domenica 14 dicembre 2008

Meglio una riforma alla Berlusconi che nessuna riforma. Antonio Polito

Con i chiari di luna della giustizia visti tra Salerno e Catanzaro, con l'opposizione incastrata nella stessa trappola giustizialista che per anni ha esaltato, e con un grande fratello che a Catanzaro avrebbe accumulato centinaia di migliaia di intercettazioni in un archivio misterioso, gli sarebbe bastato alzare un dito ed invitare al tavolo l'opposizione per diventare lo storico artefice di una «riforma condivisa» della giustizia così come lo invitavano a fare il presidente Napolitano e il presidente Fini.
Tutto questo è giusto. E anzi, le cose stanno perfin peggio. Perché penso che Berlusconi non si comporti così per mero gusto cesarista, ma perché ha una maggioranza che, pur essendo numericamente forte, è politicamente fragile sul tema giustizia. Nè la Lega, né una buona fetta di An hanno alcuna voglia di seguirlo sulla strada del corpo a corpo coi giudici (la Lega governa troppe città e province per non aver timore dei giudici). Lui è dunque costretto ad alzare la posta per farsi seguire, e non è neanche sicuro che alla fine ci riesca.
Ma detto questo, che è politique d'abord, quello che non capisco è perchè si rimproveri a Berlusconi - come hanno fatto ieri Corriere e Repubblica - il ricorso allo strumento della legge costituzionale. Mi pare, anzi, che solo la via della revisione costituzionale offra le più elevate garanzie alla minoranza, perché prevede due letture parlamentari, maggioranze qualificate, e il ricorso al referendum popolare nel caso che quelle maggioranze non si raggiungano.Insomma: abbiamo tutti rimproverato al premier di aver fatto ricorso, tra il 2001 e il 2006, all'abominevole uso delle leggi ad personam. In quel caso, invece di riformare la giustizia, il premier pensò a riformare i processi che riguardavano lui e i suoi amici. Fu giustamente criticato, e penso anche sanzionato dal voto popolare, perché tra quei ventimila elettori che gli mancarono per vincere, c'era sicuramente gente che avrebbe preferito che si fosse dedicato di più al paese e meno a se stesso.
Quando poi Berlusconi ci ha provato con la via delle leggi ordinarie, come in questa legislatura con la legge sulle intercettazioni, ugualmente è stato rimproverato di voler intervenire a colpi di maggioranza su un aspetto delicato e importante delle indagini. E in effetti con la legge ordinaria è più facile imporsi a colpi di maggioranza, basta un voto in più.
Dunque leggi ad personam, no. Leggi ordinarie, no. E ora anche leggi costituzionali no. Il sospetto che tra i critici di Berlusconi, che si appellano ai sacri princìpi della democrazia, si annidino tutti coloro che semplicemente non vogliono alcuna legge di riforma della giustizia è dunque forte, e perfettamente giustificato in un paese in cui chi tocca la giustizia di solito muore (da ultimo Mastella).
Io penso che sia molto peggio non riformare la giustizia, nelle condizioni in cui è oggi, che riformarla per via costituzionale. Non conosciamo ancora i progetti e i disegni di legge che Berlusconi presenterà. Né conosciamo la sua reale determinazione, ché altre volte ha annunciato sfracelli è poi è addivenuto a più miti consigli (chi tocca la giustizia muore). Ma se Berlusconi stavolta farà sul serio, avrà secondo noi fatto il suo dovere. L'opposizione avrà tutto il tempo e lo spazio in parlamento per battersi con le sue idee, e alla fine della fiera il popolo sovrano avrà il modo di esprimersi a sua volta con un referendum. Non c'è procedura più democratica prevista nel nostro ordinamento (è successo così anche per la devolution).
