Sono anni che discuto con Luca Sofri di politicamente corretto. Alla fine non ci capiamo mai. Da qualche tempo Luca se la prende con Pigi Battista esattamente su questo punto, ma secondo me non ci capiamo mai e non si capisce con Pigi perché il politicamente corretto non è la cosa che intende lui. Luca scrive che se uno aiuta una vecchietta ad attraversare la strada magari c’è qualcuno, un adepto del politicamente scorretto, pronto a dire che aiutare ad attraversare una vecchietta è cosa che non si fa, troppo buona, perché magari impedisce l’efficace e libero dispiegarsi del traffico automobilistico.
Ora, a parte che non esiste nessuno al mondo che sostenga una cosa del genere (straw man argument anyone?), il punto che secondo me sfugge a Luca è che il politicamente corretto non è la stessa cosa del buonismo, non è compiere un’azione buona, non è la buona educazione.
Il politicamente corretto è un’altra cosa. La political correctness è una dottrina totalitaria che cerca di definire la realtà non per quella che è, ma in base ai desideri del pensiero dominante.
L’obiettivo, per quanto conformista, è nobile perché nasce dall’illusione di poter mutare la realtà semplicemente chiamandola in un altro modo (ipovedente anziché cieco, diversamente abile anziché handicappato, Islam religione di pace anziché fonte di violenza familiare, sociale e globale). Ma la sua attuazione può essere devastante per la società democratica, fino al punto di negare la libertà di espressione.
Un’eroina moderna come Ayaan Hirsi Ali non può dire quelle cose che dice contro la religione islamica oppressiva delle donne perché altrimenti passa per una pazza che i guai se li va a cercare (Ian Buruma, tra gli altri). Una sera, a Capri, una rockstar che stimavo molto, David Byrne, ha detto che Ayaan Hirsi Ali era andata oltre nel denunciare le violenze della società musulmana nei confronti delle donne. Byrne ha detto che Ayaan Hirsi Ali era una «provocatrice». Un musicista rock che invita a non provocare, a restare tranquilli, a non denunciare le ideologie più oscurantiste. Wow. Altro che Asor Rosa.
Questo è il politicamente corretto: un linguaggio, un’idea, una politica, un comportamento che cerca iprocritamente di minimizzare la realtà per non mostrare un pregiudizio nei confronti di un determinato contesto razziale, culturale, sessuale, religioso o ideologico.
Il politicamente corretto è mischiare la realtà con un giudizio di valore. Orwell lo chiamava Neolingua. Philip Roth lo ha raccontatato in La Macchia Umana. Il mio amico Franco Zerlenga lo spiega con un esempio terra terra: il politicamente corretto è quel medico che al paziente invece del cancro diagnostica un raffreddore per evitare che ci rimanga male. Al paziente non fa un favore. Il danno, alla fine, è irreparabile.
Per restare agli esempi citati da Luca, in quanto tratti dall’articolo di Pigi, è ovvio che nessuno dirà mai che «denunciare un padre che picchia la figlia è fomentare lo scontro di civiltà». Ma se quel padre è musulmano il riflesso politicamente corretto scatta subito: meglio non dire che quella particolare religione impone comportamenti retrogradi e va sempre ricordato che ogni cultura ha le sue tradizioni giuste o sbagliate che siano ma sempre da rispettare.
Negare la realtà non aiuterà la prossima figlia picchiata sulla base di un sistema di valori diverso dal nostro. Accettare l’esistenza del problema, e far rispettare le regole di convivenza civile anche a chi ha tradizioni culturali diverse, magari sì.
Il politicamente corretto non è un riflesso condizionato che scatta solo nei ristoranti blasé della Maremma, all’Ultima Spiaggia di Capalbio o a casa di Furio Colombo. C’è in tutti gli articoli di Repubblica, per dire. E anche nelle posizioni ufficiali del Pentagono.
Il ministero della Difesa americano, così come i grandi giornali Usa, è tuttora incapace di dire apertamente che il maggiore Malik Nadal Hasan, autore un anno e mezzo fa di una strage di soldati nella base di Fort Hood, è un jihadista. Non è sufficiente sapere che si dichiara un fondamentalista islamico, che non si voleva fare vedere né fotografare accanto a una donna, che cercava moglie in moschea e la voleva che pregasse 5 volte al giorno. Per paura di far valere un pregiudizio religioso, l’esercito americano non l’aveva allontanato nemmeno quando è venuto a conoscenza dei rapporti di Hasan con un terrorista islamico in Yemen, né quando giustificava con i commilitoni le azioni dei kamikaze. Nemmeno l’aver urlato "Allah Akbar", Dio è grande, quando ha ucciso 13 soldati è bastato a sottolineare ufficialmente il movente.
Anzi la prima reazione dei giornali è stata di segno opposto: il povero cristo aveva paura di andare in guerra, aveva sentito racconti terribili, la colpa della strage non poteva che essere della guerra. Mica della religione di pace. (Camillo blog)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento