lunedì 20 settembre 2010

Mafiosi in attività. Davide Giacalone

Voi italiani per bene, gente normale che ha la colpa di non coltivare la memoria, leggete che Giovanni Brusca (l’uomo che fece saltare in aria Giovanni Falcone e che fece sciogliere nell’acido un bambino, dopo averlo ridotto ad una larva ed averlo fatto strangolare con la faccia rivolta verso il muro) è oggi indagato perché, nella sua posizione di pentito e potendo muoversi e operare, ha comodamente ripreso la sua attività di criminale. Lo leggete e vi meravigliate, forse anche vi scandalizzate. Leggete quel che segue, e spero vi venga la nausea, che vi sentiate male. Sarebbe un segno di buona salute, mentale e morale.

Brusca fu arrestato nel maggio del 1996. Non ci mise molto a decidere che gli conveniva collaborare, perché il quadro accusatorio era tale che lo attendeva la morte dietro le sbarre, dopo lunga e meritatissima detenzione. Quest’essere, che non definiremo animale per rispetto verso le bestie, debuttò avvertendo i pubblici ministeri che un altro “pentito”, Baldassarre Di Maggio, era tornato comodamente a mafiare. Per la precisione, Di Maggio ebbe modo di ammazzare un paio di persone, con armi comprate a spese dello Stato, visto che erano le casse pubbliche, in quel momento, a finanziarlo. Ebbene, la procura di Palermo, allora diretta da Giancarlo Caselli, minacciò Brusca di calunnia. Di Maggio non si toccava, visto che era l’uomo che reggeva il processo a Giulio Andreotti, il testimone che sosteneva di averlo visto baciare Totò Riina.

Brusca diceva la verità. L’attività criminale di Di Maggio s’era fatta così intensa che la procura stessa decise di intercettare le telefonate del padre. Così fu raccolta una conversazione straordinaria: il genitore si mostrava preoccupato, riferiva al figlio le voci che correvano, e questi gli rispose: “padre mio”, non ti preoccupare “tengo i cani attaccati”. Ho il dominio della situazione. Al processo Andreotti gli fu domandato: chi sono i cani che lei teneva attaccati? E lui rispose indicando i tre pubblici ministeri. Vi gira la testa? Aspettate a crollare.

Quando un collaboratore di giustizia indica delle complicità o riferisce fatti criminali è giusto indagare. Se accusa una persona è giusto indagarla. Se quella persona, però, viene assolta, se i fatti riferiti sono falsi, è giusto che quel “pentito” sia processato a sua volta. Non è mai successo. Forse perché vale la teoria dei “cani attaccati”, c’è sempre il rischio che se si chiede a un “pentito” il perché delle bugie egli risponda indicando i suggeritori.

Sentite questa. Ricorrono i venticinque anni dalla condanna, in primo grado, di Enzo Tortora. Un innocente massacrato, un uomo civile che tentò di fare del suo calvario una lezione per tutti. Un illuso. Ebbene, ad accusare Tortora fu Giovanni Melluso, detto “il bello”, o “cha cha cha”. Prima creduto, da un tribunale, poi sbugiardato. Quando l’assoluzione di Tortora fu definitiva, quando la sua innocenza fu conclamata e certificata Melluso rilasciò un’intervista sostenendo che, comunque, Tortora era uno spacciatore di droga e un affiliato alla camorra. Le due figlie (l’interessato era morto, nel frattempo) sporsero querela. Furono condannate loro, al pagamento delle spese processuali, perché il giudice (Clementina Forleo, frugate nella memoria) sostenne che una cosa è la verità giudiziaria altra quella reale, sicché un cittadino onesto, e assolto, poteva continuare ad essere infamato da un infame che lo aveva accuato.

Se avete coscienza, dovrebbe esservi tornata a gola. Se vivete da incoscienti immaginatevi di fronte a simili toghe. E tremate. Ricordate, inoltre, che è assai più facile che sia io a dovere pagare, per le cose che ho appena scritto, piuttosto che un falso pentito per le sue calunnie o un magistrato per avergli consentito di delinquere, o un giudice per avere sentenziato fuori dalla logica e dal diritto.

Siccome l’unico nostro potere è quello della parola, cominciamo con l’introdurre un pizzico di civiltà e con il cancellare la definizione di “pentiti”. Non credo al pentimento di nessuno di loro, così come non credo alle crisi mistiche degli Spatuzza. Questi sono dei disonorati e restano dei disonorati. Spesso mercenari che parlano a pagamento. Depistatori che usano il verbale al posto del mitra. Macellai degni del più totale e inappellabile disprezzo. Mi sta bene, però, che siano premiati, che abbiano facilitazioni e sconti di pena se collaborano con la giustizia e contribuiscono alla cattura di loro colleghi. Mi sta bene, non ho obiezioni morali fondate sulla loro abiezione morale. Ma a una condizione: alla prima cretinata che mi dici, alla prima volta che ti trovo in divieto di sosta, ti risbatto in galera e sconti la pena di prima moltiplicata per tre.

Tornerò a parlarvi dei Ciancimino, di cosa bolle in quell’olezzante pentolone, ma ho l’impressione che sia tutto inutile. Come si può parlare di civiltà in un Paese in cui Totò Riina incontra in carcere il figlio Giovanni, tutti e due ergastolani, tutti e due in regime di massima sicurezza, tenuti separati per quattordici anni, e le loro parole finiscono su un settimanale. Il quale così introduce lo scoop: Riina sapeva di essere intercettato e lancia messaggi. Riina sapeva d’essere intercettato (mica è scemo), ne approfitta per lanciare messaggi, c’è chi fa uscire il testo della conversazione, non necessariamente completo, e qualcuno pubblica il tutto per fare un piacere al lanciatore di messaggi o a chi ha interesse a diffonderli storpiati? Ma in che razza di Paese viviamo? Con l’aggravante che tutto avviene senza che le solite autorità, i soliti sindacati corporativi, le solite toghe associate e politicizzate si rizzino in piedi a dire che trattasi di un’infamia.

Niente, tutto tace. I cani sono attaccati. C’è Brusca che viene accusato di riciclaggio, falsa intestazioni di beni e tentata estorsione. Dove quel “tentata” è l’unica lesione alla sua onorabilità.

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