratica commissariandoci. Non è accettabile. E non è da europeisti, perché in quel modo salta l’euro.

Alla nascita del governo Renzi scrivemmo che a parte i giovani e le donne, le chiacchiere e i calembour, la sostanza era una sola: avere la forza di trattare con la Commissione, facendo valere i nostri (notevoli) punti di forza e mettendo in moto il processo riformatore. Avevo supposto che, in quel senso, si potesse disporre di un certo appoggio americano, posto che la politica à la tedesca nuoce anche a loro. Qui, ancora, non s’è fatto nulla. Si va in giro per scuole, lasciando che i bimbi leggano discorsetti, in uno stile un po’ troppo alla Ceausescu. La prima mossa l’ha fatta la Commissione. Ed è oltraggiosa. Non si tratta di offendersi, ma di reagire. O sparire, perché inutili.

Pubblicato da Libero

martedì 4 marzo 2014

La lettera di Brunetta agli organi di stampa

 


“Stimati direttori, con il dovuto rispetto, avendo apprezzato la vostra poderosa e collettiva protesta contro il torto subito dall’“Ora della Calabria”, vorrei segnalare un caso di chiusura forzata di un sito, di libera espressione di critica e di pensiero, causata dal combinato disposto di Rai e di magistratura”.

È quanto scrive Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai, in una lettera aperta a tutti i direttori di giornali e telegiornali.

“Lo faccio oggi (ieri, ndr) – sottolinea Brunetta – in una occasione felice. Non ci siamo arresi infatti, e con altro nome quel pezzettino di libertà uccisa riprende vita: www.raiwatch.it dopo circa due mesi di oscuramento torna alla luce con il nome di www.tvwatch.it. Nel frattempo – prosegue Brunetta – ci spiace constatare che non si è udita alcuna sia pur sommessa voce di solidarietà o tantomeno di protesta per la ferita all’Articolo 21 della Costituzione, allorché il 5 gennaio scorso, il Tribunale di Bologna, su ricorso urgente della Rai, ha soppresso questo strumento di conoscenza e di democrazia, poiché figurava nel suo titolo quel nome che credevamo appartenesse a tutti gli italiani, per l’ovvia ragione che è dello Stato ed è finanziato con il canone. Quel sito – continua Brunetta – ospitava i testi delle interpellanze parlamentari e le risposte della dirigenza della Rai, le sentenze dell’AgCom, i liberi commenti di clienti paganti delle trasmissioni della televisione del servizio pubblico, convinti che il servizio pubblico debba essere giudicato, come dice la parola stessa, dal pubblico. Riprendiamo da dove avevamo iniziato. Mi sono assunto personalmente la responsabilità giuridica del nuovo sito. Confidando in un cenno di benevolenza – conclude – ancorché non ci sia da esigere le dimissioni da sottosegretario di un modesto senatore calabrese, ma assai più modestamente da eccepire sulla condotta del potentissimo direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, saluto cordialmente augurando buon lavoro e buona libertà di stampa per tutti, ma proprio tutti, persino per chi non è di sinistra”.

(l'Opinione)


 

domenica 2 marzo 2014

Beppe for God. Gianni Pardo


 
L’obbedienza come vantaggio e come abiezione

Una crudele ma immortale definizione dei boyscout così suona: quindici bambini vestiti da cretini guidati da un cretino vestito da bambino. E tuttavia quella benemerita organizzazione un suo senso l’ha.

L’uomo è un animale sociale che, isolato, ha difficoltà a sopravvivere. È solo in associazione con altri che riesce a cacciare, a produrre, a difendersi. Le donne in tanto possono avere figli ed occuparsene in quanto l’uomo pensi al loro sostentamento nel tempo in cui esse stesse non possono farlo. Da tutto ciò deriva che l’individuo, ogni volta che si sente isolato, ha giustamente paura. Naturalmente tutto ciò è molto meno vero nella società progredita. Un’avvocata di successo, anche senza avere un compagno, può benissimo procacciarsi ciò che le serve per vivere, incluso chi badi ai figli mentre lei è al lavoro. E tuttavia il sentimento di pericolo, quando si è isolati, rimane. È questa la causa del conformismo. Chi caccia con gli altri e come vogliono gli altri, non solo avrà maggiori possibilità di catturare una preda, ma anche maggiori possibilità di averne una parte.

