Dieci anni dopo, i due obiettivi strategici degli attacchi dell’11 settembre 2001 sono falliti. Osama Bin Laden ha colpito il cuore finanziario e militare degli Stati Uniti, New York e Washington, per dimostrare alla umma, alla comunità musulmana, che l’America non era lo squadrone che tremare il mondo fa, ma una tigre di carta, un paese di codardi, fiacco e senza Dio che sarebbe scappato con la coda tra le gambe appena un’avanguardia di martiri islamici avesse mostrato il coraggio di aggredirla e mortificarla, come peraltro lasciavano intendere gli infamanti ritiri successivi alla strage dei marine a Beirut (1983) e all’abbattimento degli elicotteri Black Hawk a Mogadiscio (1993). Il secondo obiettivo strategico di Bin Laden era quello di mobilitare le piazze arabe e di sollevare le masse islamiche contro i regimi locali cosiddetti laici, ma in realtà alleati con l’estremismo radicale e non sufficientemente pii, devoti e fanatici per il terrorista saudita. La potenza geometrica dell’attacco all’America avrebbe dovuto liberare l’orgoglio represso del Grande Medio Oriente e scatenare il senso di rivalsa antioccidentale delle comunità musulmane, fino a creare un grande movimento popolare capace di cacciare gli infedeli dalle terre coraniche, di distruggere Israele e di instaurare un nuovo califfato islamista dall’Andalusia all’Afghanistan.
Il piano di Bin Laden non poteva finire in modo peggiore, non solo perché alla fine il suo autore è stato ucciso, cremato e gettato in mare dalle Squadre speciali di Barack Obama. Il progetto è fallito perché Bin Laden ha sottovalutato il carattere e la forza morale degli americani e ha male interpretato la rabbia e la voglia di riscatto del mondo arabo e islamico.
Dieci anni dopo, l’America non si è ritirata dal Medio Oriente. I soldati americani sono ancora dov’erano prima dell’11 settembre e, pagando altissimi costi umani e finanziari, si sono installati anche a Baghdad e a Kabul. I corpi d’elite fanno incursioni letali in Pakistan e in Yemen senza chiedere il permesso a nessuno. I droni della Cia bombardano il Waziristan e la Somalia, uccidendo invece che preoccuparsi di rinchiudere a Guantanamo i potenziali nemici. Il Pentagono controlla i cieli libici e il Golfo Persico, mentre la Casa Bianca ai nuovi padroni di Tripoli concede con parsimonia i fondi sottratti a Gheddafi.
La tigre di carta si è dimostrata più felina che cellulosica. L’America è in difficoltà economiche anche perché in questi dieci anni la sua priorità è stata la sicurezza nazionale e non il commercio o lo sviluppo come per i suoi concorrenti. Ma in terra islamica non è mai stata così presente e influente.
In dieci anni ha cambiato sulla punta della baionetta tre regimi mediorientali suoi nemici, ma anche reali o potenziali alleati di Osama nella guerra santa contro il Grande Satana: la teocrazia talebana di Kabul, la dittatura saddamita di Baghdad e il dispotismo tribale di Gheddafi a Tripoli.
Le piazze arabe e le masse islamiche si sono ribellate ai loro despoti, ma nel senso opposto a quello sperato da Bin Laden, alla ricerca confusa di una terza via tra dispotismo islamo-nazionalista e teocrazia musulmana.
Le primavere arabe non si sa ancora che cosa siano, non sappiamo che cosa diventeranno ed è improbabile che in nel giro di poco tempo la regione si trasformi in una filiale mediorientale di Westminster. Il ruolo degli islamisti e della Fratellanza musulmana nel migliore dei casi è ambiguo. L’Iran e l’Arabia Saudita sono ancora potenti. Settori dei vecchi regimi difficilmente si faranno da parte. Eppure dopo sessant’anni di repressione, in Medio Oriente è emersa un’opposizione anti autoritaria e in alcuni casi liberale, in grado anche di abbattere pacificamente le violenze dei tiranni. Per la prima volta si discute apertamente di istituzioni e di regole democratiche, peraltro già operative in Iraq e con più difficoltà in Afghanistan. Le piazze chiedono diritti, non sottomissione. Invocano una società libera, non un califfato. C’è un’atmosfera di libertà, decisiva per la diffusione delle idee democratiche e liberali di convivenza civile.
Alcune dinastie dispotiche sono state abbattute dall’intervento armato degli Stati Uniti e degli alleati. Altre sono andate in frantumi grazie alla mobilitazione di movimenti autoctoni senza legami diretti con l’America, ma che hanno beneficiato del cambiamento di strategia politica deciso da George W. Bush e da Tony Blair l’indomani dell’11 settembre.
Quella mattina di dieci anni fa, il presidente conservatore americano e il premier di sinistra britannico hanno elaborato una risposta politica, culturale e ideologica capace di generare una potenza dimostrativa superiore agli attacchi terroristici. Bush e Blair hanno deciso di porre fine allo status quo dispotico mediorientale che per mezzo secolo ha illusoriamente garantito la stabilità nella regione e il regolare flusso di petrolio, convinti dall’idea rivoluzionaria che la democrazia e la libertà non fossero esclusive occidentali, ma aspirazioni universali.
L’America ha cambiato con la forza alcuni di quei regimi mediorientali e ha abbandonato con juicio quelli che non hanno garantito riforme, maggiore libertà e lotta al terrorismo. I gruppi di opposizione hanno ricevuto finanziamenti, i dissidenti sono stati ricevuti alla Casa Bianca, il rispetto dei diritti umani è diventato un costante argomento di pressioni diplomatiche. I raid aerei, le incursioni delle forze speciali e la guerra segreta di Bush e di Obama hanno fatto il resto.
L’epocale svolta strategica ha resistito agli errori macroscopici compiuti sul campo, ai costi ultra miliardari, all’impopolarità diffusa, ai passi indietro di Bush alla fine del suo secondo mandato, all’uscita di scena di Blair e alle promesse non mantenute di Obama di tornare a una politica estera pragmatica, vecchio stampo, meno idealista e più conservatrice.
Dieci anni dopo l’11 settembre, quell’intuizione strategica di Bush e Blair – regime change e freedom agenda – si è radicata nella politica estera occidentale, ha indebolito i dittatori locali e ha aperto un varco ai primaveristi araba.
I protagonisti sono diversi, i metodi sono stati perfezionati, la tattica è stata ricalibrata. Ma, 10 anni dopo, la formidabile idea di sostituire lo status quo con la promozione della democrazia costituzionale è rimasta l’unica strategia possibile contro la cultura dell’odio. È una politica che fa coincidere interessi nazionali e grandi ideali, adatta a sconfiggere il progetto islamista di Bin Laden e, come ama dire Obama, capace di rimettere l’America dalla parte giusta della storia. (Camillo blog)
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