lunedì 21 settembre 2009

Appello de L'Espresso contro il commissario Calabresi. da Wikipedia

Il 13 giugno 1971 il settimanale L'Espresso pubblicò un articolo di Camilla Cederna, intitolato "Colpi di Scena e Colpi di Karatè. Gli Ultimi Incredibili Sviluppi del Caso Pinelli". L'anarchico Giuseppe Pinelli, ferroviere, trattenuto in questura di Milano per accertamenti in seguito alla strage di piazza Fontana, morì dopo essere caduto da una finestra. Il titolo dell'articolo fa riferimento all'ipotesi che Pinelli avesse subito un colpo di karaté all'interno della Questura di Milano, dove era sotto la responsabilità del commissario Luigi Calabresi, prima di cadere dalla finestra, facendo anche sospettare che potesse essere a quel momento già gravemente ferito.

A margine di questo articolo c'era un appello, presentato come una lettera aperta alla pubblica sottoscrizione e firmato da dieci persone [1]. Questo appello ricevette un numero crescente di adesioni nei giorni seguenti e fu ripubblicato nei due numeri successivi. In calce alla copia pubblicata il 27 giugno si contato 757 firme.

Testo dell'appello
Segue il testo della lettera aperta alla pubblica sottoscrizione.

« Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione.

Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l'arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e l'indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.

Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l'allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini. »
(L'Espresso, 13 giugno 1971, pag. 8)

Elenco dei firmatari
Segue l'elenco dei 757 sottoscrittori in ordine alfabetico.

A
Ezio Adami
Mario Agatoni
Clelia Agnini
Nando Agnini
Enzo Enriques Agnoletti
Giorgio Agosti
Alberto Ajello
Nello Ajello
Gianmario Albani
Vando Aldovrandi
Elio Aloisio
Marina Altichieri
Anselmo Amadigi
Laura Ambesi
Giorgio Amendola
Sergio Amidei
Luigi Anderlini
Antonio Andreini
Franco Antonicelli
Filippo Arcuri
Giulio Carlo Argan
Giorgio Ariorio
Annamaria Arisi
Anna Arnati
Aldo Assetta
Gae Aulenti
Orietta Avernati
Ferruccio Azzani
B
Giorgio Backaus
Franco Baiello
Anna Baldazzi
Nanni Balestrini
Aurelio Balich
Carlo Ballicu
Aldo Ballo
Pietro Banas
Julja Banfi
Arialdo Banfi
Marcello Baraghini
Mario Baratto
Andrea Barbato
Mario Bardella
Giovanna Bartesaghi Campanari
Ada Bartolotti
Mirella Bartolotti
Carla Bartolucci
Franco Basaglia
Vittorio Basaglia
Andrea Basili
Eugenia Bassani
Aldo Bassetti
Marisa Bassi
Emanuele Battain
Giovanni Battigi
Betty Bavastro
Renato Bazzoni
Marco Bellocchio
Piergiorgio Bellocchio
Aroldo Benini
Giorgio Benvenuto
Marino Berengo
Gualtiero Bertelli
Giorgio Bertemo
Alberto Berti
Bernardo Bertolucci
Mario Besana
Laura Betti
Alberto Bevilacqua
Bruno Bianchi
Luciano Bianciardi
Mario Biason
Walter Binni
Renzo Biondo
Mercedes Bo
Norberto Bobbio
Giorgio Bocca
Gaetano Boccafine
Cini Boeri
Renato Boeri
Rodolfo Bollini
Pietro Bolognesi
Ermanna Bombonati
Laura Bonagiunti
Agostino Bonalumi
Angela Bonanomi
Giuseppe Bonazzi
Mario Boneschi
Luciana Bonetti
Arrigo Bongiorno
Vittorio Borachia
Giuliana Borda
Giampiero Borella
Angelo Borghi
Giampaolo Borghi
Sergio Borsi
Carlo Bosoni
Angela Braga
Aldo Braibanti
Rina Bramè in Zanetti
Tinto Brass
Claudio Brazzola
Nerina Breccia
Maria Luisa Brenner
Fulvia Breschi
Anna Maria Brizio
Vanna Brocca
Laura Bruno
Franco Brusati
Giampaolo Bultrini
C
Giorgio Cabibbe
Corrado Cagli
Mauro Calamandrei
Alba Cella Calamida
Leonida Calamida
Giuseppe Caldarola
Giacomo Calì
Vittoria Calvan
Maurizio Calvesi
Floriano Calvino
Riccardo Calzeroni
Valeria Calzeroni
Giovanna Campi
Nino Cannata
Michele Canonica
Teodolinda Caorlin
Elena Caporaso
Ettore Capriolo
Umberto Carabella
Cosmo Carabellese
Giulia Carabellese
Tommaso Caraceni
Tullio Cardia
Pierre Carniti
Tommaso Carnuto
Fabio Carpi
Armando Carpignano
Dino Cartia
Bruno Caruso
Paolo Caruso
Amedeo Casavecchia
Andrea Cascella
Alessandro Casillin
Lucia Casolini
Giorgio Catalano
Giuseppe Catalano
Liliana Cavani
Paolo Cavara
Camilla Cederna
Giamprimo Cella
Carla Cerati
Roberto Cerati
Mario Ceroli
Lorenzo Certaldi
Miriam Certi
Bianca Ceva
Sandra Cheinov
Francia Chemollo
Alfredo Chiappoli
Francesco Ciafaloni
Vincenzo Ciaffi
Lidia Ciani
Umberto Cinti
Mariella Codignola
Ezio Cogliati
Lucio Colletti
Enrica Collotti Pischel
Furio Colombo
Luigi Comencini
Franco Contorbia
Gianni Corbi
Sergio Corbucci
Elisabetta Corona
Teresa Corsi
Luigi Cortesi
Giulio Cortini
Giuseppe Cosentino
Luigi Cosenza
Radames Costa
Gastone Cottino
Gabriella Covagna
Bruno Crimi
Paolo Crivelli
Virgilio Crocco
D
Roberto D'Agostino
Sandra Dal Pozzo
Enzo D'Amore
Guido Davico Bonino
Maria Teresa De Laurentis
Fausto De Luca
Giorgio De Luca
Giorgio De Marchis
Giorgio De Maria
Giovanni De Martini
Tullio De Mauro
Stefano De Seta
Vincenzo De Toma
Stefano De Vecchi
Sergio De Vio
Vittoria De Vio
Giuseppe Del Bo
Giuseppe Della Rocca
Giampiero Dell'Acqua
Luigi Dell'Oro
Anna Maria Demartini
Bibi Dentale
Fabrizio Dentice
Luca D'Eramo
Stefano Di Donato
Sara Di Salvo
Tommaso Di Salvo
Luciano Doddoli
Delia Dominella
Piero Dorazio
Gillo Dorfles
Umberto Dragone
Guglielmo Dri
Susan Dubiner
Antonio Duca
E
Umberto Eco
Giulio Einaudi
Ingrid Enbom
Angelo Ephrikian
Maria Concetta Epifani
Sergio Erede
Bruno Ermini
Franco Ermini
Vincenzo Eulisse
F
Gianni Fabbri
Marisa Fabbri
Bruno Fabretto
Mario Fabretto
Elvio Fachinelli
Vittorio Fagone
Carlo Falconi
Annagiulia Fani
Teresa Fanigarda
Alberto Farassino
Luciana Farinella
Franco Fayenz
Federico Fellini
Inge Feltrinelli
Marina Feraci
Mario Ferrantelli
Alberto Ferrari
Ernesto Ferrero
Arnaldo Ferroni
Pierluigi Ficoneri
Gaetana Filippi
Giampaolo Filotico
Piero Filotico
Marco Fini
Paola Fini
Roberto Finzi
Milva Fiorani
Elio Fiore
Leonardo Fiori
Giosuè Fittipaldi
Dario Fo
Luciano Foà
Domenico Foderaro
Carla Fontana
Manuele Fontana
Massimiliano Fontana
Ada Fonzi
Bruno Fonzi
Franco Fornari
Carla Forta
Franco Fortini
Paolo Fossati
Gennaro Fradusco
Bruna Franci
Aldo Franco
Giuseppe Franco
Bice Fubini
Marisetta Fubini
Alberto Fuga
Mario Fumero
Maria Grazia Furlani Marchi
Floriana Fusco
G
Benedetta Galassi Beria
Giancarlo Galassi Beria
Silvia Galaverni
Aldo Galbiati
Virginia Galimberti
Mario Gallo
Severino Gambato
Lucio Gambi
Renato Gambier
Antonio Gambino
Maria Teresa Gardella
Edoardo Garrone
Emilio Garroni
Giustino Gasbarri
Cristiano Gasparetto
Maria Gasparetto Schiavon
Luciano Gaspari
Bruna Gasparini
Nuccia Gasparotto
Mario Gatti
Anna Gattinoni
Camillo Gattinoni
Emilio Gavazzotti
Ugo Gazzini
Mariella Genta
Mauro Gentili
Alessandro Gerbi
Francesco Ghiretti
Anna Ghiretti Magaldi
Bona Ghisalberti
Giobattista Gianquinto
Natalia Ginzburg
Giovanni Giolitti
Vincenzo Giordano
Fabio Giovagnoli
Giovanni Giudici
Marinella Giusti
Enzo Golino
Letizia Gonzales
Vittorio Gorresio
Delia Grà
Romano Stefano Granata
Paola Grano
Franco Graziosi
Armando Greco
Carlo Gregoretti
Ugo Gregoretti
Augusta Gregorini
Laura Grisi
Laura Griziotti
Anna Gualtieri
Franca Gualtieri
Luciano Guardigli
Pierluciano Guardigli
Ruggero Guarini
Augusto Guerra
Salvatore Guglielmino
Armanda Guiducci
Roberto Guiducci
Renato Guttuso
H
Margherita Hack
I
Ulrica Imi
Delfino Insolera
Gabriele Invernizzi
Renato Izozzi
J
Alberto Jacometti
Lino Jannuzzi
Emilio Jona
L
Pietro La Gioiosa
Vittorio La Gioiosa
Rosamaria La Gioiosa in Giovagnoli
Oliviero La Stella
Riccardo Landau
Liliana Landi
Giuseppe Lanza
Marina Laterza
Vito Laterza
Gustavo Latis
Marta Latis
Giorgio Lattes
Giuliana Lattes
Felice Laudadio
Marcella Laurenzi
Mario Lazzaroni
Giorgio Leandro
Franco Lefevre
Ettore Lenzini
Marcello Lenzini
Franco Leonardi
Irene Leonardi
Rita Leonardi
Francesco Leonetti
Isabella Leonetti
Ugo Leonzio
Laura Lepetit
Carlo Levi
Primo Levi
Bruno Libello
Laura Lilli
Claudio Lillini
Marino Livolsi
Carlo Lizzani
Daniela Lizzi
Maurizio Lizzi
Germano Lombardi
Riccardo Lombardi
Giordano Loprieno
Mariella Loriga
Giuseppe Loy
Nanni Loy
Nico Luciani
Franca Lurati
Clara Lurig
M
Giulio A. Maccacaro
Marisa Macerollo
Mario Macola
Manuela Magro
Carlo Mainoldi
Giancarlo Maiorino
Susjanna Majella
Carlo Majer
Thomas Maldonado
Maria Vittoria Malvano
Piero Malvezzi
Mauro Mancia
Bruno Manghi
Eleonora Mantese
Manlio Maradei
Adriana Marafioti
Dacia Maraini
Elio Maraone
Laura Marasso Paladina
Aldo Marchi
Enzo Mari
Giovanni Mariotti
Giancarlo Marmori
Lilly E. Marx
Carlo Mascetti
Francesco Maselli
Vitilio Masiello
Ennio Mattias
Augusto Mattioli
Clara Maturi Egidi
Achille Mauri
Fabio Mauri
Carlo Mazzarella
Giovanna Mazzetti
Lorenza Mazzetti
Cosimo Marco Mazzoni
Alceste Mazzotti
Carmine Mecca
Marina Meltzer
Lodovico Meneghetti
Mino Menegozzi
Giorgio Menghi
Giuliano Merlo
Aldo Messasso
Giuseppe Mezzera
Lidya Micheli
Paolo Mieli
Mieke Mijnlieff
Paolo Milano
Carla Milgiarini
Giovanna Minotti
Annabella Miscuglio
Enrico Mistretta
Ludovica Modugno
Paolo Modugno
Franco Mogari
Franco Mogni
Davide Moisio
Francesco Moisio
Maria Vittoria Molinari
Francesco Molone
Arnaldo Momo
Cecilia Moneti
Furio Monicelli
Mino Monicelli
Giuliano Montaldo
Adolfo Montefusco
Grazia Montesi
Pio Montesi
Maria Monti
Morando Morandini
Alberto Moravia
Guido Morello
Diego Moreno
Salvatore Morgia
Alba Morino
Berto Morucchio
Salvatore Morvillo
Franco Mulas
Mimi Mulas
Adriana Mulassano
Ezio Muraro
Paolo Murialdi
Cesare Musatti
Mariuccia Musazzi
Sergio Muscetta
Carlo Mussa Ivaldi
Franca Mussa Ivaldi
N
Gianna Navoni
Benedetto Negri
Toni Negri
Grazia Neri
Annamaria Nicora Hribar
Riccardo Nobile
Luigi Nono
Mimma Noriglia
Guido Nozzoli
O
Luigi Odone
Annamaria Olivi
Pietro Omodeo
Giulio Onici
Fabrizio Onofri
Valentino Orsini
Silvana Ottieri
P
Giulio Pace
Enzo Paci
Luciano Pacino
Zulma Paggi
Walter Pagliero
Giancarlo Pajetta
Aldo Paladini
Giannantonio Paladini
Luciana Paladini Conti
Salvatore Palladino
Ettore Pancini
Pietro Pandiani
Francesco Panichi
Alcide Paolini
Piergiorgio Paoloni
Letizia Paolucci
Ivo Papadia
Luca Paranelli
Roberto Paris
Silvia Parmeggiani Scatturin
Ferruccio Parri
Giordano Pascali
Pier Paolo Pasolini
Daniela Pasquali
Ernesto Pasquali
Luca Pavolini
Giorgio Pecorini
Rossana Pelà
Alessandro Pellegrini
Baldo Pellegrini
Carla Pellegrini
Lorenzo Pellizzari
Dario Penne
Andrea Penso
Giovanni Pericoli
Maria Pericoli
Paolo Pernici
Irene Peroni
Mario Perosillo
Nico Perrone
Romano Perusini
Carla Petrali
Elio Petri
Domenico Pezzinga
Leopoldo Piccardi
Mario Picchi
Cristina Piccioli
Giuseppe Picone
Ugo Pierato
Maria Novella Pierini
Piero Pierotti
Ettore Pietriboni
Bice Pinnacoli
Elsa Piperno
Giosuè Pirola
Ida Pirola
Ugo Pirro
Ugo Pisani
Paola Pitagora
Fernanda Pivano
Luciano Pizzo
Giovanna Platone Garroni
Franco Pluchino
Giancarlo Polo
Giò Pomodoro
Gillo Pontecorvo
Antonio Porta
Paolo Portoghesi
Domenico Porzio
Umberto Pozzana
Emilio Pozzi
Silvio Pozzi
Claudio Pozzoli
Serafino Pozzoni
Pasquale Prunas
Silvio Puccio
Giulia Putotto
Q
Franco Quadri
Massimo Quaini
Sofia Quaroni
Guido Quazza
Folco Quilici
R
Giovanni Raboni
Emilia Raineri
Franca Rame
Dino Rausi
Carlo Ravasini
Luciano Redaelli
Enrico Regazzoni
Aloisio Rendi
Nelly Rettmeyer
Enzo Riboni
Tina Riccaldone
Aldo Ricci
Carlo Ripa di Meana
Vittorio Ripa di Meana
Angelo Maria Ripellino
Claudio Risè
Nello Risi
Giuseppe Riva
Carlo Rivelli
Françoise Marie Rizzi
Oreste Rizzini
Giulia Rodelli
Luigi Rodelli
Carlo Rognoni
Piero Rognoni
Lalla Romano
Marco Romano
Gabriella Roncali
Guido Roncali
Maria Roncali
Luisa Ronchini
Roberto Ronchini
Alberto Ronelli
Gianluigi Rosa
Carlo Rossella
Giovanna Rosselli
Mario Rossello
Enrico Rossetti
Serena Rossetti
Gaetano Rossi
Orazio Rossi
Pietro Rossi
Ettore Rotelli
Maria Luisa Rotondi
Irene Rovero
Giovanni Rubino
Maria Ruggieri
Luigi Ruggiu
Marisa Rusconi
Francesco Russo
S
Luisa Saba
Adele Saccavini
Giancarlo Sacconi
Carlo Salinari
Pietro Salmoiraghi
Alberto Samonà
Giuseppe Samonà
Salvatore Samperi
Carlo Santi
Natalino Sapegno
Carla Sartorello
Sergio Saviane
Angelica Savinio
Ruggero Savinio
Marina Saviotto
Claudio Scaccabarozzi
Eugenio Scalfari
Nino Scanni
Carlo Scardulla
Luigi Scatturin
Vladimiro Scatturin
Mario Scialoja
Toti Scialoja
Antonio Scoccimarro
Gino Scotti
Giuliana Segre Giorgi
Marialivia Serini
Enzo Siciliano
Luigi Simone
Ulderico Sintini
Mario Soldati
Sergio Solimi
Franco Solinas
Sandro Somarè
Romano Sorella
Libero Sosio
Corrado Sozia
Rosalba Spagnoletti
Sergio Spina
Mario Spinella
Nadia Spreia
Paolo Spriano
Pasquale Squitieri
Giancarlo Staffolani
Brunilde Storti
Antonino Suarato
Giuseppe Surrenti
T
Silvana Tacchio
Manfredo Tafuri
Aldo Tagliaferri
Carlo Taviani
Paolo Taviani
Vittorio Taviani
Marisa Tavola
Wladimir Tchertkoff
Giorgio Tecce
Rubens Tedeschi
Maria Adele Teodori
Massimo Teodori
Umberto Terracini
Angela Terzani
Tiziano Terzani
Duccio Tessari
Nazario Sauro Tiberi
Giovanni Tochet
Rorò Toro
Emanuela Tortoreto
Fedele Toscani
Oliviero Toscani
Marirosa Toscani Ballo
Rita Trasei
Julienne Travers
Ernesto Treccani
Renato Treccani
Bruno Trentin
Giorgio Trentin
Picci Trentin
Giuseppe Turani
Saverio Tutino
U
Filomena Uda
Flavia Urbani
V
Marina Valente
Francesco Valentini
Giovanna Valeri De Santis
Aldo Valia
Laura Valia
Bernardo Valli
Nanny Van Velsen
Guido Vanzetti
Paolo Vascon
Luciano Vasconi
Domenica Vasi
Sergio Vazzoler
Emilio Vedova
Maria Venturini
Virgilio Vercelloni
Lea Vergine
Maura Vespini
Carlo Augusto Viano
Vittorio Vidali
Lucio Villari
Sandro Viola
Giovanni Virgadaula
Aldo Visalberghi
Massimo Vitali
Corrado Vivanti
Alessandra Volante
Giuseppe Voltolini
Gregor Von Rezzori
Joachim Von Schweinichen
Z
Annapaola Zaccaria
Livio Zanetti
Antonio Zanuso
Francesco Zanuso
Marco Zanuso
Ornella Zanuso
Domenico Zappettini
Marvi Zappettini
Cesare Zavattini
Giorgio Zecchi
Sandro Zen
Alfredo Zennaro
Bruno Zevi
Alberto Zillocchi
Carla Zillocchi
Mario Zoppelli
Fulvio Zoppi
Nicoletta Zoppi
Giovan Battista Zorzoli
(L'Espresso, 27 giugno 1971, pag. 6)

Sembrerebbe un "coccodrillo" più che una biografia...

Furio Colombo (Châtillon, 1º gennaio 1931) è un giornalista, scrittore e politico italiano.
È anche apparso come attore nella pellicola Il caso Mattei del 1972, nella quale ha interpretato la parte dell'assistente-traduttore del presidente dell'ENI tragicamente morto in circostanze non del tutto chiarite.

Già alla metà degli anni '50, giovanissimo, fu chiamato alla RAI dove, insieme ad un gruppo di giovani intellettuali (tra cui Emilio Garroni, Luigi Silori, Umberto Eco, Mario Carpitella, Antonio Santoni Rugiu), collaborò e diresse vari programmi culturali radiotelevisivi, realizzando decine di documentari e servizi giornalistici. Al suo attivo ha numerosi saggi.
Nei primi anni Settanta fu tra i primi professori a contratto del corso di laurea in DAMS all'Università di Bologna, dove insegnò Linguaggio radiotelevisivo tra il 1970 e il 1975.
Fu corrispondente de La Stampa e de la Repubblica dagli Stati Uniti. Negli stessi anni scrisse per il New York Times e per New York Review of Books. Fu poi presidente della FIAT USA e, in tale veste, insegnò giornalismo alla Columbia University.
Tra il 2001 e il 2004 fu direttore de l'Unità, e tra il 2000 e il 2005 diresse la rivista L'architettura. Cronache e storia.
Dopo l'esperienza da deputato tra le file del PDS-DS (dal 1996 al 2001), è tornato in Parlamento nel 2006, questa volta come senatore, per la lista dei DS in Lombardia. È iscritto al gruppo parlamentare dell'Ulivo.
Il 16 luglio 2007, con un articolo pubblicato su L'Unità, ha annunciato la sua candidatura alla segreteria del Partito Democratico, puntando su una critica marcata nei confronti di Silvio Berlusconi, del berlusconismo e di ciò che i suoi governi hanno rappresentato nella legislatura precedente. Tuttavia, all'atto di presentazione delle sottoscrizioni necessarie alla candidatura (il 30 luglio), presenta alcuni moduli che gli erano stati inviati via fax e quindi non in originale. L'ufficio tecnico-amministrativo del "Comitato 14 ottobre", promotore del PD, ammette la sua candidatura "con riserva", richiedendo gli originali entro 48 ore. Colombo sostiene l'impossibilità di eseguire la richiesta, vista l'assenza di strutture partitiche alle sue spalle, e lamenta la presenza di regole "vetero burocratiche" che "soffocano" la nascita del nuovo partito. L'1 agosto, con un intervento sull'Unità, annuncia di rinunciare alla candidatura.
L'8 luglio 2008 ha partecipato al No Cav Day, del quale era uno dei principali promotori, anche dichiarando la propria contrarietà per un attacco in precedenza rivolto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Fu tra gli intellettuali che firmarono l'appello pubblicato sull' Espresso in cui si accusava il commissario Calabresi di essere un torturatore e di essere responsabile della fine dell'anarchico Pinelli. (da Wikipedia)

domenica 20 settembre 2009

Lodo Alfano: legittimo e, soprattutto, giusto. Aldo Vitale

Tutto quello che si deve sapere del lodo Alfano, scritto in modo chiaro e comprensibile anche per i non "addetti ai lavori".

Soltanto i furori di carattere politico-ideologico possono osare tanto da considerare che vi siano leggi emanate dal Parlamento che non siano legittime. Soltanto in Italia, cioè in un Paese in cui l'esasperaizone della delegittimazione dell'avversario politico tocca vertici inauditi altrove, si può ritenere che vi siano leggi illegittime sol perché emanate da una forza politica piuttosto che da un'altra. O peggio, soltanto in Italia, in cui l'avversario politico si considera un nemico piuttosto che un rivale, si può pensare che una legge sia illegittima costituzionalmente sol perché emanata da una parte politica e non da un'altra.

Spesso ciò accade poiché non si tiene debitamente conto delle categorie giuridiche, confondendo legittimità e giustizia di una legge. Se poi si considera che questa menomazione della logica degli attributi di una legge deriva proprio da quella cultura giuridica e politica sempre tesa e pronta a negare che le leggi debbano essere giuste oltre che valide, come sostenuto dal neo-positivismo giuridico, ancor più strampalata sembra l'accusa di illegittimità scagliata contro alcuni atti legislativi piuttosto che contro altri.

Insomma: se si decide di seguire la pista del puro formalismo giuridico tutte le leggi sono legittime poiché non ci si deve occupare della loro giustizia, cioè della loro corrispondenza a principi pre-normativi, meta-normativi, che ne qualificano l'essenza di legge giusta od ingiusta. Più chiaramente: secondo i criteri della cultura giuridica positivista sarebbero da accettare come legittime, per esempio, sia una legge che estendesse le tutele sociali nei confronti dei disoccupati, sia una legge che decidesse la deportazione di tutte le persone bionde. Fortunatamente i paradossi e le contraddizioni del positivismo giuridico sono note oramai ai più e solo qualche nostalgico del kelsenismo, ancora sufficientemente diffuso in Italia, potrebbe insistere per questa impervia via.

Fuoriuscendo dalla sterile visione positivista non si può fare a meno di notare che oltre alla legittimità bisogna guardare alla giustizia di una legge. A questo punto si deve precisare che il «lodo Alfano», cioè la legge 124/2008, non può non essere considerato legittimo sia in senso politico, sia in senso costituzionale. In senso politico proprio per ciò che si è accennato all'inizio, cioè per la circostanza che si tratta di un atto legislativo che il Parlamento ha emanato liberamente in quanto organo di rappresentanza della popolazione che lo ha eletto. Non è dunque opportuno discutere della legittimità, poiché questa è indiscutibile ai sensi di una logica di rappresentanza tipica di un sistema democratico. Lo stesso schema è del resto utilizzabile per qualunque altra legge, poiché ci si muove sul piano della mera forma.

Ma, dopotutto, il «lodo Alfano» sembra legittimo anche sotto un profilo costituzionale. Se si pensasse, infatti, che il presente testo di legge potrebbe essere costituzionalmente illegittimo poiché sarebbe stato più opportuno incardinare le disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato in una cornice di riforma costituzionale, con una legge di modifica della Costituzione, proprio per l’alto profilo istituzionale e costituzionale dei soggetti che avrebbero beneficiato di una simile innovazione, non si terrebbe adeguatamente conto di almeno tre fattori: il primo e principale riguarda la circostanza per cui si tratta appunto di modifiche processuali e dunque opportunamente si sono integrate con una legge ordinaria al resto delle norme di procedura penale che, per loro natura, sono norme di rango inferiore al resto della Costituzione medesima; il secondo è afferente al fatto che le lunghe procedure di revisione costituzionale si sarebbero rese incompatibili con l’urgenza di apportare simili modifiche all’ordinamento penale per evitare un danno processuale alle parti; il terzo riguarda la circostanza per cui essendo la riforma contenuta in un testo di una legge ordinaria, grande attenzione è stata rivolta, appunto, al momento di espressione massima del procedimento democratico, rivelandosi così un testo normativo rispettoso non solo della forma della Costituzione, ma fin’anche dei principi democratici in essa contenuti.