Per tutti gli animali sociali la salvezza è nel gruppo. È questa la ragione per la quale i ragazzi amano tanto essere boyscout. Innanzi tutto, mentre in casa sono “figli”, e dunque dipendenti e sottoposti agli ordini degli adulti in quanto adulti, fra i boyscout hanno finalmente una promozione e sono fra eguali. L’uniforme, come dice la stessa parola, è identica a quella degli altri e dunque è una prova dell’appartenenza al gruppo e contemporaneamente dell’indipendenza dalla famiglia. La stessa struttura paramilitare, anche se implica ordini e l’esecuzione di compiti, è fra pari. Chi comanda non è qualcuno che ha il solo merito di essere più vecchio, ma qualcuno che “ha fatto carriera”. Come potranno farla loro. Inoltre l’ordine non è dato “per il bene di chi lo riceve”, con ciò stesso proclamandolo inferiore, ma per il bene della comunità e di un ideale condiviso. Le regole sono prefissate e sovrastano tutti i singoli in quanto tali. Nel gruppo il ragazzo sente di avere raggiunto la massima sicurezza e la massima valorizzazione.

L’organizzazione dei boyscout è utilissima alla società. Questa tende infatti a fare dei ragazzi membri obbedienti della comunità e all’occasione buoni soldati. I boyscout sono stati molto ben visti dalla Chiesa e dagli Stati che più tengono alla coesione e all’inquadramento dei propri cittadini. Persino nell’Unione Sovietica, dove non osarono chiamarli col nome inglese di boyscout, per i ragazzi fu creato il corpo dei “Pionieri”. Ma la sostanza era la stessa.

La società tende ad insegnare ciò che è utile a sé stessa, non ciò che è utile al singolo. E proprio perché è utilissimo alla società, lo scoutismo è pernicioso per la personalità dell’individuo. Nel gruppo impara ad avere paura della solitudine e a cercare la protezione nel gregge. E se vorrà ragionare con la propria testa, se vorrà soppesare le varie opinioni, se si riserverà il diritto di decidere per sé, sarà tendenzialmente un reietto. Mefistofele prometteva la gioventù in cambio dell’anima, la società promette la sicurezza in cambio dell’indipendenza.

Una simile dicotomia tra potenza del gruppo e dignità intellettuale del singolo si ritrova anche nel mondo politico. Un partito veramente democratico - che lasci ai propri adepti la libertà di critica e, all’occasione, di voto - è meno forte di un partito tendenzialmente autoritario che pretenda dai propri membri, mentalmente in uniforme, la più totale obbedienza. Naturalmente per seguire una simile formazione bisogna avere ben poca stima della propria libertà di pensiero. Bisogna essere disposti a giurare sulla superiore saggezza dei capi, reputati infallibili. Ed è ciò che è avvenuto per lunghi decenni nei partiti comunisti.

Nel Pci il dissenso era concepibile soltanto ai più alti livelli e purché nulla ne trapelasse all’esterno. Per tutti valeva invece il verbo del Partito. Ciò che esso aveva stabilito era giusto, indiscutibile e obbligatorio: non rimaneva che obbedire. Se il Comitato Centrale arrivava a dire che quella ungherese non era una rivoluzione di popolo contro l’oppressione di uno Stato straniero ma una sommossa organizzata e pagata dagli imperialisti, timidi galantuomini come Giorgio Napolitano erano disposti a gridarlo nelle piazze.

È questo uno dei lati più patetici del M5S. Il comunismo, fenomeno grandioso sia nei progetti sia nei crimini, si nutriva almeno di una grande illusione palingenetica e si fondava sulle teorie di un supposto genio come Karl Marx. Qui invece è indiscutibile il pensiero di un tecnico capelluto come Roberto Casaleggio, o di un comico intollerante come Beppe Grillo. Francamente, la storia ha offerto pifferai migliori.

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Quella leadership forte che la sinistra non ama. Giampaolo Rossi


