C’è chi, specialmente commentatori tradizionalmente schierati a sinistra, ha colto nelle parole di Gianfranco Fini un’encomiabile tensione istituzionale, una giusta preoccupazione per gli equilibri costituzionali. A me sembra l’esatto contrario: le sue tesi sono politicamente legittime, la sua denuncia di scarsa dialettica e democrazia interna al partito che lo ha eletto è fondata (magari poteva accorgersene prima, magari poteva considerare che egli stesso dirigeva in quel modo il suo partito), ma il ruolo che ricopre non è quello dell’agitatore politico, perché la maggioranza elettorale lo ha portato a presiedere la Camera dei Deputati, ovvero a svolgere una funzione di garanzia istituzionale. So che, da diversi anni a questa parte, è invalsa la comica abitudine di sostenere che una persona può parlare dalle 9 alle 12 come libero pensatore, dalle 16 (dopo la pausa pranzo) alle 20 come ministro o presidente e, dopo le 23, come capo politico. Ma sono casi umani, sia quanti lo sostengono che quanti ci credono.
I presidenti delle Aule parlamentari sono eletti dalla maggioranza, quale diretta espressione della stessa area che darà forma al governo. Questa è la lettera costituzionale (fu così anche quando vennero eletti due comunisti, espressione della cogestione parlamentare). L’auspicio, non sempre onorato, è che siano scelte persone capaci di offrire garanzie anche all’opposizione, divenendo interpreti non di neutralità, ma di lealtà istituzionale. Un presidente che, una volta eletto, scopra che la maggioranza fa pena, che i partiti che la compongono neanche esistono (o sono morti), che avalla la formazione di nuovi gruppi parlamentari, composti da suoi amici, perde tutte le caratteristiche costitutive dell’incarico. Con il che, ribadisco, la sua battaglia politica è assolutamente legittima, ma la sua collocazione non più.
Mi hanno colpito i commenti di segno opposto, come i politici subito messisi a rimorchio, perché sono il sintomo di un significativo decadimento della nostra vita civile e politica, per cui il possibile vantaggio sull’avversario, o lo sfruttamento di una sua debolezza (non c’è dubbio che Fini è parte stessa del centro destra), vengono prima d’ogni sensibilità istituzionale. Al punto di pretendere di cambiare le carte in tavola e capovolgere la realtà.
Sono fra i pochi che osservarono la non rilevanza penale (semmai fiscale, a stare a quel che conosciamo) dell’ormai celebre casa monegasca, e scrissi che la questione riguardava più i camerati di un tempo che non la collettività, cui non sarebbe stato sottratto nulla (se non, appunto, il fiscalmente dovuto). E non esito a dire, come qui ho già fatto, che i partiti devono avere una vita interna democratica, fatta di confronto fra idee diverse, naturalmente all’interno di un comune e condiviso indirizzo (altrimenti che ci si è entrati a fare?). Osservo, però, che parlando ai suoi Fini ha ritenuto che la faccenda della casa si debba dirimere in campo penale e che alla sua collocazione istituzionale neanche ritiene di dover far cenno. Due errori.
Sarebbe utile, in un Paese serio, in un mondo politico che non avesse smarrito la bussola istituzionale, che il rilievo sull’inopportunità di restare nel posto inadatto, di non utilizzare a terza carica dello Stato in modo difforme dalla sua natura, giungesse da quanti lo sostengono, come da quanti pur guardano con interessata partecipazione alla sua battaglia. Come la sinistra. Tutto, invece, s’è ridotto a tifoserie contrapposte e isteriche. Con grave danno per le istituzioni.
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