Differentemente da quanto ritenuto dalle forze ostili al «lodo Alfano», questo non introduce dunque alcuna nuova «prerogativa» di carattere personale (in questo caso sarebbe stata necessaria una riforma costituzionale), ma si limita ad apportare una semplice modifica di carattere processuale. Chi decidesse, dunque, di appigliarsi a questa circostanza resterebbe incagliato ancora una volta sul piano del puro formalismo procedurale, tanto che la stessa Consulta non ha affrontato le questioni in questo senso sollevate dal Tribunale di Milano, come ricordato dal giudice costituzionale, già Presidente della Consulta, Professor Annibale Marini, in una intervista a Il Giornale dello scorso 18 settembre. Soltanto fuoriuscendo dalla cecità di un rancore ideologico, infatti, si può convenire che, prescindendo da chi ricopra il ruolo, se l'imputato di un processo penale è il Presidente del Consiglio dei Ministri ( o anche il Presidente di una delle Camere o della Repubblica ), si devono usare delle garanzie e della cautele maggiori rispetto ad un qualunque altro imputato, e ciò per vari motivi.

A ben guardare, infatti, non si viola il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, poiché, come sa chi è aduso alla logica giuridica, il principio suddetto richiede di trattare casi uguali in modo uguale e casi diseguali in modo diseguale; ed è fin troppo evidente che se il processo penale incombe su una delle cariche istituzionali dello Stato, magari con poteri di rappresentanza, o poteri politici e di alta amministrazione come i presidenti delle Camere o il Premier, si tratta di una differenza abissale rispetto al comune imputato per furto o rapina. Diversamente: il comune imputato ha da difendere solo il proprio interesse, il proprio ruolo, la propria posizione; se ad essere imputata è una delle cariche dello Stato vi sono interessi meta-personali che richiedono, proprio in ossequio della differenza tutelata dal principio di uguaglianza, maggiori garanzie e tutele.

A questo si aggiunga che, a prescindere da chi ricopra i summenzionati ruoli istituzionali, disposizioni come l'abolita autorizzazione a procedere o come il «lodo Alfano» rientrano nell'ambito di quel sistema di checks and balances, cioè pesi e contrappesi, orchestrato per mantenere l'autonomia e l'indipendenza dei poteri dello Stato, così come è caratteristico di un vero Stato di diritto. Soltanto chi è esente da ogni patema ideologico può, infatti, notare che se da un lato occorre tutelare l'autonomia della magistratura, il principio di obbligatorietà dell'azione penale, il principio di effettività della giurisdizione, dall'altro lato non si può non tutelare l'autonomia dei poteri politici dello Stato (Governo e Parlamento), il principio di separazione dei poteri, il principio di rappresentanza.

Proprio quest'ultimo principio non dovrebbe agire, come molti hanno pensato equivocando, come scriminante nei confronti di un premier ipoteticamente imputato per alcuni reati, poiché così si snaturerebbe la funzione stessa del processo e del principio per cui le scriminanti sono espressamente previste dal codice, quanto piuttosto come momento d'impulso per l'instaurarsi di una serie di equilibri che possano consentire da un lato l'esecuzione dell'attività politica di chi ha ricevuto l'ampio consenso popolare, senza sacrificare, dall'altro, le esigenze di giustizia che richiede qualunque processo penale, i cui presupposti sono, appunto, la perseguibilità e la procedibilità nei confronti dell'imputato.

Insomma, se da un lato è vero che anche i membri di Parlamento o Governo o altri gangli istituzionali devono essere processati qualora abbiano commesso dei reati, è anche vero che la magistratura non può procedere ad libitum contro gli altri poteri dello Stato, senza rischiare di creare quel governo tirannico tanto paventato da Montesquieu, il quale riteneva la magistratura un «potere nullo», cioè un non-potere, da sottoporre, addirittura, ai più stretti vincoli e controlli, come facevano i romani, di cui il pensatore francese ammirava la severità usata contro la magistratura.

A questa duplice ed articolata esigenza risponde perfettamente il «lodo Alfano» in vari e davvero logici modi. In primo luogo stabilendo al comma 2 che l'imputato può sempre rinunciare alla sospensione del processo; in secondo luogo al comma 3 tutelando le impellenze di carattere probatorio, concedendo la possibilità di esperire l'incidente probatorio (cioè la raccolta di prove che non può essere rimandata a causa della loro successiva ed eventuale indisponibilità); in terzo luogo garantendo l'interesse ed i diritti della parte civile al comma 6.

Ma la norma che maggiormente indica la logica degli equilibri che sostiene il «lodo Alfano», mettendo a tacere all'un tempo ogni sospetto di volersi sottrarre al giudizio da parte dell'imputato in genere, di Berlusconi in particolare, è incardinata nel comma 4, in cui si dispone che si applicano le disposizioni dell'art 159 del codice penale, che prevede la sospensione della prescrizione.

Insomma, da un lato la sospensione del processo garantisce l'imputato, dall'altro la sospensione della prescrizione garantisce l'esigenza della effettività della azione penale. Il «lodo Alfano» è ispirato, dunque, ad una logica che si potrebbe definire di «pausa del gioco», cioè di una pausa sia di ciò che è favorevole sia di ciò che è contrario all'imputato, a causa del ruolo istituzionale e costituzionale che egli temporaneamente ricopre; ovviamente il «gioco» riprenderà appena dismessa la carica ricoperta.

Infine, il comma 7 che prevede l'applicazione del «lodo Alfano» «anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado », rispondendo all'esigenza di ossequiare uno dei principi cardine degli ordinamenti penali dello Stato di diritto, il favor rei, cioè quello per cui le nuove leggi penali che favoriscono l'indagato, l'imputato ed il condannato sono sempre retroattive, diversamente da quelle sfavorevoli. Sarebbe superfluo ricordarlo, ma sembra necessario considerando l'imbarbarimento giuridico dei critici del «lodo Alfano», che il principio del favor rei si può rappresentare come l'altra faccia della medaglia del principio della presunzione d'innocenza. Ecco dunque che s'invera quanto la logica che sottende il lodo Alfano sia, oltre che legittima, anche e soprattutto giusta, poiché rispondente a ben determinati principi di carattere meta-normativo, perfino costitutivi dello Stato di diritto. Roba troppo difficile da comprendere, forse, per quanti hanno guardato per decenni la tirannia del positivismo (socialista) intravedendovi un paradiso di libertà, con un daltonismo gius-filosofico simile a chi osservando il colore rosso lo percepisse verde. (Ragionpolitica)

Il prete sciacallo e il silenzio del cardinale. Alessandro Sallusti

Ci sono parole e fatti che indignano i professionisti della protesta. Altri no. Basta che Berlusconi, Brunetta, la Gelmini, Bossi e suo figlio aprano bocca che subito le agenzie battono reazioni allarmate dei vari esponenti dell'opposizione e dell'intellettuale di turno. Di Pietro insegna. Non avendo un lavoro né nulla di interessante da fare, il leader dell'Idv passa la giornate a sfornare pareri non richiesti su tutto e tutti. Ma, dicevamo, a volte non è così. Per esempio ieri non abbiamo sentito o letto condanne e prese di distanza da quegli imbecilli che stanno imbrattando i muri delle nostre città con la scritta «-6» in segno di esultanza per il successo dei talebani nell'attentato di Kabul contro i nostri soldati. Mani anonime, si dirà. Certo, ma la matrice politica è chiara, ed è da cercare nell'area dell'antiberlusconismo radicale alla quale non pochi signori che vediamo ogni sera nei talk-show televisivi strizzano l'occhio. Sono curioso di vedere se oggi la democratica Concita De Gregorio scriverà qualche cosa contro questi mascalzoni sulla sua Unità sempre pronta a dare lezioni di morale. O se Ballarò e Santoro dedicheranno qualche minuto delle loro trasmissioni per smascherare e denunciare gli sciacalli di sinistra.
Ma soprattutto mi colpisce il silenzio del cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, nei confronti di un suo dipendente, don Giorgio de Capitani, parroco a Lecco, diocesi ambrosiana. Questo prete, già noto per le sue violente omelie contro Berlusconi, ieri ha detto e scritto sul suo sito che i parà uccisi a Kabul «sono solo dei mercenari» che non meritano tanta commozione. Oggi, interpellato dal nostro inviato Luca Fazzo, rincara la dose e confida che «su tante cose anche il cardinale Tettamanzi la pensa come me, solo che non può dirlo». Ora, noi non ci permettiamo di mettere becco in casa altrui, sappiamo che nella Chiesa c'è posto per tutti, anche per gli svitati, ma è chiaro che delle due l'una: o oggi, subito, vengono presi provvedimenti tali da impedire a don Giorgio di offendere i nostri morti a nome e per conto di Dio, oppure ha ragione lui e il silenzio del cardinale diventa benedizione e complicità.
Anche perché ieri il Tettamanzi ha ricevuto parole di encomio importanti. Cito testualmente: «Il capo della diocesi milanese è l'unico che ci difende, appoggiando la nostra richiesta di costruire delle moschee. Fino ad ora è stato l'unico ad avere espresso nei nostri confronti parole cristiane e rispettose della costituzione che garantisce a tutte le religioni di avere propri luoghi di culto». A sbilanciarsi in tanto ringraziamento è stato Abdel Hamid Shaari, presidente del centro islamico milanese. Vorremo poter dire altrettanto, e cioè ringraziare il nostro cardinale per aver difeso senza indugio, oltre che i diritti degli islamici, anche quelli dei nostri soldati che non sono mercenari ma che erano a Kabul mandati dal nostro Parlamento, cioè da tutti noi, in pieno rispetto del dettato costituzionale.
Si potrebbe obiettare: don Giorgio è don Giorgio, Tettamanzi è altro. Giusto. Ma senza entrare in questioni ecclesiali, mi sembra ovvio che un fedele quando ascolta il suo parroco sia convinto che questi non parli a titolo personale ma che le sue parole siano ispirate ai sacri testi. E allora non vorremmo che qualche buon cristiano sia convinto che il buon Dio o il suo vicario in terra considerino i nostri soldati gente indegna. Senza contare che tutti i cristiani, e i preti in particolare, debbono obbedienza al proprio vescovo. Speriamo che quest'ultimo abbia tempo e voglia di farsi obbedire. (il Giornale)

sabato 19 settembre 2009

Brunetta: "Elite irresponsabili vogliono il colpo di Stato". Adnkronos/Ign

Chiesa e sinistra nel mirino di un doppio attacco che è stato sferrato oggi dal ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta, nel corso del convegno del Pdl sul tema 'La persona prima di tutto', a Cortina d'Ampezzo. Un appuntamento che è stato anche l'occasione per lanciare un allarme: "Ci sono elites irresponsabili che stanno preparando un vero e proprio colpo di Stato" e che fanno riferimento "alla cattiva finanza e alla cattiva editoria".

"Anche con la Chiesa bisogna lavorare - è stato il duro j'accuse di Brunetta - Lo dico da laico mangiapreti. E' necessario un dialogo soprattutto nei settori in cui la Chiesa fa meglio dello Stato. Ma non ci può essere un dialogo con la Chiesa di certi esponenti che giocano al massacro e che sono portatori di una ideologia politica con la tonaca". Quindi ha ammonito: "Mai la Chiesa ha avuto tanto dallo Stato in termini di 8 per mille. Questa è la nostra serietà".

Il secondo atto d'accusa ha riguardato quella che Brunetta ha definito la ''sinistra per male'', uno dei passaggi più applauditi dalla platea del convegno. "Mentre il governo lavorava per far uscire il Paese da questa grave crisi economica - è l'opinione del ministro - c'è chi ha pensato solo a come far cadere il governo e mi riferisco alle elite o presunte elite della rendita finanziaria, della cattiva finanza, della cattiva editoria. E per la povera sinistra che si fa usare propongo una 'lotta di liberazione', per questi compagni della sinistra che devono liberarsi da questo abbraccio mortale. A loro dico 'attenti, perché vi usano come un taxi'. Tornate quindi alla vostra lotta, alle vostre battaglie politiche, ai vostri ideali veri. Questo appello lo faccio alla sinistra 'per bene', mentre alla sinistra 'per male' dico: vadano pure a morire ammazzati".

Brunetta ha poi annunciato che per contrastare la crisi economica "in autunno il governo lancerà la fase 2". "La fase 1 è quella della gestione della crisi - ha detto - l'abbiamo gestita bene, salvaguardando il risparmio, salvaguardando le banche, salvaguardando il lavoro con interventi specifici per certi settori come gli incentivi per l'auto. Insomma la fase 1 ci vede promossi. La fase 2 - ha continuato il ministro - è la fase dell'espansione, del rilancio, ovviamente per rilanciare ci vogliono le risorse che vengono da una congiuntura che cambia, che migliora''.

E spiega che "piuttosto che la detassazione delle tredicesime io penso alla detassazione dei contratti di secondo livello, favorendo così tanti buoni contratti di datori di lavoro, che si fanno sul territorio, laddove c'è la produttività. La fase 2 è anche l'implementazione definitiva del piano casa". "Le risorse da risparmio ci sono - ha aggiunto - Tremonti ieri ha detto che bisogna fare un monumento al risparmiatore italiano adesso questi risparmi devono trasformarsi in consumi e investimenti".

Poi, alla domanda se chiederà più soldi a Tremonti nell'ambito della prossima finanziaria, Brunetta ha replicato che "questa è una costante tutti e 21 i ministri chiedono più soldi a Tremonti, lo stesso Tremonti chiede più soldi a Tremonti...".

