domenica 20 settembre 2009

Lodo Alfano: legittimo e, soprattutto, giusto. Aldo Vitale

Tutto quello che si deve sapere del lodo Alfano, scritto in modo chiaro e comprensibile anche per i non "addetti ai lavori".

Soltanto i furori di carattere politico-ideologico possono osare tanto da considerare che vi siano leggi emanate dal Parlamento che non siano legittime. Soltanto in Italia, cioè in un Paese in cui l'esasperaizone della delegittimazione dell'avversario politico tocca vertici inauditi altrove, si può ritenere che vi siano leggi illegittime sol perché emanate da una forza politica piuttosto che da un'altra. O peggio, soltanto in Italia, in cui l'avversario politico si considera un nemico piuttosto che un rivale, si può pensare che una legge sia illegittima costituzionalmente sol perché emanata da una parte politica e non da un'altra.

Spesso ciò accade poiché non si tiene debitamente conto delle categorie giuridiche, confondendo legittimità e giustizia di una legge. Se poi si considera che questa menomazione della logica degli attributi di una legge deriva proprio da quella cultura giuridica e politica sempre tesa e pronta a negare che le leggi debbano essere giuste oltre che valide, come sostenuto dal neo-positivismo giuridico, ancor più strampalata sembra l'accusa di illegittimità scagliata contro alcuni atti legislativi piuttosto che contro altri.

Insomma: se si decide di seguire la pista del puro formalismo giuridico tutte le leggi sono legittime poiché non ci si deve occupare della loro giustizia, cioè della loro corrispondenza a principi pre-normativi, meta-normativi, che ne qualificano l'essenza di legge giusta od ingiusta. Più chiaramente: secondo i criteri della cultura giuridica positivista sarebbero da accettare come legittime, per esempio, sia una legge che estendesse le tutele sociali nei confronti dei disoccupati, sia una legge che decidesse la deportazione di tutte le persone bionde. Fortunatamente i paradossi e le contraddizioni del positivismo giuridico sono note oramai ai più e solo qualche nostalgico del kelsenismo, ancora sufficientemente diffuso in Italia, potrebbe insistere per questa impervia via.

Fuoriuscendo dalla sterile visione positivista non si può fare a meno di notare che oltre alla legittimità bisogna guardare alla giustizia di una legge. A questo punto si deve precisare che il «lodo Alfano», cioè la legge 124/2008, non può non essere considerato legittimo sia in senso politico, sia in senso costituzionale. In senso politico proprio per ciò che si è accennato all'inizio, cioè per la circostanza che si tratta di un atto legislativo che il Parlamento ha emanato liberamente in quanto organo di rappresentanza della popolazione che lo ha eletto. Non è dunque opportuno discutere della legittimità, poiché questa è indiscutibile ai sensi di una logica di rappresentanza tipica di un sistema democratico. Lo stesso schema è del resto utilizzabile per qualunque altra legge, poiché ci si muove sul piano della mera forma.

Ma, dopotutto, il «lodo Alfano» sembra legittimo anche sotto un profilo costituzionale. Se si pensasse, infatti, che il presente testo di legge potrebbe essere costituzionalmente illegittimo poiché sarebbe stato più opportuno incardinare le disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato in una cornice di riforma costituzionale, con una legge di modifica della Costituzione, proprio per l’alto profilo istituzionale e costituzionale dei soggetti che avrebbero beneficiato di una simile innovazione, non si terrebbe adeguatamente conto di almeno tre fattori: il primo e principale riguarda la circostanza per cui si tratta appunto di modifiche processuali e dunque opportunamente si sono integrate con una legge ordinaria al resto delle norme di procedura penale che, per loro natura, sono norme di rango inferiore al resto della Costituzione medesima; il secondo è afferente al fatto che le lunghe procedure di revisione costituzionale si sarebbero rese incompatibili con l’urgenza di apportare simili modifiche all’ordinamento penale per evitare un danno processuale alle parti; il terzo riguarda la circostanza per cui essendo la riforma contenuta in un testo di una legge ordinaria, grande attenzione è stata rivolta, appunto, al momento di espressione massima del procedimento democratico, rivelandosi così un testo normativo rispettoso non solo della forma della Costituzione, ma fin’anche dei principi democratici in essa contenuti.

Differentemente da quanto ritenuto dalle forze ostili al «lodo Alfano», questo non introduce dunque alcuna nuova «prerogativa» di carattere personale (in questo caso sarebbe stata necessaria una riforma costituzionale), ma si limita ad apportare una semplice modifica di carattere processuale. Chi decidesse, dunque, di appigliarsi a questa circostanza resterebbe incagliato ancora una volta sul piano del puro formalismo procedurale, tanto che la stessa Consulta non ha affrontato le questioni in questo senso sollevate dal Tribunale di Milano, come ricordato dal giudice costituzionale, già Presidente della Consulta, Professor Annibale Marini, in una intervista a Il Giornale dello scorso 18 settembre. Soltanto fuoriuscendo dalla cecità di un rancore ideologico, infatti, si può convenire che, prescindendo da chi ricopra il ruolo, se l'imputato di un processo penale è il Presidente del Consiglio dei Ministri ( o anche il Presidente di una delle Camere o della Repubblica ), si devono usare delle garanzie e della cautele maggiori rispetto ad un qualunque altro imputato, e ciò per vari motivi.

