venerdì 1 febbraio 2013

Fuga dall'università. Davide Giacalone

L’università italiana viaggia in retromarcia, registrando un continuo calo delle immatricolazioni (-17% in dieci anni, 58.000 studenti in meno). Colpa del calo demografico? Niente affatto: colpa della dequalificazione degli studi e della loro percepita inutilità. Da qui un apparente paradosso: abbiamo l’università meno selettiva, diamo la promozione anche a chi considera il congiuntivo una malattia oculare, ma abbiamo un numero bassissimo di laureati (19% fra i 30 e i 34 anni, contro il 30% della media europea, siamo al posto 34 su 36 paesi Ocse). Capita perché se la laurea non consente l’accesso al mondo del lavoro e non promette di guadagnare assai più degli altri, finisce con l’essere un pezzo di carta, ed è ragionevole che i feticisti del titolo non siano numerosi.

Le cattedre sono feudi i cui signorotti non producono cultura (ne abbiamo di bravissimi, ma sono osteggiata minoranza). La spesa è quasi tutta corrente. L’opacità totale. Molte università, nel mondo, pubblicano i risultati ottenuti da ciascun professore e i redditi poi raggiunti dai loro studenti. Noi: zero. Non solo il calo demografico non c’entra nulla, ma dovrebbe essere largamente compensato dall’afflusso di studenti dall’estero, se solo trovassero qualità. Invece ciò accade solo in pochi atenei. Semmai il flusso è opposto: i nostri giovani più premettenti prendono la valigia, cosi riproducendo una selezione per censo. Dato che l’istruzione costa, nel mondo. Da noi no, le tasse sono basse e per il resto si prendono i soldi dalla fiscalità generale, sicché i poveri finanziano i ricchi. Così perdiamo terreno non solo sulla frontiera tecnologica, ma anche in arti dove dovremmo dominare.

Per spezzare il maleficio ci vogliono iniezioni massicce di meritocrazia. Perché funzionino fra i banchi è necessario che partano dalle cattedre. Molti di quelli che le occupano dicono: abbiamo vinto un concorso. Risposte: a. non sempre è vero; b. chi se ne frega. Brutale? Può darsi, ma l’interesse da tutelare è quello degli studenti, non quello di chi pretende la sicurezza del posto in un mondo che può funzionare solo a condizione di non dare sicurezza a nessuno. Se sei bravo produci scientificamente e sai formare chi frequenta i tuoi corsi. Non devi dimostrarlo una volta nella vita, ma ogni giorno. Troppo faticoso? Avanti un altro.

Stesso discorso per i finanziamenti: i soldi vadano dove rendono. Una cattedra, un ateneo, una sede distaccata che non producono cultura sono un doppio spreco, che non va finanziato. Basta dire queste cose e trovi una pletora di dipendenti universitari che salgono sul tetto e occupano le sedi. Ricordo ancora il ghigno soddisfatto di un Bersani che li raggiungeva, arrampicandosi su una scaletta e morsicando il sigaro. Sono scesi, hanno ottenuto quello che volevano, non è cambiato nulla ed ecco il risultato: gli studenti se ne vanno.

La prima università italiana compare dopo il centesimo posto del ranking mondiale. Abbiamo reagito con orgoglio, chiamando i professori che le animano a governare l’Italia. Loro hanno aumentato le tasse per comprimere il debito pubblico, che è cresciuto. Gli studenti che possono si sono iscritti altrove.

Pubblicato da Libero

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