E a una domanda dei cronisti, a margine del convegno, sui prossimi contratti del pubblico impiego, ha risposto che ''i patti vanno rispettati da tutti e il governo rispetterà i patti".

mercoledì 16 settembre 2009

Case, rifiuti e clandestini non chiamiamoli miracoli ma sicuramente sono successi. il Foglio

"Sono stato nelle grotte di Stille, dove domani consegnano nove casette... e mi sono chiesto se abbia senso occuparsi di grotte quando mancano i tetti. Ha senso, se arrivi a capire che nulla sarà mai più come prima, e devi inventarti un futuro", ha scritto Toni Capuozzo sul Foglio del 23 agosto. Poiché la bacchetta magica non esiste, ha senso partire dai fatti. Ma poiché esiste anche la buona e persino ottima capacità del fare, le prime novantaquattro abitazioni in legno che Silvio Berlusconi ha consegnato ieri ai terremotati di Onna sono qualcosa più di una buona politica del fare: sono una scommessa che molti volevano perdente e invece è vinta. Quasi un miracolo. 0 come dice Guido Bertolaso a chi gli ricorda che "cinque mesi fa sembrava una promessa folle": "Abbiamo dato l’anima". Entro fine settembre saranno consegnati altri 350 prefabbricati dei progetto "Case", l’acronimo made in Bertolaso che significa "complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili". E per dicembre le altre "Case" e prefabbricati. Quasi seimila. Dunque si può anche polemizzare che siano state fabbricate in Trentino e montate da uomini della provincia autonoma di Trento. 0 lamentarsi, come da lenzuolo degli abitanti di Tempera, frazione di Paganica: "Dove andremo a settembre? No alla deportazione". 0 accusare la "ricostruzione che procede a macchia di leopardo", dimenticando però la vastità del sisma e un centro storico distrutto al 60 per cento di una città d’arte. O infine cavillare come la presidente della provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane, che "questa case non erano previste, sono state individuate dopo una mobilitazione dei cittadini di Onna, non è merito del governo". Ma intanto è un dato che, sotto la supervisione della Protezione civile e il lavoro di programmazione del governo, le prime case ci sono. E "il 21 settembre le scuole apriranno", come ha detto Berlusconi. Ed "entro la fine del mese saranno smontate tutte le tendopoli (undicimila persone, ndr) e gli sfollati saranno sistemati". Case in legno o antisismiche per 25-30 mila persone, spiega Bertolaso: "Non baracche, non container, non roulotte: sono vere e proprie case". Non sono miracoli, ma assomigliano. E non sono nemmeno gli unici di questi mesi a testimoniare che la "cultura del fare", tanto cara al premier, in certi casi è pura funzionalità. Ci sono stati anche i rifiuti in Campania. Lo stato di emergenza, secondo quanto disposto dalla legge 123/08, terminerà il 31 dicembre. Ma già a fine luglio Bertolaso poteva dire: "Per noi l’emergenza rifiuti è finita. Il nostro problema era di trovare le discariche, avviare il termovalorizzatore di Acerra e la raccolta differenziata. Oggi potenzialmente la Campania si pone meglio di altre regioni". E spiegava, da puro tecnico: "Dato che la Campania ogni anno produce due milioni e 200 mila tonnellate di rifiuti, vuol dire che ci saranno due anni di autosufficienza". Più il termovalorizzatore di Acerra, che finalmente funziona. E va bene che, anche qui, Antonio Bassolino, abbia rivendicato il proprio ruolo, perché "sarebbe stato semplicemente e tecnicamente impossibile costruire in otto mesi un termovalorizzatore". Ma anche qui il risultato c’è, dove prima era il caos. Tanto che Silvio Berlusconi è passato all’attacco di Calabria e Lazio, dove la sua cultura del fare non è ancora arrivata e tra pochi mesi "potrebbe esplodere la questione dei rifiuti".
Gli ultimi dati del Viminale
Ma la coppia Berlusconi-Bertolaso non è la sola addetta alle scommesse impossibili, se qualche giorno fa il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha potuto annunciare che "la politica dei respingimenti funziona, dal 1° maggio al 31 agosto gli sbarchi di clandestini sono diminuiti del 90 per cento, passando da oltre 15 mila a 1.400". E che il Cie, il Centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa, è ormai (miracolosamente?) vuoto. Un’operazione forse simbolica, ma certo hanno sbagliato simbolo anche Magistratura democratica e il Movimento per la giustizia, che hanno scelto Lampedusa per il loro convegno sui diritti dei migranti conclusosi l’altro giorno. I Cie, se non si svuotano, non sono però più in emergenza da sovraffollamento. Anche se nessuno lo dice. I dati del Viminale aggiornati in tempo reale al 15 settembre 2009, sono sorprendenti: Bari 193 clandestini su 196 posti, Brindisi 30 su 83, Crotone 83 su 124, Torino 76 su 90. Per un totale di 1.285 su 1.752 posti. Non significa che i problemi non esistano (Lamezia, Milano, Torino), e lo stesso Maroni non li ha negati, imputandoli soprattutto all’allungarsi dei tempi di trattenimento. Ma la situazione migliora. L’8 settembre i radicali Massimiliano Iervolino ed Elisabetta Zamparutti, reduci da una visita al Cie di Ponte Galeria a Roma, hanno raccontato a Radio Radicale di una situazione dura ma non certo emergenziale, in cui "non c’è sovraffollamento", non ci sono scioperi della fame in corso, si è verificato un solo caso di violenza e c’è "un buon rapporto degli ospiti con il direttore". Miracoli, o quasi.

L'opposizione della partita a perdere alla guerra dell'Auditel. Maurizio Marchesi

“Contro” il Porta a Porta” di ieri sera, ospite il presidente del Consiglio, la programmazione delle altre reti non poteva essere più aggressiva. E infatti lo share ne ha risentito. Tuttavia, più di tre milioni di spettatori - più donne che uomini - hanno comunque scelto di seguire in diretta il contraddittorio che ha visto protagonista Silvio Berlusconi, il suo ospite e giornalisti di testate non propriamente allineate. Tanti? Pochi? Ieri Franceschini aveva proposto di non tenere più conto dell’Auditel per le trasmissioni di informazione, oggi è tutto un rincorrersi di commenti dal fronte del centrosinistra per segnalare un presunto flop degli ascolti, che confermerebbe un declino ormai inarrestabile…

Continuano a sognare, non riescono a uscire dalla caverna di Platone, popolata da ombre che riflettono in modo distorto la realtà. Quello che colpisce, nell’aggrapparsi quotidiano dell’opposizione a qualsiasi pretesto pur di accreditare una parabola discendente di Berlusconi, è la mancanza di qualsiasi riferimento ai contenuti che dovrebbero caratterizzare l’azione del governo dal punto di vista dell’opposizione. Non viene sviluppata, insomma, una contestazione rigorosa, documentata, sostenibile delle politiche seguite dal governo sulla quale sia possibile un confronto civile che aiuti tutti, centrodestra e centrosinistra, a lavorare per l’interesse generale. Dal centrosinistra continuano invece ad alimentare, assecondando la deriva imposta dal giornale-partito di Largo Fochetti, campagne di delegittimazione. Del premier e di chiunque non voglia piegarsi.

Ma queste campagne sono dirette in primo luogo contro la maggioranza dei cittadini che ha liberamente scelto di essere governata dal centrodestra e di avere Berlusconi come premier. Campagne contro il Paese, insomma. Possibile che nessuno dall’opposizione, tranne Marino (sul solco del sindaco di Bari Emiliano), riesca a fischiare il finale di questa partita a perdere? (il Velino)

domenica 13 settembre 2009

Mafia e gattini ciechi. Davide Giacalone

Il piatto del giorno sembra debbano essere i contrasti, interni alla maggioranza, circa le inchieste di mafia. Angiolino Alfano, ministro della giustizia, dice che se ci sono fatti nuovi è giusto indagare. Renato Schifani, presidente del Senato, storce la bocca: attenzione ai magistrati politicizzati, che usano le inchieste per far valere teoremi indimostrabili. Gianfranco Fini, presidente della Camera, plaude ad Alfano, perché sia chiaro che la maggioranza non ha nulla da temere. Questa sarebbe la polemica. A me paiono gattini ciechi. Ciascuno parla di quel che gli fa comodo e finge d’ignorare il resto. Studino, rileggano per intero il caso di Carmelo Canale, il carabiniere che Paolo Borsellino chiamava “fratello”, stritolato dall’accusa d’essere mafioso. Rileggano, anzi, leggano, perché forse è una storia che non hanno mai conosciuto, e riflettano.
Quel che dice Alfano non è solo giusto, è ovvio. E non è solo ovvio, è scritto nella legge: se ci sono fatti nuovi, si rifanno le indagini ed anche i processi. Ma voi mi dovete spiegare come fanno i fatti nuovi, che, per la precisione, sono opposti a quelli che si ritenevano veri, a portare sempre allo stesso teorema. Insomma, Dell’Utri e Berlusconi erano in odore d’essere i mandanti delle stragi mafiose quando valeva la verità di Vincenzo Scarantino, sulle cui dichiarazioni non solo si costruì l’indagine sulla bomba di via D’Amelio, dove morirono Borsellino e la sua scorta, ma si ritagliò una verità processuale, una sentenza che arrivò fino alla cassazione, divenendo definitiva. Indagini e sentenze stabilirono la credibilità assoluta di uno Scarantino che non solo era mafioso, ma partecipava alle riunioni della cupola. Salvo il fatto che il citato galantuomo era drogato ed amante di un travestito conosciuto come “la sdillabbrata”. Che, insomma, non è la condotta di vita prediletta dalla mafia, anche perché uno in quelle condizioni può ricattarlo chiunque. Poi arriva Gaspare Spatuzza, altro mafioso, altro collaborante, che smentisce tutto, ma proprio tutto quello che ha raccontato Scarantino, e porta le prove. Per cui sia l’indagine che le sentenze sono da buttare. Benissimo, dicono certi procuratori, questo conferma che i mandanti possono essere Dell’Utri e Berlusconi. Come si può comodamente legge su La Repubblica. Ma, a parte ogni altra considerazione, come fanno due versioni opposte a portare sempre dalla stessa parte? C’è un solo modo: che quella sia la tesi, il teorema prediletto, qualsiasi cosa racconti la realtà.
Stanti così le cose, però, si possono riaprire tutte le indagini che si vogliono, perché tanto l’accertamento della verità resterà una chimera. Quindi, gli illustri Alfano, Fini e Schifano non s’esercitino nell’arte di prendere le distanze o agguantare le vicinanze da quelli che pensano possano essere gli interessi di Berlusconi, ma dedichino il loro tempo a fare l’unica cosa che serve: riformare radicalmente e brutalmente la giustizia. La peggiore giustizia del mondo civile. E serve a tutti, non solo ad alcuni.
Per capire meglio, usino la vita di Canale, che tanto è abituato, a far da cavia. Carabiniere, braccio destro di Borsellino, cognato del carabiniere Antonino Lombardo, quello che si sparò dopo le accuse rivoltegli da Leoluca Orlando Cascio, in diretta televisiva e senza uno straccio di contraddittorio. Allora Canale si ribellò, disse che il congiunto era stato ammazzato, che si doveva vederlo chi collaborava e chi combatteva la mafia. Gli si aprirono le porte dell’inferno: accusato, a sua volta, di mafia, con numerosi pentiti pronti a testimoniare. Carriera bloccata, vita spezzata.
Canale passa anni ed anni da imputato. E’ assolto in primo grado. Assolto in secondo grado. Assolto in cassazione. La sentenza finale, copiando quella di secondo grado, spiega che non c’era un fico secco, non dico per condannare, ma neanche per indagare. L’11 agosto scorso commentai tale sentenza della cassazione, le cui motivazioni erano state depositate con scandaloso ritardo. Il Giornale di Sicilia la commenta giovedì scorso, dieci settembre, scrivendo, in buona sostanza, che secondo i supremi giudici non c’è la certezza che Canale sia colpevole, lasciando intendere che non c’è neanche la certezza che sia innocente. Ma è la legge che afferma necessaria la certezza, quindi i giudici sono obbligati a motivare la sua assenza, salvo che, per farlo, dimostrano che non c’era un bel niente. Insomma, ad un cittadino onesto, in questo caso ad un carabiniere onesto, non basta nemmeno farsi assolvere perché il fatto non sussiste, perché una volta marchiati dalle procure antimafia si resta marchiati a vita.
Leggano, studino, riflettanno in silenzio, i tanti che parlano ed i tantissimi che non legiferano con efficacia e saggezza, e chissà che non capiscono quanto sono irrilevanti certe polemicuzze, innanzi alla regressione incivile della nostra giustizia, del nostro giornalismo e della nostra politica.