Si dice: ma se il Cavaliere agisce per via costituzionale vuol dire che vuol toccare l'equilibrio tra i poteri. È vero. Di questo si tratta. Ogni volta che si tocca la giustizia si tocca l'equilibrio dei poteri, non è che cambiando le regole del processo a Previti non si toccasse l'equilibrio dei poteri. Tanto vale farlo in modo trasparente, riequilibrando per l'appunto i poteri. Si dice: ma se agisce per via costituzionale vuol dire che vuole toccare il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. È vero. Ma ci pare di ricordare (citiamo un articolo firmato dal segretario del Pd sul Riformista) che anche Veltroni lo proponeva in campagna elettorale. E giustamente, perché il problema si annida lì, nel fatto che dietro l'obbligatorietà si cela l'inevitabile discrezionalità, perché ogni procura è libera di decidere se perseguire più gli scippatori o gli amministratori, più le rapine o più gli abusi d'ufficio.
A meno che non si voglia sostenere che le cose possano continuare così, come sono oggi. Non è solo lo spettacolo della guerra tra Salerno e Catanzaro a farci dire che no, così non si può andare avanti. Anzi, in quel caso bisogna dire che il Csm, sotto la spinta di Napolitano, ha agito tempestivamente e bene, spegnendo subito l'incendio. Il problema è perché scoppiano gli incendi. Secondo me scoppiano perché in Italia ci sono due diverse opinioni su che cos'è il lavoro dei magistrati. C'è chi pensa che debbano reprimere e punire i reati, e dunque agire quando apprendono una «notitia criminis». Io sono di questa scuola, ma devo avvisarvi che il nostro codice non definisce nemmeno che cosa sia una notizia di reato. Poi ci sono quelli che pensano e dicono che i magistrati devono invece svolgere un «controllo di legalità». Il che vuol dire che, se non hanno notizie di reati, devono andare a cercarsele, setacciando, magari col sistema delle intercettazioni a strascico, un ambiente, un settore, un'azienda, una giunta, un partito, finchè non trovano il reato. A parte il fatto che questa è, secondo me, un'aberrazione da stato di polizia o da stato etico, dovete sapere che il nostro codice non dice nemmeno che cosa sia questo «controllo di legalità» così sbandierato, né come si debba svolgere.Il risultato di questa confusione è uno strapotere, questo sì abnorme, del giudiziario. Basato sul caos e l'incertezza delle norme, dei ruoli, dei controlli. Strapotere che talvolta colpisce poveri cristi di cui neppure veniamo a sapere, e talvolta colpisce degli altri poteri di cui tutti veniamo a sapere e che, essendo poteri, sanno difendersi dentro e fuori dal processo.
E infatti la realtà della vita italiana da quindici anni a questa parte è una lotta continua tra poteri: a mio parere una delle cause più gravi della crisi e della paralisi italiana. Se a questa lotta continua si vuole davvero mettere fine, lo si può fare solo attraverso la legislazione, funzione che la Costituzione affida al parlamento, e che può svolgersi anche attraverso revisioni costituzionali, secondo la previsione dell'art. 138 della Carta.
Dopo essersi lamentati dello scarso galateo istituzionale di Berlusconi, dunque, e dopo averlo invitato a toni più rispettosi dell'opposizione, e dopo avergli segnalato che una riforma così importante si fa meglio in un clima più disteso e sereno che nella solita guerra civile all'italiana, bisogna poi aggiungere una cosa: meglio una riforma alla maniera di Berlusconi che nessuna riforma. Chi non la pensa così, dovrebbe avere l'onestà intellettuale di dichiarare che invece, per lui, è meglio nessuna riforma della giustizia. (il Riformista)

