sabato 16 febbraio 2013

Una Repubblica fondata sull'ipocrisia. Federico Punzi

              
  
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«Quando la praticano gli americani [ma aggiungerei gli inglesi, i francesi, i tedeschi...], si chiama lobby; quando la fanno gli altri [ma direi, noi italiani] diventa corruzione». Questa la significativa battuta che Jagdish Bhagwati, del Council on Foreign Relations, ha rilasciato a La Stampa sul caso Finmeccanica, spiegata così: «Supponiamo che un Paese importante mandi una delegazione in India guidata dal capo del governo, e prometta alle autorità di nuova Delhi di aiutarle in Kashmir, in cambio di una grande commessa a cui tiene. Non si spostano soldi, non ci sono tangenti, ma arriva sostegno politico a livello internazionale e magari qualche fornitura di armi. Come la chiamate, questa? Oppure si costruiscono scuole, ospedali, strade, in cambio dello sfruttamento di un giacimento [non era proprio questo che tutti i nostri governi hanno fatto per decenni con Gheddafi?]. I più sofisticati si comportano così e sono inattaccabili, quasi generosi. Gli altri, un livello più sotto, pagano le tangenti, e finiscono nel mirino dei procuratori».
Piaccia o meno, il ragionamento non è molto distante da quello di Berlusconi, che ovviamente ha destato un ipocrita polverone di indignazione.
Certo, il reato esiste, la convenzione internazionale anche. La magistratura fa il suo dovere. Ma se vogliamo ragionare sui fatti laicamente e conservando un minimo di contatto con la realtà, ci sono almeno un paio di pesanti "però".

Il primo riguarda il fatto che le commissioni pagate da Finmeccanica devono ancora essere giudicate come reato, quindi come tangenti, a seguito di un reale processo. Insomma, si tratta ancora di una tesi dell'accusa. Se qualcuno di quei 50 milioni è tornato indietro, nelle tasche di Orsi o di qualche politico, sarebbe un fatto gravissimo, che però va dimostrato e per ora mi pare ci siano solo illazioni a mezzo stampa. Se invece quei soldi sono serviti a corrompere solo qualche politico o funzionario indiano, allora c'è da augurarsi che la procura abbia in mente qualche nome indiano, ma pare di capire di no. Perché resta difficile provare la corruzione se non si conosce nemmeno il nome di chi si è fatto corrompere. Nonostante quindi la corruzione sia ben lungi dall'essere provata, l'azione della procura di Busto Arsizio ha già determinato a Finmeccanica e al suo indotto un danno di 550 milioni di euro e la perdita di milioni di ore di lavoro.

Una grande responsabilità, ammetterete. E' accettabile un simile danno patrimoniale ed economico per inseguire quello che è, ad oggi, un indizio, una pista d'indagine? Assumiamo che sì, abbiamo una visione massimalista della giustizia per cui al minimo sospetto non si guarda in faccia a nulla, in totale spregio del rischio di sbagliarci e dell'entità dei danni provocati dal nostro eventuale errore. Questa grave responsabilità si può affidare ai pm di Busto Arsizio, dove a stento si potrebbe giustificare che abbia sede una procura?? O non richiederebbe, semmai, di essere in capo a magistrati di ben altra esperienza e responsabilità? Chi risarcirà a Finmeccanica e ai suoi lavoratori un danno di 550 milioni di euro se la procura si sbaglia? Se, come tutti, anche i magistrati fossero chiamati a rispondere dei loro errori professionali, in termini sia di carriera che patrimoniali, ci sarebbero tanti più scrupoli e verifiche prima di avviare l'azione penale quanto più alta è la posta in gioco. E si ridurrebbero sensibilmente le possibilità d'errore. La sensazione, francamente, è che la magistratura spesso spari nel mucchio, preoccupandosi solo in un secondo momento - a danno ormai provocato - di procurarsi delle prove. L'autonomia e l'indipendenza della magistratura sì, l'irresponsabilità e l'arbitrarietà, solo alla ricerca del clamore e della fama personale, costi quel che costi, no, non è accettabile.

Il timing delle manette, poi, per inchieste che duravano da mesi, se non anni, fa pensare ad un uso spettacolare della giustizia, ad una deriva verso il «populismo giudiziario», come la definisce Antonio Polito sul Corriere: una giustizia anch'essa lenta e impotente come la politica, e quindi alla ricerca della condanna mediatica. Le prove, il processo, diventano dettagli di cui preoccuparsi anni dopo.

C'è, poi, l'aspetto politico ed economico. Se Finmeccanica ha violato la legge, benissimo: che paghi. Se così fan tutti, però, e a tagliarci i cosiddetti siamo solo noi italiani, be' la questione esce dai confini strettamente giudiziari e coinvolge l'interesse generale: la nostra industria, la nostra economia, quindi il benessere di tutti noi. Senza moralismi, dobbiamo preoccuparcene e addivenire a soluzioni un poco più elastiche. Nel mondo reale non ci sono feticci, né soluzioni perfette. E' evidente che estremizzando il concetto di "tangente", bisognerebbe per coerenza concludere che il lobbismo interno, per esempio dei sindacati, o l'intera diplomazia commerciale tra Stati, e forse la diplomazia tout court, è un immenso intreccio di corruzione e scambio di favori più o meno nobili. E non credo neanche che nella vicenda Finmeccanica c'entri la governance influenzata dalla politica, come per Mps: fosse stata privata, la presunta tangente per aggiudicarsi la preziosa commessa indiana l'avrebbe versata comunque.

A proposito, oggi è trascorso esattamente un anno dal "sequestro" dei nostri marò proprio da parte delle autorità indiane: «Un anno di inerzia, silenzi e gaffe internazionali», come ricorda Pautasso. Se non ricordo male lo Stato italiano versò, o era disposto a versare, centinaia di migliaia di euro alle famiglie dei pescatori indiani uccisi, prim'ancora che iniziasse il processo per stabilire la responsabilità dei due marò, ma evidentemente come gesto di amicizia e generosità volto a migliorare la posizione dei nostri soldati. Non è forse anche questa una forma di tangente?

JimMomo

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