giovedì 10 settembre 2009

Il lamento della delegittimazione. Davide Giacalone

“Delegittimazione” è la parola magica, la chiave che apre e chiude i documenti politici dell’Associazione Nazionale Magistrati, che, a scanso d’equivoci, è un sindacato e non un’istituzione. Basta che si critichi questo o quell’operato della magistratura e subito scatta il riflesso condizionato: state delegittimando la giustizia. A ben vedere, però, non ce n’è gran bisogno, giacché spesso provvede da sé sola.
Il quadro generale è sconfortante. La nostra è la peggiore giustizia del mondo civile, come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo continua a ricordarci. Due giorni fa è morto, in carcere a Pavia, un tunisino che faceva lo sciopero della sete e della fame: Sami Mbark Ben Gargi. Sosteneva d’essere innocente, ma non è rilevante. Quel che conta è che se ne stava in carcere da tre anni, senza una condanna definitiva, che avrebbe giustificato la pena. Sami era in carcere da presunto innocente, condannato in due gradi di giudizio, ma ancora “ricorrente”. Mentre Sami moriva i giudici, che avrebbero dovuto esaminare il ricorso, erano (e sono) in vacanza. Ne fanno quanto gli scolaretti, senza neanche i compiti estivi. Ma, evidentemente, questo non lo trovano delegittimante.
Anche nello specifico, però, c’è da riflettere. Berlusconi ha lamentato la possibilità che dalle procure antimafia sia in arrivo qualche polpetta avvelenata, l’Anm ha subito replicato stracciandosi le vesti per gli eroici procuratori che combattono contro il crimine organizzato, assetati di verità processuale. Anche noi sentiamo la stessa arsura, e molti conti non ci tornano.
Per la strage di via D’Amelio, dove fu ucciso Paolo Borsellino, la procura sostenne una tesi, avallata dai verdetti. Abbiamo una verità processuale, solo che è falsa, hanno sbagliato tutto. Un pentito, Gaspare Spatuzza, ha raccontato come sono andate le cose, non solo smentendo il pentito precedente, Vincenzo Scarantino, che era stato preso come un oracolo, ma dimostrando che c’è voluta tanta buona volontà per credergli. Gli eroici procuratori, nel migliore dei casi, in compagnia dei tribunali, s’erano fatti menare per il naso. La cosa singolare è che una volta scoperta la nuova verità, si pretende di appiccicarle addosso i medesimi teoremi che, grazie alla vecchia, s’erano fatti circolare.E non basta. Si continua ad indagare sulla presunta “trattativa” fra la mafia e lo Stato, chiamando in causa Berlusconi che, all’epoca dei fatti, non aveva titolo a trattare per conto di nessuno Stato. Intanto si cerca di dimenticare che l’uomo dei contatti strani c’è già, è Luciano Violante. E’ lui che, dopo una vita passata a discettare su contiguità e frequentazioni, alla sola notizia che potessero arrivare carte di Vito Ciancimino è corso in procura, con tre lustri di ritardo, a dire: adesso che ricordo, mi chiese un incontro (o Violante lo chiese a lui). E fosse solo quello, perché gli mandò anche l’anteprima di un suo libro (sulla mafia, naturalmente). Ed a cosa portarono le stragi di mafia? Prima fu eletto Oscar Luigi Scalfaro alla Presidenza della Repubblica e poi …. E’ una storia ancora tutta da scrivere.
A noi rimane la gola secca, assetata di verità. Ci piacerebbe pensare ad una magistratura che la cerca, con professionalità, piuttosto che a procure nelle mani dei pentiti e pentiti nelle mani delle procure, salvo lanciare l’anatema della delegittimazione ogni volta che i fatti fanno a cazzotti con i teoremi.

martedì 8 settembre 2009

Al centrodestra servirebbe una Fox news italiana. Daniele Capezzone

Premessa dedicata ai lettori con eventuali tendenze travagliesche (nel senso di Travaglio, l`unico martire mondiale della libertà di informazione dotato di una rubrica fissa e senza contraddittorio in tv, pagata con i soldi dei cittadini): abbandonate subito la lettura dell`edizione di questa settimana del Taccuino, perché potrebbe mettere a dura prova il vostro self-control di - come si dice? ah sì...- “ceto medio riflessivo”.

La quota di elettori selvaggiamente antiberlusconiana è infatti convinta oltre ogni ragionevole dubbio di un assioma: sarebbero state le televisioni, e in particolare le callide e insinuanti emittenti del Biscione, ad aver determinato i successi del Cav. Chi scrive pensa esattamente il contrario: anzi, quanto più la sinistra pensa di aver perso per questa ragione, e tanto più è destinata, a mio avviso, ad incassare altre brucianti sconfitte. Ma c`è dell’altro: contrariamente a chi pensa che le tv berlusconiane siano un fucile perfettamente oliato e carico in funzione politico-elettorale (quando invece, per loro e nostra fortuna, si tratta di testate che vivono - e sbagliano o azzeccano le loro scelte - in base a logiche tutte aziendali), io credo che al centrodestra italiano manchi drammaticamente uno strumento televisivo (e/o radiofonico) da battaglia.

Servirebbe una Fox News italiana, e forse è un triplo scandalo parlarne: perché apparirà oltraggioso, per qualcuno, il solo pensare ad un irrobustimento mediatico del centrodestra; perché i fautori del politically correct ci spiegherebbero che Fox News è più a destra di Gengis Khan; e perché - vi dirà qualche berlusconiano ortodosso - la Fox appartiene a Rupert Murdoch, il cui gruppo appare oggi globalmente orientato in modo ostile rispetto alla maggioranza politica affermatasi in Italia.

Eppure il caso Fox andrebbe studiato e vivisezionato, e invece non sorprende che, con l`unica consueta eccezione rappresentata da un`attenta analisi di Christian Rocca, gli osservatori italiani sembrino così distratti rispetto a quel “paradigma”. In sintesi, Fox News è una tv americana all news, tutta dedicata all`informazione politica, che non ha alcun imbarazzo nel condurre campagne politiche popolari e martellanti. Se l`accendete in questo periodo, troverete a qualunque ora del giorno e della notte confronti e approfondimenti sulla riforma sanitaria obamiana, che Fox detesta (sia la riforma sia Obama), con servizi durissimi, commenti ultraschierati, ma anche con molti esponenti democratici invitati e interpellati, e tutti ben consapevoli di doversi misurare con domande incalzanti e obiezioni puntigliose, senza alcuno sconto. Risultato? Ascolti alle stelle, con la Cnn strabattuta, e una incidenza profonda nei processi politici e nel decision-making americano.

L`Italia televisiva si è invece abituata da anni a un copione opposto: esponenti di centrodestra sempre costretti a “giocare in trasferta”, e conduttori assolutamente “opinionated” (tendenza sinistra, ovviamente) a cominciare dal servizio pubblico, ma quasi senza eccezioni nell`intera offerta tv nazionale.

Se è possibile fare un paragone transmediatico, cioè spostandoci dal medium televisivo alla carta stampata, dovrebbe essere proprio il fenomeno-Feltri ad indurre il centrodestra ad una riflessione. Nel panorama stagnante dell`editoria italiana, gli unici successi di questi anni (di lettori e di entrate) sono quelli dei quotidiani diretti da Vittorio Feltri, e condotti con forza su una linea marcatissima, popolare, aggressiva. Come Fox news, mutatis mutandis. E allora perché non ritentare anche in tv e alla radio? (il Velino)

Cattocomunismo e politica: equivoco che dura da 50 anni. Giordano Bruno Guerri

A volergli cercare una madre nobile (anche le idee peggiori ce l’hanno), quella del cattocomunismo fu la Sinistra Cristiana, che si batté durante la Resistenza, più in funzione antifascista che filocomunista. Ne facevano parte Felice Balbo, Adriano Ossicini, Claudio Napoleoni, Franco Rodano. Oggi, però, i cattocomunisti evocati dal presidente del Consiglio riconoscono il loro padre nobile in don Giuseppe Dossetti, il prete-politico che rischiò - per la sua apertura a sinistra - di diventare l’alternativa a De Gasperi. Un cattolico di destra come Formigoni, usando un concetto di Paolo VI, lo definisce «l’emblema del complesso di inferiorità del cattolicesimo politico nei confronti del marxismo».

Nei cattocomunisti c’è la convinzione che non si possa fare politica, e tantomeno una buona politica cristiana, senza l’appoggio della sinistra: la quale sarebbe più vicina al messaggio evangelico, se non ai valori cristiani. Si tratta - ancora! - dell’antica convinzione popolare che Gesù era un rivoluzionario socialista, e che la rivoluzione cristiana non si possa fare senza la sinistra.

Più piattamente, il cattocomunismo applicato nacque da un progetto politico di forze fino ad allora contrapposte, ma che avevano bisogno l’una dell’altra per «garantire stabilità al Paese», ovvero per governare a lungo senza possibili alternative. Il cattocomunismo nacque in quel confuso marasma di ideali e necessità, espresso alla perfezione da espressioni politiche contorte e surreali: «convergenze parallele» e «compromesso storico». Concetti e parole partoriti, negli anni Settanta, da Aldo Moro e da Enrico Berlinguer. Parole e concetti tradotti nel più immediato «cattocomunismo», che individuò subito l’avversario principale nei cosiddetti «clericofascisti», i quali erano - più semplicemente - cattolici di destra. (Oggi io preferisco parlare di ghibelliniguelfi e di guelfighibellini, essendo quasi scomparsi - sia a destra sia a sinistra - i veri guelfi, i veri ghibellini, ma questa è un’altra faccenda.) Il bello è che sia i cattolici di destra sia i cattolici di sinistra credono di fare l’interesse della loro fede e della Chiesa. A destra, perché difendono i valori della famiglia tradizionale contro i Dico, la procreazione naturale contro quella assistita, l’obbligo di scegliere la vita contro la libertà di scegliere la morte, eccetera eccetera. Per fortuna (pardon) io non sono né cattolico né osservante, se no mi troverei in grave imbarazzo, essendo per i Dico, la procreazione assistita quando i mezzi naturali non funzionino, la libertà di scrivere un testamento biologico dove lo Stato non metta il naso. E, per fortuna, si può stare a destra e combattere per quelle idee, che non sono solo di sinistra. Ma come fanno, i cattolici, a far convivere l’obbedienza alla Chiesa con l’appartenenza a un gruppo politico che di quelle idee fa una bandiera?

Indifferenti all’insegnamento di una decina di papi, nonché alla scomunica di Pio XII ai marxisti, i cattocomunisti vollero sempre ignorare che il comunismo era, prima di tutto, un’ideologia sostitutiva della religione. E così si ebbero effetti che per un laico possono essere benigni e graditi, come le vittorie nei referendum sul divorzio e sull’aborto. Ma neppure un laico può fare a meno di chiedersi come un cattolico abbia potuto appoggiare quei referendum nel nome di Cristo e di una maggiore giustizia sociale.

Intanto, il cattocomunismo politico/economico provocava danni che stiamo ancora pagando, e chi sa per quanto tempo. Dal 1974 al 1985 le tasse aumentarono paurosamente, soprattutto per costruire quello Stato assistenziale che - per i cattocomunisti - è la versione più attuale del socialismo. Democristiani, socialisti e comunisti aumentarono il debito pubblico a dismisura per migliorare le «prestazioni sociali». In parte ci riuscirono, ma l’aumento della spesa pubblica accrebbe il deficit, il deficit aumentò il prelievo fiscale, che a sua volta diminuì l’iniziativa privata. Risultato, nuova disoccupazione, inflazione, povertà. Alla buonafede dei cattocomunisti si univa proprio quel complesso d’inferiorità di cui accennavamo all’inizio, ovvero la convinzione che soltanto i comunisti avessero gli strumenti per interpretare e migliorare la società e l’economia.

L’incredibile è che neanche il crollo del marxismo internazionale li abbia costretti a un ripensamento. Non ci è riuscito neppure papa Giovanni Paolo II, che nell’enciclica Centesimus annus, 1991, scrisse: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese».

Insomma, come si fa a essere cattocomunisti, oggi? Rimangono tali, infatti, anche in assenza di comunismo, che proprio certi cattolici sembrano rimpiangere più degli stessi marxisti. In proposito ha dato una risposta chiara e convincente Raffaele Iannuzzi: oggi la fede e i suoi contenuti culturali sono, per i cattocomunisti, al servizio e alla mercé del dibattito politico; per cui, «se il Regno di Dio non è più una realtà dell’altro mondo, ma è una cosa di questo mondo, allora abbattere Berlusconi è già l’apertura alla salvezza in questo mondo». È il vero motivo per cui, alla fine, non vogliono e non riescono a farsi un grande partito tutto cattolico: non riuscirebbero nell’obiettivo salvifico di espellere il mercante dal tempio. Anche il catechismo ne ha fatti, di guasti. (il Giornale)

domenica 6 settembre 2009

Loro

Non impongono, propongono, non insorgono, si dissociano, non pontificano, argomentano, non ascoltano, registrano, non partecipano, contribuiscono, non sentenziano, criticano, non parlano, dichiarano, non spiegano, educano, non criminalizzano, giudicano, non rubano, redistribuiscono, non eseguono, adempiono, non chiariscono, chiosano, non scrivono, pubblicano, non dialogano, trasmettono, non disprezzano, evitano, non sbagliano, emendano, non insabbiano, archiviano, non trasgrediscono, derogano, non scelgono, prediligono, non uccidono, giustiziano, non negano, tralasciano, non dimenticano, prescindono, non delinquono, disattendono...

