lunedì 12 agosto 2013

Così la sinistra senz'anima teme la leadership del Cav. Paolo Guzzanti

Nel Pci il segretario dava "la linea", poi è arrivato Berlusconi e tutto è cambiato. Il Pd la ha demonizzato, ora invoca un passo indietro per distruggere il Pdl. Ma non ce la farà

C'è una parola che la nuova (ma anche antica) sinistra che tenta di agglutinarsi intorno al Pd finge di non conoscere e anzi di non riconoscere. Quella parola è leadership, una parola inglese che non ha l'equivalente in italiano, ma di cui tutti conosciamo il significato: la capacità di essere colui, o colei, che ha il dono di guidare precedendola, tutta o parte dell'opinione pubblica.
Anzi, di «essere» l'opinione.
La sinistra italiana conosceva perfettamente quel significato, anche se non lo traduceva in inglese, ai tempi in cui aveva leader come Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer (e Nenni sul fronte socialista).
Il leader - l'onnipotente segretario generale - per mestiere dava «la linea». Essere «sdraiati sulla linea» era il motto semischerzoso degli iscritti. La linea era la linea politica e non si discuteva: la si apprendeva dall'organo del partito e veniva diffusa come una lieta novella che tutti dovevano mandare a memoria e difendere secondo il catechismo che l'accompagnava.