Finalmente la sinistra ha un leader. Un passaggio storico di non poco conto. Ha un leader giovane, brillante e incisivo; un leader non conformista e non impaludato nella ritualità della vecchia politica ma che dalla vecchia politica ha preso la migliore abitudine: quella di dire una cosa e fare esattamente l'opposto.
Un leader spregiudicato quel tanto che basta per accoltellare alle spalle il suo amico mentre continua a dirgli «non lo farò mai». Uno di quelli che parla a braccio con la mano in tasca ma che è meglio non avere dietro. Un leader, insomma, capace di piacere alla gente che piace, alle élite, ma anche capace di parlare alla gente a cui della gente che piace non frega nulla; uno di quelli che potrebbe conquistare la mitica «casalinga di Voghera», simbolo di quell'Italia inferiore per gli intellettuali radical-chic, ma che poi è quella che fa vincere le elezioni. Insomma, un leader «gagliardo», come dicono dalle parti di Forza Italia dove di leader gagliardi sul serio se ne intendono assai. Ma allora, perché la sinistra, di fronte al fenomeno Renzi, rimane inquieta e intimorita? Cosa la spaventa tanto del leader?
Semplice: la leadership. E la questione non è solo politica ma psicologica. Dalla morte di Berlinguer la sinistra italiana non si è mai confrontata con la complessità di un leader, di un capo, di uno statista. Per trent'anni, un'intera generazione di dirigenti politici e burocrati di partito ha liquidato il suo rapporto con la storia attraverso le idee: che queste fossero infarcite di antiberlusconismo o costruite attorno alle fumose parole del Novecento (progresso, uguaglianza, solidarietà, redistribuzione, Stato) andava bene comunque, perché seguire un'idea è molto più facile che seguire un uomo. Le idee sono ecologiche, non sporcano, sono sempre stirate, anche quelle sgualcite dagli anni. Un'idea è pulita, maneggevole, comoda per ogni evenienza; la usi, la ricicli, la riadatti alle circostanze. L'idea è democratica e rassicurante perché consente a tutti di credere di saper pensare qualcosa. Le idee sono accomodabili perché aiutano a costruire la realtà non partendo da ciò che è ma da ciò che tu credi che sia; le puoi proiettare sul maxischermo della tua mente e far apparire il mondo come un posto dove tu non sei, basta che ci siano gli altri: gli ideologi sono per loro natura degli alienati. Al contrario la leadership non è ecologica, è antidemocratica e non rassicurante. Il leader sporca, si sgualcisce nel tempo che scorre sulla sua vita. Seguire un'idea è facile, seguire un leader è difficile, perché di un leader devi seguire tutto: non solo il suo potere ma anche le sue contraddizioni, le sue umane cadute, le sue difficoltà, i suoi entusiasmi e le sue sconfitte. Un leader lo devi amare, temere, odiare, rispettare; lo puoi tradire o conquistare, ma la sua parabola storica diventa inevitabilmente anche la tua, perché un leader è carne e anima; qualcosa con cui ti devi mischiare se vuoi far parte di lui. Il genio pensatore di Jean Guitton immaginava Socrate parlargli così: «Mille miliardi di idee non valgono una sola persona. È per le persone che bisogna vivere e morire». Chi segue un leader segue un uomo e quindi può amare oltre se stesso; chi segue un'idea sa amare solo se stesso. Non sappiamo se la leadership di Renzi cambierà l'Italia; ma forse riuscirà a cambiare la sinistra, trasformandola in qualcosa di meglio dell'impersonale macchina di odio che abbiamo conosciuto in questi anni.

(il Giornale)

 

giovedì 20 febbraio 2014

Disonestà fiscale. Davide Giacalone


Dai bonifici che si ricevono dall’estero ai pannelli solari da accatastare, il satanismo fiscale parte dal principio che siamo tutti dei disonesti, salvo che non si sia in grado di dimostrare il contrario. Sembra cattiveria, invece è stupidità frammista a incapacità, in una miscela che fa dello Stato il primo disonesto.

Se lavoro per un cliente che ha sede all’estero e quello mi paga mediante bonifico è ovvio che devo pagarci le tasse, come è ragionevole supporre (a meno che non si sia degli sprovveduti incoscienti) che il trasferimento sia avvenuto a seguito di fattura, per sua natura fiscalizzata. Ma ora, in virtù della legge 97 del 2013, il fisco dice che l’intermediario finanziario (la banca) deve agire da sostituto d’imposta e prelevare il 20%, a titolo di acconto (come sulle normali fatture Italia su Italia, in cui è il soggetto pagatore a far da sostituto d’imposta). A quel punto la banca preleva il 20% su tutto, anche sui bonifici con cui gli emigranti sostengono le famiglie, o sull’omaggio di un nipote alla nonna. Siccome si tratta di trasferimenti non sottoponibili a prelievo fiscale, ove si voglia evitarlo si deve fornire la documentazione che attesti di non essere degli evasori. E già questo è abominevole.