I compagni al caviale non riescono a digerire quelle canotte lùmbard. Stefano Zecchi

Com’è dolce il ricordo dei tempi passati quando c’erano i democristiani, e i comunisti, a parole, lottavano per la rivoluzione!Oggi, da qualunque parte si guardi è uno schifo. Una masnada di commercialisti brianzoli ha preso il potere, ragionieri e geometri con il loro greve accento lombardo sono nei posti chiave dell’amministrazione dello Stato, e non parliamo di quei piedi sudati che sono scesi dalle valle bergamasche o hanno attraversato le pianure venete, arrivando al governo indossando soltanto la canottiera.
Questo è il doloroso affresco del nostro tempo che ci dipinge Rossana Rossanda: un manifesto, sul Manifesto, dell’indecenza italiana. Un tempo, dice l’ex rivoluzionaria, eravamo rispettati dall’Europa, oggi siamo derisi; un tempo i nostri governanti erano ascoltati, oggi sono sbeffeggiati: non resta che piangere, non c’è speranza!
Certo, descrivere in poche righe, in un articolo di giornale, sessant’anni e più della nostra storia è un’impresa ardua, e con un po’ di prudente umiltà sarebbe meglio astenersi. E invece a trattenersi la Rossanda proprio non ce l’ha fatta. Così eccola lì a rammaricarsi di questi tempi bui, e sembrano venire meno le forze: da vestale della rivoluzione è diventata la nonnetta dei benpensanti, dalla retorica rivoluzionaria è passata alle piccole cose di cattivo gusto di gozzaniana memoria.
Insomma, per lei come per tanti suoi amici sarebbe stato meglio morire democristiani, almeno in attesa del trapasso ci si poteva lamentare, da veri intellettuali marxisti, ricordando come sarebbe stato possibile vivere liberi e felici da comunisti nel paradiso sovietico, in Cina, a Cuba, perfino nell’Albania di Enver Hoxha.
Una volta almeno, prima di morire democristiani, si poteva soffrire tra le spire del capitalismo, architettando gloriose avventure rivoluzionarie soffrire, a parole ovviamente, perché, intanto, nessuno proibiva a questi eroi della rivoluzione di sguazzare nel fango borghese e di servirsi di ciò che affiorava dalla melma capitalistica: libertà, democrazia, benessere. Il disgusto nelle parole, l’opportunismo nei comportamenti. Una doppia morale.
È questa doppia morale che oggi non è più praticabile, che viene facilmente e immediatamente smascherata. Quella doppia morale che consentiva di predicare in un modo e razzolare in un altro. Arriva Berlusconi, e cosa ti combina? Ha la spudoratezza di dire che i comunisti sono dei criminali, che la storia del comunismo internazionale è una crudele avventura di distruzione della libertà e di annientamento della persona, che i nostri vecchi comunisti continuano a imbrogliare le carte per rendersi presentabili in un mondo che ha seppellito il comunismo. Come si permette quell’orrido Berlusconi di criticare?, dice la nonnetta uscita dalle pagine di Gozzano, che ha abbandonato la lotta di classe per diventare portavoce dei benpensanti e del conformismo moralizzatore. E, allora, preso atto che il mondo non si cambia, lei e i suoi compagni decidono di moralizzarlo: moralisti di tutto il mondo unitevi è la nuova parola d’ordine.
Questi intellettuali di sinistra, giornalisti, scrittori, architetti, comici, magistrati, professori, orfani della doppia morale ma armati di furore moralista (contro gli altri) finiscono per avere nei confronti di Berlusconi un’ossessione estetica. È un gaffeur, un bauscia: lui e i suoi alleati con quel Bossi in canottiera «unica vera tendenza di fascismo localista in abiti nuovi», dice la Rossanda, che però spera tanto in Fini. Questi politici e intellettuali di sinistra orfani della doppia morale si arrogano un diritto di veto estetico prima ancora che politico, nei confronti di Berlusconi e di chi lo sostiene, cioè la maggioranza degli italiani. Alla faccia della democrazia che ha sempre rappresentato ai loro raffinati sguardi un fastidioso ingombro politico. Così, privati della doppia morale, si sono inventati una doppia Italia, di cui parlano ovunque nei giornali, nei libri, nei tribunali, nell’avanspettacolo: un’Italia bella, colta, colma di stile e una indecente, di ragionieri, commercialisti, geometri che, naturalmente, rappresenta il nuovo fascismo.
Ma ecco che appena questa intelligenza benpensante conformista, dall’inappuntabile stile, viene pizzicata nelle sue miserie piccolo borghesi, urla, grida che la libertà di parola è minacciata, raccoglie firme di protesta, si rivolge al parlamento europeo. È ovvio: solo loro hanno il diritto di interdizione perché si ritengono ineccepibili culturalmente, perché se sciaguratamente non riescono più a predicare in un modo e a razzolare in un altro sono tuttavia convinti di poter giudicare dall’alto delle proprie qualità estetiche la moralità di chi non è bello come loro. (il Giornale)

sabato 5 settembre 2009

La pandemia immaginaria. Roberto Volpi

Il cinquantunenne napoletano ricoverato da un po’ di giorni in gravi condizioni e già dato per morto è morto davvero. Colpito da influenza suina, il soggetto in questione era un oligofrenico affetto da miocardiopatia dilatatoria grave e da una grave forma di diabete mellito. Quadro clinico aggravato da insufficienza renale e sepsi da stafilococco. Subito etichettato come primo morto per influenza suina, i medici si sono premurati di sottolineare come l’influenza c’entri pressappoco come il cavolo a merenda: “Qualunque altra infezione avrebbe portato alla stessa conclusione”. Dunque la notizia sta nel fatto che l’influenza suina (influenza pandemica) non ha combinato niente che una qualsiasi altra infezione comunque sopraggiunta non avrebbe saputo combinare. Influenza pandemica A(N1H1), si diceva. Così definita per distinguerla dalle ordinarie influenze stagionali che raggiungono le nostre aree di norma nel periodo centrale dell’autunno-inverno. Distinzione essenziale: le influenze pandemiche non stagionali non si comportano di solito come quelle stagionali, non si manifestano, non hanno picchi e recrudescenze tipicamente collegati al mutare del tempo e delle stagioni come quelle – non a caso – dette stagionali. Ma per quanto definita come pandemica, l’influenza suina viene invece quotidianamente trattata pari pari come una comune influenza stagionale, e infatti se ne prevede, con l’arrivo del cambio di stagione e del brutto tempo, una formidabile recrudescenza autunno-invernale.

E così già si è provveduto a fondere, alquanto impropriamente, i tratti delle due distinte tipologie di influenza.
L’Oms ha smesso pressoché da subito di registrare i casi accertati virologicamente e ha preso a conteggiare i casi comunque diagnosticati, lanciando anche ultimamente cifre di precisione tanto millimetrica quanto miracolosa, del tipo: 210.917 casi nel mondo con un tasso di mortalità di 0,98% che, sol che si abbia un po’ di dimestichezza coi sistemi di rilevazione e registrazione, suonano come una sonora presa per i fondelli.
Ma anche in Italia non si è scherzato. Con un fax trasmesso il 24 luglio 2009 dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute agli assessorati alla Sanità delle Regioni e, per conoscenza, agli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera e all’Istituto Superiore di Sanità si è stabilito che: “Considerato l’incremento dei casi di influenza A(N1H1)v (….) non si ritiene più indispensabile la conferma virologica di tutti i casi sospetti”. Seguono disposizioni il cui senso è: ogni affezione respiratoria che dia luogo a una febbre di almeno 38° è considerata influenza suina. Ma anche coi nuovi criteri di manica larga, i casi di influenza suina non sono ancora arrivati a duemila, a letto ci saranno attualmente in tutta Italia sì e no cento persone con questo quadro clinico, ovvero senza un baffo di niente che non sappia procurare la più pigra e indolente delle influenze, l’influenza A(N1H1) non ha ancora fatto il suo primo (vero) morto dal momento della sua comparsa agli inizi di maggio: e questo mentre una comune influenza stagionale nei suoi primi tre mesi mette a letto centinaia di migliaia di persone (quando non milioni) e fa qualcosa come 4-5mila morti – l’uno per cento del totale delle morti annue in Italia.

Qui sta il punto. Dal momento che i sintomi per diagnosticare clinicamente l’influenza suina sono gli stessi che servono a diagnosticare la comune influenza stagionale, e che temporalmente le due influenze saranno perfettamente sovrapponibili, come si potrà distinguere la prima dalla seconda, quando la seconda entrerà in scena? Chi si piglierà la febbre accompagnata da senso di stanchezza e raffreddore o mal di gola in quale categoria verrà inserito, dal momento che la diagnosi virologica dell’influenza suina è stata soppressa alla velocità della luce e quella clinica dell’influenza stagionale presenterà esattamente gli stessi sintomi? E se le classi verranno chiuse quando si presenteranno tre casi, quale scuola si salverà, dal momento che non c’è influenza stagionale che non procuri tre casi in una qualche classe?

Si sta preparando l’affare del secolo (siamo già a una prima stima di dieci miliardi di euro, che verranno ripartiti tra i quattro colossi mondiali del settore vaccini), un paio di miliardi di dosi di vaccini sono già preannunciate per contrastare un virus la cui travolgente avanzata continua a latitare ma che viene data per scontata, e perfino in una variante (ceppo virale) più virulenta e aggressiva. Il bello di questo virus A(N1H1) sta proprio in ciò: che su di esso si può scommettere a occhi chiusi. L’arrivo dell’autunno porterà l’ordinaria influenza con le sue altrettanto ordinarie centinaia di migliaia di ammalati e qualche migliaio di morti e allora sarà un bel problema di attribuzione: influenza stagionale o influenza suina? Se pure quella suina se ne attribuirà una quota anche minoritaria, sarà comunque un successo. (il Foglio)

Tutti quelli che urlano al "regime" ma sono stipendiati dal Cavaliere. Angelo Crespi

Immaginate che i più feroci e fieri oppositori del fascismo fossero stati al contempo gli intellettuali più vezzeggiati e pagati dallo stesso regime. Immaginate, per esempio, che i contestatori del Duce non fossero stati messi al confino, su qualche remota isola, in galera o costretti all’esilio, in Francia e Svizzera, ma mantenuti pubblicamente dal Minculpop e omaggiati con importanti collaborazioni alle riviste del partito. Immaginate Gramsci non in carcere, ma editorialista di punta di Primato. La cosa sarebbe sembrata quantomeno bizzarra.
Un po’ quello che, si parva licet... , succede oggi. Suona infatti strano che alcuni tra gli scrittori e uomini di spettacolo (Saviano, Giordano, Augias, Lucarelli, Bisio, Aldo, Giovanni e Giacomo... ) che hanno firmato l’appello di Repubblica contro Berlusconi e in difesa della libertà di stampa e di pensiero siano in realtà pagati o lautamente pagati dalle aziende proprio di Berlusconi.
Il paragone tra oggi e il Ventennio potrebbe sembrare azzardato. Ma non lo è, perché i toni usati dagli estensori dell’appello - tre esimi giuristi come Franco Cordero, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky - dopo la decisione del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, di denunciare Repubblica sono definitivi.
Nell’appello si spiega che sarebbe in essere «un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia». Aggiungendo poi un esplicito richiamo alla degenerazione dell’informazione sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.
Proviamo dunque a riflettere per trarne le conseguenze logiche. Partiamo dall’assunto di Repubblica. Oggi, vivremmo in una sorta di secondo fascismo videocratico nel quale al posto del manganello si usa la televisione e si tenta di silenziare la stampa nemica per mezzo della magistratura. Al che, trovare in calce la firma per esempio di Roberto Saviano e di Paolo Giordano o di Claudio Bisio fa un certo effetto. Saviano è lo scrittore di punta di Mondadori, Giordano l’enfant prodige di Segrate. Il primo è stato tradotto in tutto il mondo e ha venduto milioni di copie, il secondo è stato il caso editoriale della scorsa stagione. Bisio è, tanto per dire, uno dei volti più noti di Canale 5. Tutti e tre, in misure diverse, stimiamo stando ai normali valori di mercato di editoria e televisione, hanno spuntato contratti favolosi e per la loro bravura di vendere libri o attirare spettatori incassato stipendi milionari. Grazie a loro Mondadori e Mediaset hanno avuto introiti che di quegli stipendi sono multipli, e grazie anche a loro sono di fatto la casa editrice e la televisione più importanti d’Italia. Grazie anche a loro, Berlusconi è ricco e potente.
Fin qui il ragionamento non fa una piega. Facciamo un ulteriore passo. Sbagliano Mondadori e Canale5 a contrattualizzarli? No, non fanno male. E contrariamente a quello che ho scritto in passato, credo che questa sia la riprova, non tanto che Mondadori e Mediaset sono culturalmente succubi dell’egemonia di sinistra, quanto che esse sono un esempio di cultura liberale e del prevalere degli interessi di mercato rispetto alle ideologie. Essendo la cultura un prodotto (anche se questo pensiero è checché se ne dica frutto bacato del marxismo) allora non importa il colore, basta che si venda.
Facciamone un altro. Si potrebbe allora dedurre che Saviano, Giordano e Bisio, pecchino di incoerenza. Prendono soldi e fama da chi poi criticano, odiano, dileggiano, e che dunque per coerenza dovrebbero scrivere e televisionare altrove. D’altronde, nonostante i toni apodittici di Repubblica, in Italia esiste ancora la democrazia e mezzi di informazione non ascrivibili al regime. Saviano, Giordano e Bisio potrebbero benissimo, se lo volessero, lavorare per altri gruppi ugualmente importanti e dello stesso livello, Rizzoli per esempio o Sky. Ma non vogliamo dire neppure questo. In modo limpido i tre potrebbero obiettare che proprio la libertà e la democrazia permettono loro di lavorare e criticare il datore di lavoro. Arricchirsi a spese del «dittatore» e farlo ricco. Addirittura, come spiegava Pasolini, potrebbero giustamente replicare che il mondo è questo, e che l’intellettuale migliore smonta il potere dall’interno. E noi in parte siamo d’accordo. È giusto che Saviano, Giordano e Bisio si arricchiscano e di fatto abbiano un potere e un autorevolezza nel mondo della cultura e massmediatico e che con loro cresca la ricchezza di Berlusconi e il suo potere. Anzi questo dimostra che siamo in democrazia, c’è piena libertà, Berlusconi è insomma un mecenate.
Ma se così non fosse, e per un attimo dessimo credito all’assunto di Repubblica, cioè che in Italia c’è un pericolo di slittamento verso un regime illiberale e che Berlusconi è di fatto una sorta di dittatore, allora dall’assioma principale procederebbe un ragionamento, pur sempre logico, ma diverso. Saviano, Giordano e Bisio sono fiancheggiatori del regime, di fatto collaborazionisti come i grandi Céline e Drieu La Rochelle, ovvero intellettuali che di facciata si dicono contro il regime ma che di fatto ne potenziano il potere. Anzi potrebbero persino essere scambiati per spie di Berlusconi. Ancora si mormora dei tanti pensatori che nel Ventennio si professavano comunisti pur essendo al soldo dell’Ovra. Se davvero sono convinti di quanto firmano, Saviano, Giordano e Bisio - lo ripetiamo - potrebbero stare, con un po’ di coraggio e senza troppi disagi, al confino di Rizzoli o in esilio a Sky.
Cercando di chiudere il sillogismo senza salti logici, possiamo dire applicando il principio di non contraddizione: la firma di Saviano, Giordano, Bisio in calce all’appello di Repubblica dimostra che Berlusconi è un liberale; l’appello di Repubblica è inficiato proprio dalla firma di Saviano, Giordano e Bisio che in virtù della loro coerenza e libertà (lavorare al soldo di chi criticano) dimostrano l’assenza di regime e la libertà di pensiero. Oppure che essi sono dei fiancheggiatori. Tertium non datur. Altre deduzioni logiche non sembrano esserci. Ed è per questo che Cordero, Rodotà, Zagrebelsky, se convinti veramente del loro assioma, avrebbero dovuto sdegnosamente non accettare la firma di Saviano, Giordano e Bisio. Non credo che Gramsci avrebbe accettato il sostegno di Pavolini, Togliatti quello di Bottai.
In appendice mi piacerebbe chiedere a Cordero, Rodotà, Zagrebelsky, al di là dell’opportunità politica, come Berlusconi possa difendere la propria immagine e se appellarsi a un tribunale sia un atto illiberale e di intimidazione. Un antico brocardo insegna che «qui iure suo utitur neminem laedit». (il Giornale)

