Se Gianfranco Fini volesse far politica, quella vera, non quella di mera sopravvivenza, non avrebbe che da dimettersi. Le conseguenze sarebbero notevoli. Ma deve farlo subito, perché è ovvio che prima o dopo se ne andrà, ma il dopo si colloca nel tempo dell’inabissamento.
Gli errori che si stanno commettendo sono colossali, destinati a lasciare cicatrici profonde. Sul volto delle istituzioni, non solo sulla faccia dei litiganti. Alla fine sarà messa in dubbio l’autorevolezza, forse anche la legittimità, necessaria affinché una classe politica si rivolga al Paese e parli degli interessi collettivi. Senza far ridere o provocare reazioni scomposte.
Quando i duellanti saranno esangui oltre alla salute avranno perso, loro e il pubblico che assiste, memoria del perché cominciarono. Fini non intendeva assecondare la nascita del Popolo delle Libertà, definendola una “comica finale”, poi entrò, anzi: cofondò. Da quando le elezioni hanno decretato il successo del centro destra e gli hanno consentito di sedere dove si trova non ha perso una sola occasione per distinguersi e sfilarsi. Poi ha posto il tema della democrazia interna al suo stesso partito, auspicando dibattito e confronto. Lo scrissi allora e lo ripeto oggi: ha ragione. Il fatto è che il dibattito senza contenuti è come il brodo senza pollo: acqua tiepida. Mi fa un sacco piacere che Fini sia passato dal voler cacciare i docenti omosessuali all’auspicare che possano sposarsi fra di loro, ma il Paese non campa di nozze, di nessun tipo. Bella la posizione sul fine vita, ma è il durante che lascia a desiderare. Guarda caso, infatti, sui tempi che non servono alle distinzioni parolaie, dove si gioca la carne degli interessi pubblici, le posizioni di Fini sono ancora retrograde, datate e sbagliate. Esempi? La separazione delle carriere e la cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, cui si oppone, o il sostegno al corporativismo statalista.
Il dibattito è bello, la democrazia essenziale, ma anche quando riguardano le posizioni che si ricoprono. Fini insiste sul fatto che il presidente della Camera non può, in nessun caso, essere mandato via. Trovo vergognoso il silenzio delle cattedre, l’avallo ad una tesi pazzesca: la Costituzione prevede il sistema per mandare via chi occupa la prima carica dello Stato, come si può credere che la seconda e la terza siano intoccabili? Non è prevista alcuna procedura particolare sol perché non ci sono particolarità da tutelare. Certo, non ci sono precedenti. Non è mai successo che qualcuno si sia asserragliato in quell’ufficio. Ma l’assenza di precedente non dimostra l’assenza di diritto. L’articolo 62 della Costituzione, oltre tutto, prevede espressamente la sollevazione dei presidenti d’Aula dalle loro funzioni, assegnando a quello della Repubblica il compito di convocare il Parlamento. Attenzione: non sto dicendo che deve essere mandato via (deve dimettersi), ma che è pericoloso e deviante sostenerne l’inamovibilità.
Detestabile anche la confusione fra etica pubblica e questione penale. Quando Fini dice che si dimetterebbe ove emergesse con certezza che il mattone monegasco gli è rimasto in famiglia, quando ribadisce di avere fiducia nelle indagini penali (che non lo coinvolgono, o no?), sbaglia. Di grosso. A forza di assistere alla trasposizione penale di ogni conflitto politico o sociale, di trovare il reato adatto a qualsiasi comportamento e di delegare alla magistratura compiti che non le spettano, è andata a finire che se il reato non c’è, o non viene contestato, tutto è da considerarsi ammirevole. Neanche per idea! Che educazione diamo, ai ragazzi? Uno scopre che il figlio ha mentito, non è andato a scuola e si droga, e quello risponde: non è reato. Scusa, figliuolo. L’etica pubblica condanna i bugiardi, come i profittatori, ed esclude che ci si faccia governare da quanti siano facilmente raggirabili. Gli anglosassoni diffidano anche di quelli che hanno l’amante, non per moralismo, ma perché se non riesci a tenere a bada la patta non vedo perché affidarti le chiappe. Non basta che non ci sia il reato, posto che, in casi diversi, si trova sempre un procuratore disposto a sostenere che lo sia anche starnutire al teatro.
L’effetto paradossale, però, è che gli inquisiti dovrebbero essere protetti dalla presunzione d’innocenza, mentre i bugiardi essere affidati al pubblico giudizio. Paradossale perché il processo dura un decennio, mentre la bugia si copre in fretta. Di questo Fini avrebbe fatto bene ad occuparsi nel mentre, invece, ce la metteva tutta per blandire la corporazione togata e la sua cronica inefficienza.
Infine, come ha osservato anche Piero Ostellino, Fini dovrebbe dimettersi non per case cognati e via pasticciando, ma perché il suo ruolo di garanzia è, da un bel pezzo, andato a farsi benedire. E Ostellino cita la lettera di un lettore, giustamente, perché l’evidenza è tale per tutti.
“Fermiamoci tutti”, invoca Fini al termine del suo messaggio. Tregua. Sensato? No. Somiglia ad una richiesta di connivenza. Si fermano per far cosa? Per salvarsi o per agire? Non si tratta di far volare i falchi o le colombe, ma di non immaginare che si possa andare avanti strisciando. Dimettendosi il confronto non sarebbe più immobiliare, ma politico, e al presidente del Consiglio potrebbe chiedere come e per far cosa pensa d’andare avanti, ponendo una questione ineludibile e cercando di costruire una posizione che guardi al futuro. Invece Fini fa dire che le sue dimissioni spontanee sono “pura fantasia”. Vuol dire che era fantasiosa anche la richiesta di democrazia interna, che il vero scopo, chiuso il sipario della sceneggiata, non era il dibattito, ma il buffet.
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