Ma non basta, perché nell’autocertificare che non sei un evasore devi anche produrre non solo i riferimenti alle leggi sulle quali basi la pretesa d’essere una persona onesta, ma anche allegarne copia. E se la banca avrà dei dubbi procederà ugualmente al prelievo, salvo il diritto del cittadino di chiederne la restituzione. A quel punto, però, non solo dovrà perdere del tempo, nel mentre il suo denaro resta in mani altrui, non solo nessuno gli riconoscerà il danno e gli interessi, ma dovrà pregare di non avere sbagliato a collezionare le leggi, per presentarle allo Stato che le emette, giacché, in quel caso, potrebbero anche dargli torto. Quindi, per non pagare il non dovuto si dovrà pagare il commercialista e l’avvocato, in un delirio cartaceo che ridicolizza tutte le agende digitali dell’universo.

Ma, si dirà, tutto questo serve a scovare gli evasori. Ne scoveranno solo la parodia. Intanto perché fatemi conoscere gli evasori che incassano i soldi mediante bonifico. Poi perché, se si vuole sfuggire ai controlli, esistono sistemi meno loffi (il fisco provi a pedinare gli immigrati in Italia, che spediscono a casa più di quel che formalmente guadagnano, mediante società per il trasferimento di denaro o usando carte ricaricabili). Infine perché incentivare le rimesse degli emigranti sarebbe un interesse, non un male da combattere. Morale: presunzione d’evasione, persecuzione fiscale, aggravio di burocrazia, gettito aggiuntivo basso, e in gran parte dovuto a rapina.

Dopo avere votato la legge, in un Parlamento che se le fa scrivere e non le legge, l’Agenzia delle entrate e il ministero dell’economia si sono accorti della superba corbelleria, talché, ieri, hanno emanato una circolare e sospeso l’attuazione fino al primo di luglio. La legge resta in vigore, ma congelata. Da dove prenda legittimità una simile decisione è misterioso. Ma non basta, perché per giustificare la vergognosa, e a sua volta illegale, marcia indietro hanno fatto riferimento agli accordi internazionali già esistenti, relativi alla lotta all’evasione fiscale. Peccato fossero esistenti anche ad agosto, sicché all’oltraggio s’aggiunge il mendacio.

Ora andiamo sul tetto, da dove verrebbe voglia di buttare giù chi si fa venire idee di questo tipo. Hanno fatto di tutto per convincervi a metterci i pannelli fotovoltaici, che sono costati e costano (esageratamente) a tutti i contribuenti e a tutti i pagatori di bollette. Ora che li avete messi vi dicono: dovete accatastarli e pagarci l’Imu. Come se fosse stata una vostra idea speculativa, da profittatori di regime. Però, a ben vedere, l’obbligo esisteva già, ma non per le famiglie, per gli impianti produttivi. Cosa cambia, allora? Cambia che, come per i bonifici, si parte dall’idea che si sia tutti imbroglioni, tutti evasori e tutti produttori abusivi d’energia elettrica. Ove, invece, abbiate solo messo un pannello per lo scaldabagno, quindi sotto i 3 kW, e se la rendita dell’immobile non aumenta più del 15%, allora continuate a non dovere fare niente. Solo che per dimostrarlo dovete produrre la solita montagna di documentazione, sperando di non sbagliare e che sia letta. Per tutti gli altri, ugualmente incentivati, cresce la tassazione, che assume le vesti di un vero e proprio imbroglio: ti induco a fare quel che poi passerò a maggiormente tassare. Intanto abbiamo favorito l’acquisto di pannelli fatti in Cina. Geniale.

Il tutto avviene nel mentre si blatera di semplificazione e diminuzione della pressione fiscale, in realtà organizzando degli autentici sabba dell’allegato e dello slealmente dovuto. Chi ha organizzazione e supporti professionali ne sentirà solo il fastidio, mentre i poveri diavoli che mandano a casa i soldi sudati (e già tassati), o che pensavano di risparmiare facendo i solari, si troveranno nel loro ambiente di riferimento: all’inferno.