venerdì 4 settembre 2009

Il nuovo martire dell'antiberlusconismo. Dimitri Buffa

C’era da aspettarselo: alla fine Dino Boffo, da oggi ex direttore dell’Avvenire, non ha potuto fare altro che dimettersi. Con una coda polemica a metà tra l’auto commiserazione l’auto esaltazione: adesso farà per professione il martire dell’idea. Anti-berlusconiana, ovviamente. Tanto già la cosa aveva trovato terreno fertile in giornali come "La Repubblica", abituati a dare ai propri lettori le notizie secondo la categoria dello spirito del "cui prodest", che poi è una variante dell’indicare il dito che addita la luna. A Radio Radicale, l’ex segretario Geppi Rippa ora dice che il vecchio vaticanista della gloriosa Agenzia radicale, Salvatore Di Giacomo, già nel 2005 aveva scritto tutta questa storia paventando quello che oggi tutti sanno: una differenza di vedute, leggi uno scontro senza esclusione di colpi, tra Cei e Santa Sede. Insomma avrebbe ragione Feltri, dopo tutto: il documento e lo scandalo vengono da ambienti vaticani in perenne lotta tra loro per chi sia deputato a tenere la barra dei rapporti con la genuflessa politica italiana. Intorno tutto il mondo se la ride. E ieri Bagnasco non ha potuto rifiutare le dimissioni di Goffo dopo avere letto i giornali che riportavano le "anticipazioni" di "Panorama" oggi in edicola che ha rintracciato tutti i protagonisti della vicenda, la donna Anna Bo., il vecchio fidanzato, ex Stewart Alitalia e oggi direttore di una filiale di banca, il padre della ragazza, Giovanni, presidente di una radio diocesana a Terni, la madre, la gente di un paese come Terni dove tutti sanno tutto di tutti. E anche di più. Boffo, lungi dall’essere un martire della libertà di stampa come vorrebbero farlo passare ora gli interessati odiatori di professione del Cav, e come vorrebbe ovviamente passare lui stesso, ha semplicemente constatato che la sua versione dei fatti non poteva reggere un minuto di più. L’altro ieri, fra l’altro, il padre del ragazzo su cui ha scaricato la colpa delle molestie telefoniche che venivano dal suo telefonino aziendale lo aveva sbugiardato in un’intervista a "Libero", implicitamente trattandolo da vile e da spergiuro. Ieri sono arrivati sui giornali tanti e tali elementi della sua vita privata e di questa strana relazione con Anna Bo., l’ex fidanzato e la curia di Terni, da indurlo, finalmente, a lasciare il posto di direttore dei quotidiano della Cei "per il bene della Chiesa". In realtà, qualcuno diceva che se l’avesse fatto il giorno dopo la pubblicazione dello scoop del "Giornale " di Feltri avrebbe limitato i danni che questa inutile settimana di resistenza gli ha portato. A lui e al suo amato clero. Ieri ovviamente ha potuto incassare l’interessata solidarietà di Bagnasco, l’altro grande sconfitto di questa lotta interna con la Segreteria di Stato della Santa Sede (almeno a sentire il su citato vaticanista di ‘Agenzia radicale"), ma a Roma tutto ciò lo definiscono così: "consolarsi con l’aglietto". Alla fine un po’ tutti i protagonisti della storia non hanno dato grande prova di sé: lui, Boffo, è passato da "sepolcro imbiancato" , da vile per avere scaricato la colpa su un povero ragazzo morto, e da omosessuale cachè e omofobo, stile Santa Romana Chiesa. Feltri, pubblicando una cosa che non era un atto giudiziario vero e proprio ma un estratto di straforo del casellario giudiziale che qualche manina complice, nella polizia di Stato, ha passato sottobanco ai servizi vaticani, ha fatto la figura di quello che pubblica veline per conto del terribile Cav. Farina, poveraccio, è passato da suggeritore per via dei propri precedenti betulleschi, senza entrarci un beneamato e Bagnasco, nell’impossibile tentativo di difendere l’indifendibile, ha fatto la figura di chi non accettando un’onorevole resa va incontro alla propria Waterloo. Possiamo aggiungere anche il capo della Polizia Manganelli che, per eccesso di zelo politically correct - e sentendosi chissà perché chiamato in causa per quell’interrogazione illegittima al terminale dei Ced, occultata con un tratto di pennarello nero sul numero dell’operatore - ha tenuto a raccontare a "La Repubblica" che "non sia mai che la polizia scheda gli omosessuali". Anzi, ha aggiunto facendo ridere mezza Italia, "da noi è pieno di poliziotti che sono diventate poliziotte e di poliziotte diventati poliziotti". Cosicché la prossima volta che qualcuno verrà fermato per un controllo potrà sempre essere preso dal dubbio se l’agente che lo sta controllando non sia per caso un trans. Insomma roba da commedia all’italiana stile Alvaro Vitali. O se si preferisce, una pochade da pellicola di Almodovar che la metà sarebbe bastata. Con tutti gli ingredienti da film del Monnezza: il giornalista moralista e molestatore, la famiglia timorata di Dio che cerca un’impossibile privacy, i vescovi che difendono non si sa bene quale virtù dello stesso molestatore, i giornali progressisti che cercano di rovesciare la frittata e tanta, ma tanta, disinformazione e mistificazione mediatica della verità che farebbe venire voglia di restituire la nazionalità italiana al Capo dello Stato. Mentre tutto il mondo arranca per la crisi, l’ltalia post ferragostana, non avendo un cavolo da fare ha cercato di auto-affondarsi così, con un’opera da tre soldi. Anzi, una telenovela. Perché già da ora saremo facili profeti nel dirvi che non è ancora finita. (l'Opinione)

Lettera aperta a Berlusconi. Christian Rocca

Con questo articolo, pubblicato da "Ideazione" il 15 luglio 2005, iniziava - i primi di settembre dello stesso anno - la mia avventura di blogger.
E' talmente attuale che mi piace riproporlo.

Egregio presidente Silvio Berlusconi, probabilmente non ha mai sentito parlare di William Baroody, di Joseph Coors, di Richard Mellon Scaife, di David e Charles Koch, di Lynde e Harry Bradley e, soprattutto, di John Merrill Olin. è un gran peccato. Non tanto e non solo per lei, gentile presidente. Ma per tutti noi. Se li appunti questi nomi, le potrebbero tornare utili se un giorno avvertisse il bisogno di stupire ancora una volta, se volesse davvero passare alla storia e incidere nella politica italiana ben più che con il record di permanenza a Palazzo Chigi. Mi permetto di suggerirle questi nomi, gentile presidente, perché in un certo senso si tratta di suoi colleghi: sono businessmen americani molto ricchi e pieni di talento, creatori o eredi di fortune sconfinate, anche se mai quanto le sue. Questi signori condividono con lei una passione per il libero mercato, per la libera intrapresa, per il libero commercio e per la non ingerenza dello Stato nelle faccende private e delle aziende.

Come lei, sanno che se l’antagonismo di sinistra entrasse nella stanza dei bottoni farebbe parecchi danni sia allo Stato sia alle imprese, quindi alla società e ai cittadini. Questi signori, gentile presidente, sono della sua stessa pasta: come lei sono cresciuti nella trincea del lavoro, come lei hanno creato ricchezza e benessere per sé, quindi per gli altri. Come lei, combattono l’asfittica egemonia culturale della sinistra, ma hanno fatto una scelta diversa dalla sua, tempestiva e sacrosanta, del 1994: loro non sono mai scesi in campo. Non ne avevano bisogno. In America non c’è stata una rivoluzione giudiziaria che ha fatto fuori soltanto una parte della classe dirigente della Prima Repubblica. In America non c’è alcun pericolo comunista, neanche socialista e neanche socialdemocratico. Questi suoi colleghi americani non hanno speso i loro soldi per fondare Forza America o qualcosa di simile.

Li hanno investiti sulla forza dell’America, che altra non è se non quella di essere la più formidabile fabbrica di idee del pianeta. Questi signori hanno sganciato denaro di tasca propria per finanziare centri studi, fondazioni e cattedre universitarie che sono riusciti a ribaltare l’egemonia culturale della sinistra e a riorientare l’agenda politica del paese. Ci sono voluti trent’anni, ma l’esito dell’investimento è straordinario. Guardi soltanto ai risultati elettorali: nelle ultime dieci elezioni presidenziali americane, dal 1968 a oggi, i Repubblicani hanno vinto sette volte, mentre le tre volte in cui hanno perso è successo quasi per caso, per colpa di scandali, di candidati deboli o di divisioni nell’arcipelago conservatore. Nel 1976, infatti, il presidente Gerald Ford fu sconfitto più dal fatto di essere subentrato al dimissionario Richard Nixon che dalle idee di Jimmy Carter. Tanto più che, quattro anni prima, Ford non era stato neppure eletto vicepresidente di Nixon, ma era subentrato anche al vice di Nixon, cioè a Spiro T. Agnew, anch’egli dimessosi per uno scandalo. Poi ci fu il Watergate. Avversario e condizioni più facili non ci potevano essere per i Democratici. Eppure, nonostante un candidato del Sud, devotissimo al Signore e amato dagli evangelici, presero soltanto il 50,1 per cento contro il 48 del debole Ford. L’altro vincitore democratico è stato Bill Clinton, nel 1992 e nel 1996. Clinton, anch’egli governatore battista del Sud, non è mai riuscito a conquistare la maggioranza dei voti, neanche il giorno della rielezione. La prima volta fu eletto soltanto perché i conservatori presentarono due candidati: Bush padre (che conquistò il 37 per cento) e Ross Perot (19 per cento). Quattro anni dopo, Clinton sconfisse Bob Dole soltanto con il 49 per cento. Gentile presidente, lei magari riuscirà anche a vincere le prossime elezioni. Lei è certamente più bravo e più furbo dei suoi avversari, dunque non le sarà impossibile tornare a Palazzo Chigi o magari trasferirsi al Quirinale.

Lei ha i mezzi e le capacità, ed è già riuscito a fare i miracoli con le pizze e con i fichi che le passa il convento e che si ritrova intorno. Ma allo stesso tempo, ci pensi bene: lei è soltanto una meteora. Un outsider. Un uomo politico senza eredi. Le sue idee, signor presidente, sono legate alla sua persona e alla sua fortuna. E già adesso scricchiolano ogni qualvolta un Follini o un Fini o un Casini o un Buttiglione prova a fare la faccia feroce. Quando deciderà di ritirarsi, caro presidente, non avrà nessuno a cui passare lo scettro. Non resterà niente. Non potrà restare niente. Sarà cancellato e liquidato come un’altra parentesi della storia italiana. I suoi colleghi americani, invece, non hanno avuto problemi di questo tipo: sono diventati maggioranza culturale, sociale e politica nel paese. Lo spiega mirabilmente un libro che la sua Mondadori ha appena tradotto dall’inglese, sia pure in colpevole ritardo e con un titolo così orrendo che reputo offensivo ripetere (in originale è The Right Nation).