1 commento:

Anonimo ha detto...

"A Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista e presidente emerito della Corte costituzionale, Repubblica chiede di riflettere ad alta voce sul significato e il valore dell’annuncio di Silvio Berlusconi: il premier vuole riformare, con la sua sola maggioranza, il Consiglio superiore della magistratura; separare in due diversi ordini la magistratura giudicante dalla requirente (i pubblici ministeri); un referendum popolare dovrebbe poi confermare entro tre mesi il disegno.

“Prima di discutere il merito – dice Zagrebelsky – qualcosa va detto sulle riforme mancate, sulle colpe, le responsabilità dei riformatori finora mancati. Mi definisco un conservatore costituzionale. Penso che il lavoro compiuto all’inizio di un ciclo politico sia sempre più apprezzabile, migliore, di un’attività in corso d’opera. E tuttavia non è che non veda come un grave deficit non aver adeguato i meccanismi di garanzia della Costituzione alle trasformazioni del sistema politico. Ne è un esempio proprio l’articolo 138 ...”.

L’art. 138 della Costituzione regola le leggi di revisione della Costituzione.

“Appunto, l’art. 138 prevede che le riforme costituzionali debbano essere approvate con un ampio consenso raccogliendo il voto della maggioranza e di una parte dell’opposizione”.

Qual era il significato di questo consenso qualificato?

“Che la Costituzione, la sua manutenzione, le sue modifiche non dovessero essere appannaggio della pura maggioranza. Poi però le leggi elettorali hanno cambiato il sistema politico, polarizzandolo su due sponde e ora chi ha il sopravvento nella competizione elettorale e conquista la maggioranza si fa da sé le riforme costituzionali”.

Salvo poi sottoporle a referendum popolare, come ha ricordato Berlusconi.

“Berlusconi ha fatto un discorso piano. Prende atto della disciplina costituzionale, si fa votare la sua riforma con la maggioranza che il sistema elettorale attuale gli ha dato, chiede al referendum l’approvazione definitiva. Anche se ineccepibile, però, questo metodo cambia profondamente l’essenza stessa della Costituzione”.

Perché, se quel metodo è previsto dalla stessa Costituzione?

“Perché ci sono due nozioni di Costituzione. La prima considera la Costituzione come strumento di chi governa. Per Cromwell, la Costituzione, è appunto Instrument of Government. Siamo qui alla presenza di Platone, Aristotele, Hobbes, Schmitt. Per venire al presente o al passato prossimo, non c’è in Sud America vincitore di elezioni, capo-popolo o colonnello, che non abbia e annunci un suo progetto costituzionale: è lo strumento di cui intende servirsi per esercitare il potere”.

Qual è la seconda nozione?

“E’ la nostra. Qui il riferimento è John Locke. La Costituzione è inclusiva. Non è scritta da chi vince contro gli sconfitti. La Costituzione non si occupa di chi sia il vincitore. Scrive principi per tutti, garantisce i diritti di tutti. Noi siamo figli di questo costituzionalismo. La nostra Carta fondamentale è nata con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950. La Costituzione italiana si colloca in questa tradizione. E’ nata per essere inclusiva, per valere per tutti. Non è uno strumento di potere ma di garanzia contro gli abusi del potere. Berlusconi invece vuole fare il Cromwell. Può essere ancora più chiaro se ritorniamo al 138. Quell’articolo prevede che anche un accordo politico ampio possa essere bocciato da una minoranza del corpo elettorale. Come si sa, il referendum costituzionale non ha il quorum e, se vanno a votare il 20 per cento degli italiani, l’11 per cento può bocciare la nuova legge. Il progetto di Berlusconi capovolge questa logica. Non riconosce al referendum un potere distruttivo, ma pretende che sia confermativo della riforma votata soltanto dalla coalizione di governo. Diciamo che la manovra, di tipo demagogico, manomette la Costituzione, annullando lo spirito di convivenza che la sostiene, e la trasforma in strumento di governo, in strumento di potere”.

Si può dire che la riforma annunciata non fa che accentuare quella “china costituzionale” di cui lei spesso ha scritto: indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per la dialettica parlamentare, per la legalità.

“Sì. Un regime liberale-democratico adotta come principio ciò che dice l’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione”. Una Costituzione che diventa strumento di potere contraddice la separazione dei poteri. E’ quel che sta accadendo. Abbiamo già un Parlamento impotente dinanzi a un governo che impone le sue scelte con il voto di fiducia. Ora è il turno della magistratura”.

