mercoledì 13 febbraio 2013

E se le aziende inquisite avessero ragione? Nicola Porro

E se avessero ragione le imprese? Per anni abbiamo subito una cultura anti industriale (leggetevi piuttosto la lirica di Angelo Mellone «Acciaio Mare» sull'Ilva) per la quale impresa e profitto erano due bestie da combattere.
Oggi il pregiudizio si è fatto più sofisticato. C'è un generale compiacimento per le indagini giudiziarie che bloccano le nostre aziende. Una brutta eco risuona più o meno così: «Ben gli sta». Il presidente di Finmeccanica è stato arrestato per una tangente (tutta da dimostrare) su un appalto riguardante degli elicotteri. «Stecca» che, anche per l'accusa, non sarebbe però finita nelle tasche del boss di Finmeccanica. Pochi mesi fa, sempre in Finmeccanica, si dimise lo storico amministratore, Pierfrancesco Guarguaglini, per le dichiarazioni di un pentito. Quasi nessuno ha riportato la richiesta (avvenuta mesi dopo) di archiviazione proposta dagli stessi pm che indagavano e poi accolta dai giudici. E Saipem? La stessa Eni, che la controlla, aveva iniziato a far pulizia.

Eppure è arrivata l'indagine sul numero uno del cane a sei zampe, Scaroni, per una gravissima ipotesi di reato: corruzione. E l'Ilva? Stiamo distruggendo un comparto fondamentale della nostra industria pesante sulla base di un'inchiesta che deve ancora passare al vaglio del primo grado. In cui i magistrati si oppongono financo allo sblocco delle merci sequestrate del valore di un miliardo. La Fiat ha 62 procedimenti in corso per la vicenda delle rappresentanze sindacali in fabbrica, aperti su denuncia della Fiom. Ha avuto 45 sentenze favorevoli, sette hanno invece accolto il ricorso del sindacato di Landini e altrettanti giudici hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale. Come i più grandi, migliaia di invisibili subiscono ogni giorno controlli, indagini, fermi, sequestri da parte di diversi organi dello Stato, che arrestano, multano e chiudono. Tutti innocenti? Certo che no. E nessuno chiede l'immunità per imprenditori o manager marci che abbiano violato la legge.

Ma dobbiamo stare attenti. La cultura anti industriale oggi ha fatto un salto generazionale e di ruolo. Si è istituzionalizzata. Non sono più le piazze a gridare contro i padroni. Sono le istituzioni che hanno fatto proprio quel clima di trent'anni fa. Sono i poteri burocratici che strozzano il fare impresa in Italia. Forti dello scudo di irresponsabilità di cui godono (chi paga per gli errori commessi, per il carcere mal dato, per le multe che fanno fallire?) e delle bizantine leggi che ci siamo dati (per le quali ad esempio un barbiere deve trattare i propri rifiuti con le stesse procedure che si applicano al petrolchimico).

La politica e le Istituzioni dettagliano con minuzia possibili comportamenti fuori linea delle imprese. Creando un doppio danno: rendono l'onere burocratico di fare impresa gravoso e lasciano a pubblici ufficiali e magistrati campi di intervento vastissimi. E se il prezzo da pagare è chiudere l'industria italiana, beh, quello è un effetto collaterale. Negli anni '70 manifestavano nelle piazze e picchettavano le industrie, oggi agiscono con le ordinanze e i decreti. Ma la musica non cambia.(il Giornale)

1 commento:

Anonimo ha detto...

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