Pubblicato da Libero

venerdì 14 febbraio 2014

Fine del ventennio Antiberlusconiano. Salvatore Tramontano


Il Pd prende tutto. Benvenuti nel partito-Stato. In quella variante di moda del poker chiamata Texas hold'em l'azzardo, con rilancio di Renzi, si chiamerebbe all in. E non c'è dubbio che ci voglia coraggio. Fatto sta che la mossa è ai limiti della democrazia. Con una semplice direzione di partito il segretario fiorentino apre la crisi di governo, manda a casa il premier, decide da solo chi farà parte della nuova maggioranza, indica come e dove cambiare la Costituzione, sceglie i ministri e blinda la legislatura fino al 2018. Tutto questo senza neppure mettere piede in Parlamento e con lo scrupolo di facciata di non poter andare al voto: «Sarebbe stato opportuno, ma non ci sono le condizioni». Stop.
La fortuna di Renzi è che tutti erano ossessionati dal marcare Berlusconi. Pensate cosa sarebbe accaduto se una mossa del genere l'avesse fatta il Cavaliere: padrone dell'Italia, dittatore, autocrate, uno che tratta il Paese come se fosse un'azienda personale. Avremmo visto in piazza i nuovi resistenti, intellettuali piangenti avrebbero annunciato che l'ultima speranza era trasferirsi in massa all'estero (il modo migliore per far saltare gli accordi di Schengen). Gli autorevoli quotidiani e magazine tedeschi, inglesi, francesi, liberal a stelle e strisce avrebbero parlato di colpo di Stato. Ma Renzi non è Berlusconi. È un ex ragazzino che ha spiazzato tutti. La sua forza è che nessuno lo considerava credibile. Non solo. Gli va riconosciuto che non ha paura di bruciarsi. A questo treno di riforme ci crede davvero, e non si fa tanti scrupoli a rispettare la prassi di una politica che da tempo si incarta su se stessa. Renzi ha avuto lo spazio per agire e la sfrontatezza di non preoccuparsi delle conseguenze di quello che fa. Se c'è qualcosa da rompere, rompe. Lo sta facendo anche con il suo partito. Lo ha buttato per terra e fracassato. La direzione di ieri non è stata solo l'azzardo di un uomo, ma lo psicodramma di un partito, di una classe dirigente, di un popolo profondamente conservatore, se non addirittura reazionario. Renzi ha rottamato la sinistra che voleva rottamare Forza Italia. Ha messo fine al ventennio. Antiberlusconiano. Il Pd non ha la forza di combattere Renzi. Non lo ama, ma sa che senza di lui non solo deve rassegnarsi alla sconfitta, ma probabilmente non ha neppure un'idea su dove andare. Il Pd ossessionato dal Cavaliere non aveva più una politica. Renzi gli ha detto che si può andare oltre. Il rischio che si bruci resta altissimo, ma perlomeno ha dimostrato che si può non avere paura del futuro. Come Berlusconi.

(il Giornale)

 

giovedì 13 febbraio 2014

Processo al Parlamento. Davide Giacalone


C’è un nesso fra il processo in corso a Napoli e l’instabilità politica che si trascina da anni, in queste ore capace di dilaniare il Partito democratico e sfarinare l’ennesimo governo. Un nesso che non si vede solo a patto di coprirsi gli occhi con il fanatismo. A Napoli si procede penalmente, con la pretesa di punire la compravendita di senatori. La sola ipotesi che un reato simile possa essere contestato dovrebbe suscitare lo scandalo istituzionale e giuridico. Così come, del resto, il fatto che degli eletti cambino schieramento per convenienze personali è giusto crei scandalo politico e morale.

E’ vero che esistono esempi, nella storia e nelle diverse democrazie, di cambi di casacca con nobili intenti e risultati positivi. Ma è più facile e frequente che si tratti di opportunisti, trasformisti e avanzi di politicantismo. Nel caso specifico, quando un drappello di pretesi “responsabili” soccorse il governo di centro destra, appena reduce da una scissione della propria maggioranza, qui scrivemmo che si trattava di un errore. Sia pure con l’attenuante che il presidente della Repubblica rifiutava di aprire la più logica e pulita via d’uscita: le elezioni anticipate. Ma questo è il ragionamento politico. Prevale, ora, quello istituzionale e giuridico.

Il solo fatto di potere contestare il trasloco interessato di parlamentari, quindi il solo fatto che l’autorità giudiziaria possa entrare nel vivo della vita parlamentare e valutare la legalità dei voti espressi, è sufficiente a dichiarare morta la democrazia parlamentare. Ove mai le presidenze delle Camere, così come tutti i gruppi parlamentari, a cominciare da quelli non direttamente coinvolti, avessero una sia pur pallida idea della dignità politica e della libertà parlamentare, ci si sarebbe dovuti attendere una sollevazione. Invece il silenzio s’accompagna al compiacimento. Vado oltre: fra i poteri costituzionalmente elencati del presidente della Repubblica, non a caso collocato a capo degli ordini da considerarsi subordinati al potere legislativo ed esecutivo, c’è quello di sorvegliare la permanenza dell’equilibrio fra i poteri, sicché sarebbe stato opportuno sentire l’alto monito del Colle. Invece si sentì solo relativamente a una propria testimonianza, cosa che lo indusse anche a consultare la Corte costituzionale. Per gli altri poteri, evidentemente, non si ha eguale sensibilità.