L'ultima vera «linea» che il vecchio Pci si vide recapitare a mezzo stampa (tre compendiosi articoli su «Rinascita») fu quella con cui Enrico Berlinguer concepì, spiegò e varò il «compromesso storico» fra il suo partito e la Democrazia cristiana in seguito al colpo di Stato cileno del generale Augusto Pinochet. Del resto basta guardare il grande quadro che dipinse Guttuso sul funerale di Togliatti per capire che cos'era per la sinistra l'idea di leader. O le foto dei funerali di Berlinguer (che secondo molti fu fatto fuori con armi biochimiche dalla dirigenza sovietica) per capire che cos'è la leadership, vista da sinistra. Non cito Fidel Castro - el líder maximo - e meno che mai Stalin, per non essere accusato di antiquariato storico.
Dunque, a sinistra sanno benissimo che cos'è la leadership. Poi, ecco che irrompe sulla scena politica Silvio Berlusconi rompendo le uova nel paniere dell'ultimo aspirante leader comunista e subito viene modificata la definizione di leader: non volendo e non potendo ammettere che Berlusconi sia leader di una parte spesso maggioritaria del suo popolo, la sinistra ex comunista con la sua appendice ex democristiana tira fuori dal cassetto la parola perfetta: «populismo».
Cosa sia esattamente il populismo e in che cosa differisca dalla leadership è difficile dire se non per via emotiva e anzi isterica. Viene però ficcato nella giovane testa delle ultime e ignare generazioni che un uomo come Berlusconi non possa essere un leader che guida con le sue idee e i suoi progetti il Paese (che poi piacciano o no, e a chi, è un altro paio di maniche) ma che vada invece accorpato a merce sudamericana e magari bananera, preferibilmente all'argentino Juan Peron, di cui è più nota la moglie Evita per il musical a lei dedicato. La sinistra italiana inoltre ha avuto un vero terrore della leadership del generale Charles de Gaulle che guidò la Resistenza francese, quando varò la Quinta Repubblica semipresidenziale tuttora in vigore a Parigi e che funziona meravigliosamente bene.
Ma l'operazione rieducativa che è stata compiuta prima sull'immagine di Craxi (che era un certificato leader politico nato e cresciuto in politica all'ombra di Pietro Nenni) e poi sull'imprenditore Berlusconi «sceso in campo», è chiarissima: si deve negare al nemico - privato della dignità di avversario e opponente - la legittimazione alla leadership: Berlusconi deve essere sempre e comunque ricondotto alle dimensioni di un boss populista che si rivolge non alla mente, al cuore, all'homo faber, ma alla sudicia «pancia» del Paese, ovvero al peggio del Paese. Coloro che credono in lui e lo votano non sono cittadini come gli altri, ma più o meno canaglia, figure comiche e spesso grottesche, gente che al massimo è ossessionata dal denaro, come accumularlo e come nasconderlo al fisco, un segmento di popolazione privo di eleganza, di sobrietà, in una parola di dignità.
L'ho già citato altre volte, ma sono veramente grato a Eugenio Scalfari, che è un combattente coraggioso fino a sfidare la sfrontatezza come arma da guerra, di aver detto un anno fa alle Invasioni barbariche che lui considera l'elettorato berlusconiano come espressione di una sotto umanità, una nuova versione dell'Untermensch tedesco, che non merita rispetto e non possiede quindi il potere di legittimazione che ogni cittadino ha quando si chiude nella cabina elettorale e trasferisce «con un clic», il voto, la propria sovranità al suo rappresentante. La povera Bignardi si sentì in dovere di insorgere dicendo che i cittadini sono tutti uguali e che così è la democrazia, ma Scalfari sorridendo ribadì il concetto: i berlusconiani non hanno potere di legittimazione, dunque coloro che essi designano non è un legittimato ma un incidente della democrazia. Cito Scalfari perché è il più geniale di quella parte e perché per mia fortuna e privilegio lo conosco abbastanza. Ma Scalfari rappresenta non soltanto la linea di Repubblica come giornale, ma la linea della Repubblica italiana come immaginata dalla fazione politica che ha scippato le insegne dei «padri fondatori».
Dopodiché, il gioco è fatto. Come potrebbe Epifani chiedere oggi a Berlusconi di fare questo ignobile passo di danza che è il «passo indietro», se non dopo aver spogliato un leader di una qualità, la leadership, che è al riparo di sentenze giudiziarie, opinioni avverse e odio diffuso e ben alimentato? Verrebbe da dire che specialmente dopo essere stati condannati e magari messi in galera, i leader hanno aumentato quella dote carismatica che è la leadership. Qualcuno dirà subito che Gramsci e Mandela non sono stati messi dentro per frode fiscale, ma il fatto è - purtroppo per tutti, sinistra, destra e centro inclusi - che noi in Italia come si legge già nel Pinocchio di Collodi e nel Discorso sul carattere degli italiani di Leopardi, essendo figli di un dio minore non godiamo del bene cui i popoli civili hanno diritto: la certezza per ciascuno di poter essere giudicato da un giudice equanime e non prevenuto. È un diritto sancito fra i diritti dell'uomo e riconosciuto dalla Corte europea. E così purtroppo da noi non è possibile, e non per colpa nostra, accogliere le sentenze come oro colato. Perché non sono oro colato. Le sentenze - come viene ripetuto a mantra buddista - «si rispettano», è vero, ma le si criticano anche apertamente, legittimamente e opportunamente: io critico dalle fondamenta, ad esempio, le sentenze su Ustica e sulla strage di Bologna, su Moro e tante altre ancora. È un mio, vostro, diritto civile. Non sia soltanto un diritto, ma anche un dovere. Almeno, in Italia.
Quando, come presidente di una Bicamerale italiana, frequentai per una rogatoria il Parquet di Parigi, ovvero la procura francese a un passo dalla Sainte Chapelle, mi resi conto della differenza abissale, qualitativa, culturale e persino estetica del personale che vedevo servire la giustizia d'Oltralpe. Non si può generalizzare troppo, è vero: anche da noi abbiamo migliaia di ottimi e decorosi magistrati, ma purtroppo l'inquinamento politico, o meglio di fazione, ha infiltrato un corpo che non ha mai, storicamente e per ragioni oggettive, goduto di una salute eccellente. Dunque in pieno diritto e per onesto patriottismo, noi dubitiamo, critichiamo, ci sbalordiamo, ci vergogniamo e - con il permesso della Corte - non ce la beviamo.
Ma oggi il punto è: il Pd per poter silurare il suo stesso presidente del Consiglio e il governo ha bisogno del pretesto, del «passo indietro» nell'immaginario tango di Berlusconi e la pretesa di veder scollare il Pdl, ormai «Forza Italia bis» dal suo leader, inventore, anima e guida.
Sanno perfettamente che non è possibile.
Anche se Berlusconi fosse in ceppi appeso per i pollici in una segreta della torre, purtroppo per loro seguiterebbe ad esercitare la sua leadership «populista» seguitando perversamente a parlare - magari con segnali di fumo - «alla pancia» del suo elettorato-bestia, rozzo, trucido, riciclato nell'immaginario della sinistra dall'icona del comunista trinariciuto creata da Giovannino Guareschi. Così stanno le cose e verrebbe da chiedersi: chi va ad avvertire queste centrali propulsive della propaganda illiberale che il loro rancore sprezzante è ai confini del razzismo?
Sta di fatto dunque che il Pd, il suo segretario e il suo aspirante boss fiorentino sanno perfettamente tutto questo e sanno che la perentoria e illegittima richiesta di disconoscimento di leadership è un'idiozia e, moralmente parlando, una mascalzonata. Lo sanno, ma sanno che il vecchio schema di gioco ancora rende sul piano interno. E su quello basano la resa dei conti in un partito che si sta per spaccare lanciando ovunque spezzoni fuori controllo e scorie radioattive, infischiandosene del governo di cui hanno bisogno gli italiani oggi, ieri, domani mattina. (il Giornale)

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