Lei condivide la previsione che la separazione del pubblico ministero dal giudice anticipa la sottomissione della magistratura requirente all’esecutivo?

“Ci sono molti aspetti discutibili nella divisione del Consiglio superiore della magistratura in due, ma uno è chiaro fin d’ora. Se un pubblico ministero non è un magistrato a pieno titolo, che cos’è se non un funzionario dell’esecutivo? E evidente allora che, secondo logica, quel funzionario dovrà dipendere da un’autorità di governo, così pregiudicando l’indipendenza della funzione giudiziaria e cancellando la separazione dei poteri. Mi chiedo: che bisogno c’è?”.

E’ inutile nascondersi che è lo spettacolo offerto dalla magistratura, con il conflitto tra due procure, ad aprire spazi a questi progetti di riforma.

“Lo spettacolo è sgradevole e la situazione in cui versa la magistratura italiana è certamente insoddisfacente. Ma mi chiedo: le proposte che si avanzano eliminano le difficoltà e i difetti o li aggravano?”.

Qual è la sua opinione?

“Per quel che ho letto, dalle inchieste di Catanzaro sono emersi collegamenti della magistratura con ambienti politici, finanziari, malavitosi. La soluzione che propone il governo – l’attrazione del pubblico ministero nell’area della politica governativa – rafforza quei legami e non elimina quindi le cause delle disfunzioni, mentre bisognerebbe lavorare per rendere effettiva l’autonomia della magistratura dai poteri economici, amministrativi, politici e, naturalmente, criminali. Il disegno di riforma, codificando una dipendenza, avrà un solo effetto: eliminerà la notizia di quei legami, non la loro esistenza. Continueranno a esserci, ma non si vedranno”.

Quali sono le responsabilità della magistratura in questa crisi?

“Il sistema costituzionale assegna alla magistratura il massimo dell’indipendenza e non sempre questa posizione è stata usata con la responsabilità necessaria. Se le cose funzionano, il merito è della magistratura. Se non funzionano, bisogna dirlo, è della magistratura il demerito”.

Quali sono le ragioni o le prassi o le convinzioni che inceppano l’autogoverno della magistratura?

“Non c’è dubbio che la formazione di correnti, che all’inizio è stata favorita da un confronto culturale (culturale era il dibattito su come si dovesse interpretare la Costituzione), ha finito per diventare strumento di promozione e di carriera. E’ una degenerazione. Se non hai una corrente alla spalle non assurgi a un incarico direttivo. Solo una corrente può proteggerti quando verrai giudicato per i tuoi errori. Mi sembra che l’autonomia non sia stata gestita nel senso per il quale è stata prevista”.

Forse anche per questo è largo il consenso per una riforma.

“Ci sono le istituzioni e gli uomini. La migliore Costituzione può essere corrotta da uomini mediocri. Una mediocre Costituzione può funzionare bene con uomini capaci. Credo che la magistratura debba fare un severo esame su se stessa. Se il sistema non funziona, non ne porta anch’essa la responsabilità?”.

Lei crede che questa riforma costituzionale alla fine si farà davvero?

“Si può sperare che nella maggioranza ci sia qualcuno che si renda conto della delicatezza delle questioni. Sono in gioco le garanzie, i diritti, i principi e l’eguaglianza del cittadino di fronte alle legge. Perché se la giustizia è controllata dalla politica, la funzione giudiziaria diventa strumento di lotta politica. Mi appare incredibile che si vada avanti su una strada così pericolosa e non ci siano voci responsabili che denuncino il pericolo, anche all’interno della maggioranza”.

Se il governo, come dice Berlusconi, tirasse diritto ...

“Siamo in una situazione tristissima. Penso che occorra far breccia nelle convinzioni collettive, spiegare all’opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all’altro secoli di storia e di valori civili”.

da Repubblica.it
del 12 dicembre 2008
Intervista a cura di G. D'Avanzo


Irene