Dalla crisi non usciamo finché il prezzo delle azioni negli Stati Uniti non risale. Quasi la metà della ricchezza delle famiglie americane è investita in Borsa: direttamente, o attraverso un fondo di investimento, e soprattutto tramite i 401(k), un sistema molto conveniente perché consente di risparmiare differendo alla vecchiaia la tassazione del reddito. Solo il 10 per cento dei lavoratori americani possiede (oltre alla pensione sociale) una pensione a «benefici definiti», cioè il cui valore dipende soltanto dagli anni di lavoro, non dai rendimenti di mercato. La maggioranza appartiene al sistema «contributivo»: la loro pensione è investita in un 401(k), e quanto ricevono, o riceveranno, dipende da come va la Borsa. La scorsa è stata un’altra settimana negativa per la Borsa; le perdite complessive del solo mese di febbraio sono il 17%. La discesa è continuata ieri. In dodici mesi il valore delle azioni si è dimezzato.
Pensate ad un lavoratore della classe media, andato in pensione un anno fa a 65 anni. Supponiamo che un anno fa la sua ricchezza, tra titoli e 401(k), valesse 700 mila dollari. Anche essendo cauto e ipotizzando un rendimento reale del 3%, egli avrebbe potuto spendere 50 mila dollari l’anno e non esaurire la sua ricchezza prima degli 85 anni, la sua speranza di vita. Oggi, per mantenersi fino a 85 anni, deve affidarsi alla pensione sociale: ai prezzi di oggi quanto ha risparmiato gli renderà poco più di 2 mila dollari al mese. Non è sorprendente che i consumi stiano crollando. Due anni fa le azioni erano probabilmente sopravvalutate, ma, come scrivevo la scorsa settimana, gli Stati Uniti non sono stati distrutti da una guerra, né da una bomba atomica: le case valgono certamente di meno, ma sono ancora tutte lì, e così anche gli aeroporti, le aziende e il capitale umano: quanto accade in Borsa si spiega solo con il panico e con l’incertezza.
L’incertezza riguarda il valore dei titoli: sui mercati finanziari è scomparsa la liquidità e quindi sono scomparsi i prezzi. Chi vuole vendere deve accettare prezzi che non hanno più alcuna relazione con il valore, per quanto basso, dei titoli che vengono scambiati. E poiché le banche devono valutare i titoli che possiedono ai prezzi di queste transazioni, sono contabilmente fallite. Certo, vi sono casi di vera insolvenza, ma il problema maggiore è l’assenza di liquidità. In agosto, quando già era trascorso oltre un anno dall’inizio della crisi, e l’esposizione a subprime e derivati non era più una sorpresa, ma i mercati ancora erano liquidi, le banche valevano poco, ma non erano fallite. In agosto, quando i suoi guai erano già tutti noti, un’azione di Citigroup valeva 20 dollari: non i 55 di un anno prima, ma nemmeno il dollaro e mezzo che vale oggi. Per riportare liquidità sui mercati e far sì che si rivedano prezzi non «da panico » è necessario che tornino gli investitori.
Da questo punto di vista quelle trascorse sono state due pessime settimane per l’amministrazione Obama. Il piano Paulson — che prevedeva una garanzia pubblica sui titoli detenuti dalle banche, o addirittura in alcuni casi il loro acquisto, e che rimane l’unico piano che avrebbe potuto funzionare—è stato di fatto abbandonato. A un certo punto il team economico di Obama si è lasciato sedurre dall’idea di nazionalizzare le banche, senza capire che questo è il modo infallibile per allontanare ancor più gli investitori dalla Borsa. E infatti, due venerdì fa, quando molti parlavano di nazionalizzazione, Citigroup è crollata del 22 per cento trascinando con sé tutta la Borsa. La nazionalizzazione spaventa, ma non per i motivi per cui spaventerebbe in Europa, cioè per il rischio che la politica influisca sulla gestione del credito: difficilmente negli Stati Uniti accadrebbe ciò che è accaduto qualche giorno fa in Francia, dove il presidente Sarkozy ha nominato un suo collaboratore a capo di una grande banca. Spaventa perché l’intervento dello Stato nel capitale delle banche potrebbe diluire i vecchi azionisti, e quindi ridurre il valore delle loro azioni. Resisi conto di questo errore, i ministri di Obama hanno escluso di voler nazionalizzare le banche, ma poi lo hanno sostanzialmente fatto.
Le modalità con cui giovedì il ministro Tim Geitner ha offerto a Citigroup di convertire in ordinarie le azioni privilegiate che il Tesoro aveva sottoscritto alcuni mesi fa comportano una forte diluizione dei vecchi azionisti. Come spiega Ricardo Caballero sul Washington Post, affinché i vecchi azionisti non venissero diluiti la conversione sarebbe dovuta avvenire ad un prezzo intorno ai 6-7 dollari (un terzo del valore di agosto): invece avverrà a 3,25 dollari. Non sorprendentemente la Borsa è di nuovo caduta. Sembra quasi che il team di Obama non riesca a capire che l’obiettivo primario di queste operazioni non è finanziario: non si tratta—o almeno non in primo luogo—di sistemare i bilanci delle banche, ma di mettere fine al panico. Perché se il panico finisce e torna un po’ di liquidità, i bilanci delle banche, o almeno della maggior parte, si aggiustano da soli. Certo, esiste un mondo diverso, nel quale, scomparsa la liquidità, le Borse vengono chiuse, le banche nazionalizzate e la ricchezza delle famiglie è amministrata direttamente dallo Stato.
Nel secolo scorso, come spiegava domenica Angelo Panebianco su queste colonne, quel modello non ha dato gran prova di sé (sebbene alcuni ritengano che la colpa non fu dell’Unione Sovietica ma di chi la accerchiò). Se non vogliamo ripetere quell’esperimento — e gli Stati Uniti certo non sono pronti a ripeterlo — occorre capire che il punto di partenza per risolvere la crisi sta nel riportare gli investitori in Borsa. A questo scopo spaventarli minacciando nazionalizzazioni è la ricetta più sbagliata. Come già ho ricordato, secondo alcuni storici dell’economia la depressione degli anni Trenta durò così a lungo anche perché il New Deal di Franklin D. Roosevelt diffuse dubbi sul futuro dell’economia di mercato e soffocò gli investimenti privati. (Corriere della Sera)
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4 commenti:
molto intiresno, grazie
imparato molto
La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu
imparato molto
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