I suoi colleghi americani, insomma, non si sono accontentati di vincere una volta o due e poi tirare a campare. Hanno provato a cambiare l’America e ci sono riusciti, al punto che la più importante delle fondazioni di cui le dicevo all’inizio, la Olin Foundation, ha appena deciso di chiudere bottega per l’esaurimento della propria ragione sociale: l’obiettivo è stato raggiunto. Il vecchio John Olin era stato chiaro con i suoi: voglio che spendiate i miei soldi entro una generazione. Detto e fatto. John e sua moglie Evelyn, mentre erano in vita, hanno sborsato 145 milioni di dollari. Dal 1982 la Fondazione ha finanziato libri, progetti, giornali, riviste, centri studi, ricerche, corsi, dottorati, borse di studio, associazioni di avvocati e club letterari per un totale di 380 milioni di dollari. I soldi di John Olin hanno finanziato la Heritage Foundation, cioè il serbatoio di idee della rivoluzione liberale reaganiana, e l’American Enterprise, il fulcro dell’attuale era bushiana.

Sono università senza studenti, templi del sapere e delle sue applicazioni pratiche. Sono fabbriche che producono pensiero. Sono la forza degli Stati Uniti. L’idea che tagliare le tasse è uno strumento per rilanciare l’economia è stata finanziata con i soldi di John Olin. E oggi nessun politico americano ha il coraggio di sostenere il contrario. Se nel 1994 l’avesse fatto anche lei, caro presidente, oggi si troverebbe con un mucchio di guai in meno. Sono stati i soldi di John Olin a creare il Centro per la Democrazia di Chicago, dove sono cresciute le menti più lucide dell’America odierna. Sono stati i soldi di John Olin a trasformare le coltissime lezioni del professor Allan Bloom e poi le tesi di Charles Murray in straordinari best seller che hanno cambiato i connotati del dibattito culturale e sociale americano. Mi chiedo, anzi le chiedo, perché non prova a fare lo stesso in Italia? Perché non tenta di rivoluzionare il nostro paese fin dalle fondamenta, specie ora che s’è accorto che da solo non ce la può fare e che nella stanza dei bottoni, i bottoni non ci sono? Perché non comincia a finanziare think tank seri, quindi diversi dai contenitori buoni soltanto per le passerelle mondane che abbiamo oggi in Italia?

Perché non finanzia con borse di studio e sovvenzioni individuali giovani ricercatori che producano papers, documenti e idee alternative a quelle che ci fornisce l’establishment intellettuale? Perché non usa una piccolissima parte del suo impero mediatico per fare la rivoluzione liberale? Si tratta certamente di un impegno generazionale, ma non crede che sia ben più utile di un orizzonte che non supera la più ravvicinata scadenza elettorale? Probabilmente rinunciare all’ennesimo Bonolis le farebbe guadagnare di meno, ma è sicuro che non ne valga la pena? Crede, per esempio, che il suo amico Murdoch, e parlo dello Squalo Murdoch, non abbia calcolato al centesimo quanto sia conveniente perdere quei milioni di dollari che perde per pubblicare un giornale influente come il Weekly Standard? Perché, ad esempio, non lancia sul mercato un newsmagazine autorevole e di alto livello come l’Economist o il New Yorker? Perché non fonda una specie di Radio Radicale televisiva che faccia servizio pubblico come si deve? Mi domando, anzi le domando, perché non apre una sezione della sua casa editrice dedicata a libri che non siano soltanto favori ad amici o barzellette su Totti o su Bush o di Michael Moore?

Ancora: le pare sensato che le sue televisioni siano le uniche del mondo occidentale a non avere uffici di corrispondenza negli Stati Uniti? Non crede che ciò possa spiegare l’esplosione di bandiere arcobaleno sulle finestre dei nostri palazzi? Le pare normale che il suo Giornale abbia inaugurato il sito Internet soltanto qualche settimana fa? Com’è possibile che nessuno dei suoi collaboratori sia corso a farsi spiegare dal gruppo di Ideazione le potenzialità della blog revolution? Io non l’ho mai votata, signor presidente. Ma le scrivo questa lettera perché credo che lei sia l’unico in grado di poter seguire l’esempio dei suoi colleghi americani e aiutare l’Italia a diventare un paese pienamente liberale, purché si ricordi che il conservatorismo americano è rivolto al futuro, visto che l’unica cosa che vuole conservare è la libertà. Con una sola frase, insomma, le chiedo di far confliggere i suoi interessi economici con i suoi interessi politici. E di far prevalere questi ultimi. Si guadagnerà la fama di statista e nel lungo termine non sarà il suo unico guadagno.

giovedì 3 settembre 2009

Scalfari assolve Silvio pur di evitare la condanna. Gian Marco Chiocci

«Confermo la proposta di remissione della querela, previa una lettera di scuse, nella forma più opportuna che Eugenio Scalfari riterrà. Vorrei sottolineare che la querela da me sporta aveva finalità di tutela della verità storica e della dignità politica ed umana di mio padre. A differenza di altri, non intendo commercializzare questo “momento” ma mi riterrei totalmente soddisfatta con la lettera di cui sopra». In fede, Stefania Craxi. È datato 11 giugno 2009 l’ultimo atto a margine del processo penale d’appello che vede il fondatore di Repubblica condannato in primo grado (insieme all’attuale direttore Ezio Mauro) per aver sostenuto - nella sua rubrica sul Venerdì - che «Craxi era intervenuto con mezzi illeciti per bloccare il contratto Sme» poiché Carlo De Benedetti andava annoverato «tra le sue inimicizie». La sollecitazione che la figlia del leader socialista rivolge ad Eugenio Scalfari ne segue altre, precedenti, non andate a buon fine. Non vuole soldi, ma solo un’ammissione pubblica di colpa per l’abbaglio preso. Scalfari non sa cosa fare: se il mea culpa ed evitare così i rischi del secondo grado oppure proseguire diritto e sperare in giudici più benevoli rispetto a quelli che l’hanno condannato il 6 aprile 2006 alla pena di 2.500 euro al termine di un dibattimento ricco di testimoni eccellenti. Le motivazioni della sentenza non offrono grandi speranze per il futuro del barbuto fondatore di Repubblica. Nelle quindici pagine sottoscritte dal giudice Francesco Patrone del tribunale di Roma si legge, infatti, che «entrambi gli enunciati (fatti illeciti e intervento di Craxi dovuto all’inimicizia per De Benedetti, ndr) appaiono obiettivamente lesivi della reputazione di chi allora rivestiva la carica di presidente del Consiglio». La tesi affermata da Scalfari che Craxi bloccò il contratto Sme violando la legge ed al fine di danneggiare De Benedetti, è stata dunque giudicata diffamatoria anche perché «il predetto intervento di Craxi - si legge ancora in sentenza - forte, non isolato e pubblicamente rivendicato dallo stesso Craxi, non costituiva certamente un atto abnorme (...). Non è dato pertanto di ravvisare, a parere di questo giudice, nessun evidente deliberato illecito, sotto il profilo oggettivo, nella condotta tenuta da Craxi in ordine alla vicenda Sme».

Nel tentativo di evitare la condanna Scalfari le aveva provate tutte nel contraddittorio con l’avvocato Roberto Ruggiero, difensore del sottosegretario agli Esteri. Prima s’era impegnato a sminuire la portata delle sue affermazioni diffamatorie spiegando che il suo era solo un «giudizio politico». Testuale: «Il mio dire illecito non configura... è una... non so come spiegarmi meglio, ma è un aggettivo di tipo politico, io non sto incolpando nessuno di reati tant’è che io sono stato disposto sin dall’inizio a transigere questa lite (...). Se dico che ha adottato procedure illecite, ha adottato mezzi illeciti, io do un giudizio etico-politico, che ovviamente può essere sbagliato o soggettivo».

Scalfari è poi riuscito nella straordinaria impresa di buttare a mare anni di campagne stampa di Repubblica contro Silvio Berlusconi e la Sme. Anche qui, il virgolettato parla da solo: «Io ho dato dell’illecito al comportamento non di Berlusconi ma di Craxi, quindi il problema è completamente un altro. È una mia opinione, certo, io non ho dato giudizi su Berlusconi, li ho dati su Craxi. Se si legge il testo non vi è il minimo dubbio. Allora è chiaro - continua Scalfari - che Berlusconi non ha fatto... in quel caso, nel caso di partecipare, di mettere in piedi una cordata. Berlusconi non ha fatto nulla di illecito, Berlusconi è solo un imprenditore». Agli atti del processo vi è poi il clamoroso interrogatorio dell’allora ministro dell’Industria, Renato Altissimo, che al giudice racconta dei rapporti tra Prodi e De Benedetti nell’appalto per la Sme: «Un gruppo americano si disse interessato all’acquisto della Sme, così chiamai l’allora presidente dell’Iri, Prodi, e glielo feci presente. Prodi mi escluse categoricamente che la Sme, pezzo pregiato dell’Iri, sarebbe mai stata venduta. Poi quando pochi mesi dopo De Benedetti mi chiamò per comunicarmi che aveva preso la Sme, parlai nuovamente con Prodi. Ero decisamente sorpreso. Gli dissi perché a Carlo De Benedetti sì e agli altri no, e lui mi rispose secco: “Perché Carlo ha un taglietto sul pisello che tu non hai”...». (il Giornale)

mercoledì 2 settembre 2009

Europa e giornali, Berlusconi picchia tutti. Salvatore Tramontano

L’estate della Perdonanza è terminata. Il Cavaliere è tornato, ma se volete capire dove stia andando, dimenticatevi le regole convenzionali. Da quindici anni, ogni volta che il premier si abbandona a un’esternazione fregandosene di quello che dicono i sacri parametri della prima Repubblica, tutti i commentatori profetizzano la sua fine. E invece è vero esattamente il contrario. Ogni volta che Berlusconi ha stupito i poteri forti e parlato alla pancia di questo Paese, mosse che altri consideravano suicide si sono rivelate salvifiche per lui. Ecco perché se volete capirlo dovete abbandonare il politicamente corretto e sfogliare l’album dei ricordi.
1993, dicembre. Una sala riunione di Arcore. Di fronte a un gruppo ristretto di opinion leader di cui fanno parte Gianni Letta, Giuliano Ferrara, Enrico Mentana, Fedele Confalonieri, Maurizio Costanzo, Berlusconi annuncia che non farà quello che tutti si aspettano da lui (ovvero sostenere il Patto di Mario Segni) ma che fonderà lui stesso un partito. Vale la pena rivivere quella scelta con le parole di chi c’era. Gianni Letta disse: «Sono contrario». Per Maurizio Costanzo «è un errore». Enrico Mentana profetizzò che l’avrebbero fatto a pezzi. Lui andò diritto, pronosticò il 30%, prese poco meno. Secondo atto. Agosto del 1999. Il governo D’Alema approva il decreto sulla par condicio. Tutti i soloni intonano il de profundis: il Cavaliere ha vinto grazie alle televisioni, ora che gli spot sono eliminati, svanirà nel nulla. C’erano già tonnellate di saggi che parlavano di dinamiche orwelliane su come gli elettori fossero stati indottrinati dalle battute di Ambra su Occhetto diavoletto. Tutti cantarono il requiem. Berlusconi noleggiò la nave azzurra. Senza spot e con lo strumento più antico vince le Regionali e mette al tappeto Massimo D’Alema. 2006, ultimo atto la campagna contro Prodi. Tutti dicono che il governo è in crisi, quasi tutti i sondaggi lo certificano a meno 8: Berlusconi si presenta sul palcoscenico di Confindustria, sconfessando la sua nomenclatura, raccoglie l’ovazione del popolo degli imprenditori e per pochi voti non vince un’elezione già persa.
Il Berlusconi di Danzica va letto alla luce della sua storia. Ogni volta che il Cavaliere ha sconvolto il luogo comune ha ritrovato vitalità nella dissacrazione e nella rottura dei codici convenzionali. Berlusconi è quello che nel pieno dello scandalo ristabilisce il contatto con il suo popolo: non sono un santo, gli italiani mi conoscono e mi accettano come sono. Berlusconi è quello che quando tutti gli dicono di cospargersi il capo di cenere per le rivelazioni di un’escort dice: non cambierò. Forse sarà il caso di ribaltare il punto di osservazione della sinistra, proprio perché i suoi leader si sono omologati ai dettami del palazzo. Berlusconi sale sul predellino, Bertinotti entra nel salotto dell’Angiolillo.
Cosa è successo ieri? Parlando come nessun presidente del Consiglio avrebbe mai fatto prima e mai farà dopo di lui, Berlusconi ha osato criticare la sacralità felpata e revisionista del Corriere, si è ribellato ai tecnocrati di Bruxelles e si è fatto beffe dei diktat della stampa progressista e inquisitoria. Ma è proprio la capacità di andare contro i dettami di eurocrati di Bruxelles che mantiene i ceti popolari lontano dal radicalismo della Lega, e proprio la capacità di contestare i dogmi dei grandi giornali borghesi che lo rendono ancora seducente per i ceti modernizzatori e produttivi del Nord-est. È il suo rifiuto di un finto bipolarismo basato sulla subalternità all’avversario e ai propri giornali che ha cementato i moderati cattolici e gli ex antagonisti di destra che oggi si riconoscono nel suo partito. Quindi, se volete capire Berlusconi, non fate come Gianfranco Fini, l’ultimo a caderci con la storica sentenza: «Siamo alle comiche finali». Salvo poi rimangiarsi tutto per salire in corsa sul predellino del Cavaliere. (il Giornale)