La Costituzione prevede esplicitamente l’assenza di ogni vincolo di mandato, quindi ammette, senza equivoci, che ciascun parlamentare non solo non ha legami indissolubili con il proprio elettorato (che, del resto, non conosce), ma neanche con il proprio gruppo parlamentare o partito. E’ la Costituzione a prevedere che i governi prendano la fiducia nelle due Aule, dovendosi raccogliere il voto di ciascun parlamentare, non la sommatoria degli iscritti ai vari partiti. E’ la Costituzione, pertanto, a tutelare la libertà di ciascun eletto, che, di volta in volta, può votare o negare la fiducia. Ciò non toglie che se un eletto con l’opposizione poi si converte al convento governativo, chi lo ha sostenuto, candidato o eletto ha il metaforico diritto di sputargli in un occhio. Ma se la faccenda si sposta in tribunale a perdere la libertà non è l’imputato, ma il Parlamento. Se i partiti che elessero i trasformisti (quindi i responsabili del prodotto) si costituiscono parte civile, il processo diventa politico e alla politica. Addio Stato di diritto.

Dal Parlamento inglese a quello statunitense è assolutamente normale che le leggi di spesa, in primis il bilancio statale, aprano una stagione di trattative e baratti. I parlamentari onorabili scambieranno il voto a favore su una cosa con il favore altrui verso gli interessi che rappresentano. Quelli disonorevoli negozieranno favori personali. Ma è normale, oltre che infinitamente migliore degli scontri fra truppe ideologizzate. Poi ne rispondono agli elettori, con una stampa che racconta tutto (sempre). L’idea che possano risponderne in tribunale farebbe inorridire qualsiasi difensore della democrazia. E se, come pare, ci sono stati passaggi segreti di denari, magari all’estero? Allora non si risponde del voto espresso, ma di reati che vanno dall’evasione fiscale ai fondi neri, a reati valutari. Non serve il “movente”, bastando dimostrare il fatto.

Il legame con la scena politica è solare: il problema non è che (non) governi Letta o che ci provi Renzi, ma che, nella situazione data, chiunque lo fa senza una maggioranza elettorale. Il che comporta, anche solo per approvare sistemi elettorali maggioritari, la condivisione della storia e di alcuni valori democratici, a cominciare dal rispetto dell’opposizione. Che va a farsi benedire se s’insiste nella pretesa di mandarne carcerato il capo. E mentre su vicende imprenditoriali o sessuali, sebbene con non poca ipocrisia, si può far finta di sostenere che sono affari personali, su una faccenda come questa è impossibile. Talché l’Italia resta ingovernabile finché ciascuno può gridare al “colpo di Stato” ogni volta che l’altro prevale. Lo capiscono tutti. Tranne i fanatici. Che da troppo occupano la scena.

Pubblicato da Libero

venerdì 7 febbraio 2014

Ghigliottina e antifascismo. Diego Fusaro


Nei giorni scorsi, la Camera ha approvato in via definitiva la conversione in legge del decreto su “Imu” e quote “Bankitalia” nell’ultimo giorno disponibile prima della decadenza, tra le proteste dei grillini. Laura Boldrini ha aperto la votazione, dopo avere troncato, tramite una decisione senza precedenti: ha applicato la cosiddetta procedura parlamentare della “ghigliottina”, il dibattito che proseguiva da due giorni per l'ostruzionismo del “Movimento 5 stelle”. I deputati di “Sel” dopo il voto finale sul dl Imu-Bankitalia hanno intonato “Bella Ciao”.

Quest’ultimo è stato l’aspetto più patetico di una vicenda di per sé già oltremodo patetica. L’antifascismomaniacale in assenza conclamata di fascismo resta uno degli aspetti più vergognosi di una sinistra che deve mantenere permanentemente vivo il mito del nemico fascista per non dire nulla contro il capitalismo: si intona “bella ciao” e intanto – con il vile appoggio di Sel – si svuota la sovranità e ci si sottomette sempre più marcatamente ai vincoli europei, che sono più a destra di Attila, re degli Unni.

L’antifascismo permette oggi alla sinistra di non prendere posizione contro la teocrazia emanativa del mercato, con tutte le esiziali contraddizioni che essa fisiologicamente secerne (dalla reificazione al classismo più indecente, dalle aggressioni imperialistiche alle nuove forme di sfruttamento e di schiavitù salariata). L’antifascismo in assenza di fascismo è oggi il mezzo che permette alla sinistra di diventare il luogo di legittimazione della violenza capitalistica: per Nichi Vendola e i suoi compagni, la violenza è sempre e solo quella dell’olio di ricino e del manganello, mai quella dei vincoli europei, dei Fiscal Compact, dei contratti di lavoro che rendono a tempo determinato la vita stessa.

Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale. Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno, così, cessato di essere intese per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. La patetica scena è memorabile: mentre l’Italia viene svenduta, SEL e PD intonano “bella ciao”. La situazione è tragica, ma non seria.
 
(Lo Spiffero)
 
 

Il sistema Sofri-Bignardi. Mario Adinolfi





Se c'è un tabù che non può essere toccato in Italia è il sistema di potere Adriano Sofri-Daria Bignardi-Luca Sofri. Dite male di chi volete, in Italia la maldicenza è sport nazionale, ma non azzardatevi a toccare quel triangolo. Ve ne verrà solo male. Il comico intervento di Enrico Letta emesso nella forma solenne del comunicato stampa di Palazzo Chigi per difendere i tre da una battuta che ci stava tutta del M5S (se a Di Battista fai tre domande inutili e petulanti sul padre "fascista", ti si potrà ricordare il suocero mandante dell'assassinio di un servitore dello Stato 34enne con due figli piccoli?) attiene a questo capitolo: quel triangolo di potere non si tocca,
Adesso arrivano in forze Giuliano Ferrara, Gad Lerner, il conduttore di XFactor Extra e Ante, Macchianera e tutti quelli che sperano di farsi accreditare da una bella intervista "barbarica", esponente tipo: Selvaggia Lucarelli. Tutti quelli che hanno fatto a gara per far dimenticare e tutti quelli che non hanno mai saputo.
Non hanno mai saputo che il sistema di potere è talmente ben congegnato che colui che Adriano Sofri mandò a sparare a Luigi Calabresi, a freddo da vigliacco alla schiena, si chiama Ovidio Bompressi e in Italia la grazia al povero disgraziato che sta morendo in carcere non la danno mai (ultimo caso, Vincenzo Di Sarno, a Poggioreale, googlatevi la storia e vedetevi la risposta del Quirinale) ma a Bompressi sì. Napolitano graziò Bompressi a tempo di record, otto anni fa, perché era "malato incurabile". Inutile dirvi che è ancora tranquillamente tra noi. Libero.
L'altro assassino di Luigi Calabresi si chiama Giorgio Pietrostefani, mandante dell'omicidio come Sofri. Avete presente il metodo Raffaele Sollecito? Lo condannano in secondo grado e subito gli tolgono il passaporto e se fa una gita di mezza giornata in Austria si mobilitano polizia, carabinieri e tutti i giornali. Giorgio Pietrostefani annunciò che non si sarebbe fatto prendere e il 24 gennaio 2000, giorno in cui venne condannato in secondo grado, applicò la promessa andandosene latitante in Francia. Qualche giornale ha mai gridato alla scandalo? Ma no, so' ragazzi...
I sistemi di potere funzionano così: ci si protegge e ci si fa propaganda. Se si viene toccati, altri sistemi di potere scattano in difesa. Cari ragazzi di M5S, voi ne fate di stupidaggini da inesperti, ma la più grave di tutte è toccare il sacro triangolo Sofri-Bignardi-Sofri jr. Ora Floris inviterà quest'ultimo a Ballarò, Aldo Grasso scriverà un nuovo articolo su quanto è brava la Daria quando intervista Barbara D'Urso e tutti gli arbitri dell'eleganza altrui scriveranno che il vostro addetto stampa ha le labbra rifatte al silicone. Poi un po' di birignao, un po' di lernerismi e di ferrarismi, il piatto completo sarà servito.
L'orrore di cui sono stati capaci quegli infami è tabù. Il loro sistema di connivenze anche. Imparate la lezione e non dimenticatela.


(Mario Adinolfi blog)

 

Cara figlia mia, non vergognarti di un papà fascista. Marcello Veneziani


Ritrovo una lettera che scrissi a mia figlia tredicenne, la dedico a Daria Bignardi che ha chiesto al grillino Di Battista se si vergogna di suo padre «fascista».

