domenica 18 ottobre 2009

Il nemico in casa a sindrome che dilania il Pd. Francesco Verderami

Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi»

Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta co­lonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Spe­cie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversa­rio è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tut­ti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vec­chio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segrete­ria, senza aver definito ancora le alleanze.

E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fosse­ro al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democrati­ci avevano lanciato il tema della riforma degli ammortiz­zatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sa­natorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifo­nico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al con­fronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — com­menta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centrali­smo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una co­sa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».

Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaf­fezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «parti­to mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una vol­ta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi ma­li. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il do­po chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizio­ne al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».

Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va mes­sa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il di­rettore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvi­vranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riac­cenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavalie­re. (Corriere della sera)

3 commenti:

fuoco amico ha detto...

Insulta, fai fallire e poi compra: ecco il "metodo De Benedetti"
di Gabriele Villa



«Quando il vizio diventa un precedente, è un pericolo». Chissà se Carlo De Benedetti l’avrà mai letto Benjamin Jonson, poeta, drammaturgo e attore britannico che, già nella seconda metà del Cinquecento, puntava l’indice contro chi, spacciandosi per benefattore, aveva il vizio di infilare una mariuolata dopo l’altra. Dubitiamo. Ma, d’altronde, di quale utilità avrebbe potuto essergli Jonson? La storia dell’Ingegnere, la sua strategia, non hanno mai avuto bisogno di particolari ispirazioni.

Si è sempre saputo muovere con destrezza, sospinto solo da un encomiabile fiuto degli affari. E si è sempre lasciato commuovere da certe sgangherate imprese e da imprenditori o risparmiatori spolpati dai debiti e avvizziti dalla depressione e perciò, ogni volta che ha potuto, si è precipitato in loro soccorso. Con la tecnica delle quattro mosse per arrivare allo scacco vincente. Primo: operazione di delegittimazione (oggi, forse, si preferisce usare il termine sputtanamento) dell’obbiettivo individuato, affidata ai giornali di proprietà (mettiamo Repubblica, per esempio). Secondo: un politico o più politici che sostengono la sua idea magari con un provvedimento ad hoc. Terzo: l’Ingegnere che grazie a quel provvedimento e/o alla campagna stampa allarmistica compra a prezzi stracciati ciò che invece varrebbe sulla carta molto di più. Quarto: la magistratura che indaga, ma alla fine assolve puntualmente De Benedetti. Il modus operandi che abbiamo testé sintetizzato è scritto nel dna dell’Ingegnere, tanto che si può ritrovare pari pari nella vicenda Europrogramme.

Lanciato e ideato con grande successo (75mila sottoscrittori, duemila agenti che raccolsero fiducia e denaro in tutt’Italia) dal finanziere italo-elvetico Orazio Bagnasco, nel 1969, il fondo d’investimento (un fondo di diritto svizzero, autorizzato ad operare in Italia, come all’epoca lo potevano fare soltanto altri otto analoghi fondi lussemburghesi) finì per una rocambolesca quanto surreale vicenda in liquidazione vent’anni dopo. Liquidazione che non fu mai accettata supinamente dai sottoscrittori (anche se alla fine furono in gran parte risarciti dei 615 miliardi di lire investiti, con una cifra nel frattempo lievitata a 880 miliardi) che, riuniti in un comitato di ben 25mila aderenti, e guidati dall’indomito Mario Pretin (autore, fra l’altro, di un libro dal titolo emblematico Furto con stampa) decisero di rivalersi su De Benedetti.

Vediamo perché. Perché, secondo loro, era stata orchestrata una violenta campagna mediatica con articoli allarmistici pubblicati da alcune testate di proprietà dell’Ingegnere (La Repubblica, L’Espresso etc) a firma di Turani, Pansa, Massimo Riva (che occupava anche un seggio in Senato e che da quel seggio fece quanto in suo potere per osteggiare, con l’allora ministro Visentini, il fondo Europrogramme) che, innescando una conseguente fuga precipitosa dei risparmiatori, aveva, di fatto, affossato l’istituto. Non proprio secondario fu il ruolo giocato in quei tempi da Bruno Visentini che, da ministro delle Finanze, ma mentre era anche presidente della Olivetti (sì, proprio l’azienda che fa rima con De Benedetti) caldeggiò e - approfittando di una vacatio legis proprio in tema di fondi - varò un decreto che stabiliva un’aliquota del 30 per cento (poi ridotta in sede di approvazione al 18) sulle plusvalenze, ancorché da realizzare. Un provvedimento che diede la definitiva spallata a Europrogramme.

fuoco amico ha detto...

L’interpretazione, diciamo più vicina alla verità, su questa curiosa storia venne a galla in tutta la sua drammaticità quando, alla fine dell’89, si scoprì che gli immobili di Europrogramme erano stati acquistati dalla Sasea appartenente al finanziere fallito Florio Fiorini, arrestato in Svizzera tre anni dopo ed estradato poi in Italia. In buona sostanza Fiorini, tramite la società ginevrina Reh, aveva pagato il tutto con obbligazioni per 500 milioni di franchi svizzeri e grazie a un credito di altri 250 milioni, erogato dalla banca elvetica Ubs e garantito proprio dalla Cir di De Benedetti. Dietro la Sasea, insomma, sosteneva e sostenne a lungo il comitato costituitosi tra i sottoscrittori, c’era l’Ingegnere. Che prima aveva affossato Europrogramme e, al momento buono, ne aveva comprato il patrimonio con poca spesa.

Che non si fosse andati molto lontano dalla realtà in questa ricostruzione lo dimostra l’indagine sui rapporti De Benedetti-Fiorini avviata anche dalla Procura di Milano (pm Luigi Orsi), che decise di inviare gli uomini della Guardia di Finanza a perquisire gli uffici della Lasa, l’immobiliare (controllata da Cir) che aveva acquistato la Reh. L’inchiesta Europrogramme coinvolse anche cinque ex manager del gruppo Cir sospettati di falsa testimonianza ma, alla fine, tutto esplose in una bolla di sapone. Come la definitiva sentenza d’archiviazione del 4 dicembre del 1998 che giunse dai magistrati del Canton Ticino, competenti per territorio: «Nessuna prova», conclusero i giudici, che Carlo De Benedetti avesse orchestrato ad hoc quella campagna di stampa per provocare il fallimento dei fondi e rilevarne a condizioni vantaggiose gli immobili. «Un nesso di causalità - ebbe a commentare all’epoca il procuratore ticinese Bertoli - che francamente, prendendo in esame la denuncia dei sottoscrittori di Europrogramme, non ho trovato. Per questo motivo, più che d’ipotesi truffaldine, qui bisognerebbe parlare di capacità divinatorie da parte di De Benedetti». Già, capacità divinatorie.

Che portarono, nel caso in questione, l’Ingegnere a impossessarsi di un patrimonio di oltre mille miliardi in immobili. Ma tu guarda che cosa vuol dire saper maneggiare non solo i propri giornali ma anche la sfera di cristallo.

Anonimo ha detto...

e chi compra le sentenze corrompendo i giudici
non lo scrivono gli house organ del Presidente del Mignottismo?

siete tutti uguali, banda di ladri di sinistra e destra