mercoledì 15 settembre 2010

Spingarde puntate. Davide Giacalone

E’ bastato che il tempo del governo, e della legislatura, s’allungasse che, immancabile, è subito ripartita la corrida giudiziaria. L’allungamento, con ogni probabilità, è più illusorio che reale, ma le soffiate e le anticipazioni sulle inchieste sono fra le poche cose sicure di questo disgraziato Paese. Così, dalla sera alla mattina, l’inchiesta sulla “cricca” ha ripreso quota, dotandosi anche di un apposito “pentito” e ravanando sul più inutile dei dilemmi, ovvero l’identità di “Cesare”.

Segnalo che i giornali sono tornati ad attingere alle carte della procura dopo che la Corte di cassazione aveva provveduto a bocciarne le posizioni, com’è avvenuto nel caso di Flavio Carboni. Il quale, agli occhi di noi estranei a quale che sia cricca, ma anche a qualsivoglia forma di giustizialismo, continua ad apparire come un maestro di millanteria finito in una classe differenziale, ricolma di scolaretti pretenziosi, ma incapaci. E segnalo una seconda cosa, che dimostra quanto si sia smarrito il senso dell’orrore: non solo le parole del novello “pentito” sono finite direttamente in tipografia, ma anche la sua richiesta di scarcerazione, quale suggello del patto scellerato, da venti anni tollerato: ti arresto non perché ricorra anche una sola delle tre ragioni previste dalla legge, ma perché ti spingo a parlare, tu lo fai e mi chiedi di tornare a casa. Il che avviene sotto gli occhi di una stampa compiacente, riproducente e non scandalizzata.

La posta, manco a dirlo, è Silvio Berlusconi. Il quale forse pensa sul serio d’essere Cesare, ma che, nel caso specifico, sarebbe l’imperatore della bufala, ovvero il referente di un gruppo d’assortiti sbruffoni che andavano vendendosi per piaceri non resi e non rendibili.

Alla ripresa giudiziaria non poteva mancare qualche carta di Vito Ciancimino, dato che ne escono con un ritmo e una gettata che insospettirebbe il più allocco degli osservatori e che, invece, da noi entusiasma gli astanti, pronti a tutto pur di trovare una dannata pezza d’appoggio ad una criminalità di cui non hanno mai dubitato. La carta, questa volta, è la matrice di un assegno staccato da Berlusconi e incassato dal mafioso panormense. Perché lo sanno tutti, specialmente i milanesi cerebrolesi, che i mafiosi si pagano con assegni, in modo da agevolare il lavoro degli storici.

Oramai, in procura, non va più Massimo Ciancimino, l’uomo che si considerava minorenne a trenta anni, vittima del padre e che, adesso, campa grazie a quattrini e fama ereditati. Ora va anche la vedova, la quale sembrerebbe raccontare che sapeva di un incontro a Milano, naturalmente con Berlusconi. Perché, vedete, la cosa più semplice e naturale, per un siciliano che passa la vita a far da servo ai mafiosi, che accumula soldi illeciti e intesta immobili al povero figliolo subornato, la cosa che più gli viene spontanea è tornare la sera a casa e mettere la mogliera al corrente di tutti i dettagli. Specie se si tratta della stessa consorte che ha più corna di un cesto di lumache, la stessa donna che veniva picchiata se solo s’azzardava a sostenere che l’andazzo non era poi il massimo della vita.

L’assegno rinvenuto, poi, si trovava a casa della figlia di Ciancimino, sorella del ciarliero e depistante Massimo. E noi, che siam povera gente, ci chiediamo: ma le case dei mafiosi e dei loro congiunti, considerato che per questa genia di disonorati la famiglia è una cellula criminale, le perquisicono o le spolverano? Le carte di Ciancimino, a voler credere alle cose che leggiamo, sono delle camionate. Che facciamo: intimiamo a chi ne dispone di consegnarle tutte, in un sol botto, pena la galera, oppure ci mettiamo comodi e le leggiamo come un romanzo d’appendice? Siccome a ciò ci accingiamo, sarà bene ricordare che Vito Ciancimino non era un intellettuale, non uno scrittore, non una coscienza turbata, ma un ricattatore che ha lasciato degli eredi.

L’assegno di Berlusconi sarebbe giunto a Ciancimino per il tramite degli uomini di Giulio Andreotti, e sarebbe servito per pagare le tessere del partito (lo si legge ovunque, ma nessuno spiega: i congressi si facevano sulla base del numero delle tessere, tutti i partiti avevano tessere false, come anche iscritti veri, e siccome ciascun iscritto doveva versare una quota, si doveva saldare il conto per morti, fantasmi e ignari, ecco perché servivano i soldi). Non ho idea se sia vero. Se l’assegno fosse direttamente intestato a Ciancimino sarebbe grave. Se era dato ad Andreotti (ovviamente a mano di qualcun altro) saremmo nella normalità, priva d’interesse penale. Mi entusiasma, però, il commento che suscita in taluni, i quali s’interrogano: ma Berlusconi non era craxiano? C’è gente che prima dice delle sciocchezze, poi le ripete ossessivamente, quindi le legge riprese da altri e per ciò stesso le considera verità. Nella realtà, e lo scrivo da venti anni, non di rado deriso, Berlusconi non è mai stato né socialista né craxiano.

Comunue, signore e signori, questo è il clima: se l’appuntamento elettorale s’allontana quello processuale s’avvicina e, oramai, si picchia nel buio e si spara a casaccio. Dopo quindici anni d’assalti infruttuosi anche le baionette giudiziarie si sono arrugginite. Ma sono sempre puntute, possono sempre ammazzare, ed è questa la ragione per cui la legislatura andrà avanti solo se la merce di scambio sarà l’impunità (almeno temporanea). Così, in questa sudicia battaglia, non avremo né una sinistra capace di far politica senza andare a rimorchio del giustizialismo, né una destra capace di ragionare di giustizia e non dei procedimenti e processi le cui spingarde puntano alle mura governative.

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