«Cara Federica, sei tornata da scuola sconcertata perché la professoressa d'italiano ti ha chiamato in disparte e ti ha detto: hanno scoperto che sei la figlia di..., ne hanno parlato in consiglio d'istituto. Te la faranno pagare. Qui sono tutti dell'altra parrocchia. E l'anno prossimo che vai al liceo, mi raccomando, se ti chiedono se sei figlia di... nega, dì che è un caso di omonimia. Ti possono fare del male. Non dire ai professori né ai compagni di scuola chi è tuo padre... Cara Federica, non so se la tua professoressa abbia esagerato, soffra di mania di persecuzione oppure no. A me sembra impossibile che succedano oggi queste cose. Mi sembra impossibile che in una società liberale e indifferente, cinica e buonista, aperta a ogni diversità, che non crede praticamente in niente, ci sia qualcuno che crede ancora all'esistenza del diavolo di destra. Un male per giunta genetico, razziale, ereditario, se ricade su di te, ignara tredicenne, solo perché sei mia figlia.

Mi hai raccontato che un gruppo di tuoi compagni di scuola ti ha accolto una volta con canti e slogan antifascisti. E mi hai raccontato di un amico che è venuto a trovarti a casa e si è meravigliato di trovare così tanti libri in casa di un “fascista”, e per giunta molti libri su Che Guevara. Non conosceva gli altri autori, ma ce ne sono tanti di tanti diversi orientamenti. Ma a loro avevano raccontato che i fascisti leggono solo le massime di Hitler e in casa non hanno libri, solo manganelli. Per fortuna non hanno scoperto che tuo fratello è nato lo stesso giorno di Mussolini, un segno evidente di neo-fascismo ereditario.

No, Federica, non credere alla tua professoressa e nemmeno ai tuoi compagni. Non devi nascondere di essere mia figlia. Non devi vergognarti di tuo padre. Non solo perché non ci si vergogna mai dei propri padri, dei loro limiti, dei loro errori e della loro povertà. Ma anche perché non hai nulla di cui vergognarti. Devi sapere, Federica, che sarebbe stato assai tanto più facile per tuo padre professare altre idee. Avrebbe avuto la vita più facile se avesse scelto la via opposta. All'università, nei giornali, sui libri, nella vita.

Oggi a te chiedono di buttarla sull'omonimia; ieri a lui, e non solo a lui, chiedevano di firmare gli articoli con lo pseudonimo. Eppure tuo padre non ha mai ucciso, picchiato e minacciato nessuno. Non ha mai impedito a nessuno di esprimere le sue idee. Non ha mai derubato, corrotto e truffato nessuno, semmai ne è stato vittima. Non ha mai discriminato e rifiutato il dialogo con nessuno. Non ha nemmeno solo teorizzato di eliminare gli avversari né ha mai sottoscritto manifesti di cui debba vergognarsi. Non ha cambiato casacca, e nutre le stesse idee che aveva da ragazzo. Non è rimasto imbalsamato ma non è pentito di nulla, non ha dovuto rimangiarsi nulla e si professa “di destra”, per quel che può valere, oggi come allora.

Tuo padre ha creduto in idee che tu potrai liberamente accogliere o rifiutare, ma che hai il dovere di rispettare: perché sono idee e non mazzate, sono pensieri scontati sulla propria pelle e non su quella altrui. Un giorno capirai che l'amore aspro per la libertà, anche trasgressiva, era più dalla parte di tuo padre, “il fascista”, che dei suoi censori. Che gli negavano la libertà d'opinione nel nome della stessa. Alcuni lo fanno ancora adesso. No, Federica, non dire che è un caso di omonimia. Non ti chiedo di essere orgogliosa di tuo padre, ma di non nascondere le tue origini. Oltretutto un po' mi somigli, anche se la cosa ti fa inorridire. Non ci si deve vergognare dei propri padri».

P.s. Smettetela di tirare in ballo per ogni fesseria e per ogni torto subìto fascismi, dittature, colpi di stato. Non confondete miserabili farse con tragiche grandezze e meschine intolleranze con l'avvento di regimi dispotici. Abbiate rispetto per la storia, per chi la fece e per chi la patì. E la Bignardi si ricordi, essere figli di fascisti non è una scelta, mentre diventare nuore di Sofri sì. E poi, al di là di quel che dite, essere fascisti non è un crimine, uccidere un commissario di polizia invece sì.

(il Giornale)