A ben guardare, infatti, non si viola il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, poiché, come sa chi è aduso alla logica giuridica, il principio suddetto richiede di trattare casi uguali in modo uguale e casi diseguali in modo diseguale; ed è fin troppo evidente che se il processo penale incombe su una delle cariche istituzionali dello Stato, magari con poteri di rappresentanza, o poteri politici e di alta amministrazione come i presidenti delle Camere o il Premier, si tratta di una differenza abissale rispetto al comune imputato per furto o rapina. Diversamente: il comune imputato ha da difendere solo il proprio interesse, il proprio ruolo, la propria posizione; se ad essere imputata è una delle cariche dello Stato vi sono interessi meta-personali che richiedono, proprio in ossequio della differenza tutelata dal principio di uguaglianza, maggiori garanzie e tutele.

A questo si aggiunga che, a prescindere da chi ricopra i summenzionati ruoli istituzionali, disposizioni come l'abolita autorizzazione a procedere o come il «lodo Alfano» rientrano nell'ambito di quel sistema di checks and balances, cioè pesi e contrappesi, orchestrato per mantenere l'autonomia e l'indipendenza dei poteri dello Stato, così come è caratteristico di un vero Stato di diritto. Soltanto chi è esente da ogni patema ideologico può, infatti, notare che se da un lato occorre tutelare l'autonomia della magistratura, il principio di obbligatorietà dell'azione penale, il principio di effettività della giurisdizione, dall'altro lato non si può non tutelare l'autonomia dei poteri politici dello Stato (Governo e Parlamento), il principio di separazione dei poteri, il principio di rappresentanza.

Proprio quest'ultimo principio non dovrebbe agire, come molti hanno pensato equivocando, come scriminante nei confronti di un premier ipoteticamente imputato per alcuni reati, poiché così si snaturerebbe la funzione stessa del processo e del principio per cui le scriminanti sono espressamente previste dal codice, quanto piuttosto come momento d'impulso per l'instaurarsi di una serie di equilibri che possano consentire da un lato l'esecuzione dell'attività politica di chi ha ricevuto l'ampio consenso popolare, senza sacrificare, dall'altro, le esigenze di giustizia che richiede qualunque processo penale, i cui presupposti sono, appunto, la perseguibilità e la procedibilità nei confronti dell'imputato.

Insomma, se da un lato è vero che anche i membri di Parlamento o Governo o altri gangli istituzionali devono essere processati qualora abbiano commesso dei reati, è anche vero che la magistratura non può procedere ad libitum contro gli altri poteri dello Stato, senza rischiare di creare quel governo tirannico tanto paventato da Montesquieu, il quale riteneva la magistratura un «potere nullo», cioè un non-potere, da sottoporre, addirittura, ai più stretti vincoli e controlli, come facevano i romani, di cui il pensatore francese ammirava la severità usata contro la magistratura.

A questa duplice ed articolata esigenza risponde perfettamente il «lodo Alfano» in vari e davvero logici modi. In primo luogo stabilendo al comma 2 che l'imputato può sempre rinunciare alla sospensione del processo; in secondo luogo al comma 3 tutelando le impellenze di carattere probatorio, concedendo la possibilità di esperire l'incidente probatorio (cioè la raccolta di prove che non può essere rimandata a causa della loro successiva ed eventuale indisponibilità); in terzo luogo garantendo l'interesse ed i diritti della parte civile al comma 6.

Ma la norma che maggiormente indica la logica degli equilibri che sostiene il «lodo Alfano», mettendo a tacere all'un tempo ogni sospetto di volersi sottrarre al giudizio da parte dell'imputato in genere, di Berlusconi in particolare, è incardinata nel comma 4, in cui si dispone che si applicano le disposizioni dell'art 159 del codice penale, che prevede la sospensione della prescrizione.

Insomma, da un lato la sospensione del processo garantisce l'imputato, dall'altro la sospensione della prescrizione garantisce l'esigenza della effettività della azione penale. Il «lodo Alfano» è ispirato, dunque, ad una logica che si potrebbe definire di «pausa del gioco», cioè di una pausa sia di ciò che è favorevole sia di ciò che è contrario all'imputato, a causa del ruolo istituzionale e costituzionale che egli temporaneamente ricopre; ovviamente il «gioco» riprenderà appena dismessa la carica ricoperta.

Infine, il comma 7 che prevede l'applicazione del «lodo Alfano» «anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado », rispondendo all'esigenza di ossequiare uno dei principi cardine degli ordinamenti penali dello Stato di diritto, il favor rei, cioè quello per cui le nuove leggi penali che favoriscono l'indagato, l'imputato ed il condannato sono sempre retroattive, diversamente da quelle sfavorevoli. Sarebbe superfluo ricordarlo, ma sembra necessario considerando l'imbarbarimento giuridico dei critici del «lodo Alfano», che il principio del favor rei si può rappresentare come l'altra faccia della medaglia del principio della presunzione d'innocenza. Ecco dunque che s'invera quanto la logica che sottende il lodo Alfano sia, oltre che legittima, anche e soprattutto giusta, poiché rispondente a ben determinati principi di carattere meta-normativo, perfino costitutivi dello Stato di diritto. Roba troppo difficile da comprendere, forse, per quanti hanno guardato per decenni la tirannia del positivismo (socialista) intravedendovi un paradiso di libertà, con un daltonismo gius-filosofico simile a chi osservando il colore rosso lo percepisse verde. (Ragionpolitica)

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Finalmente ho le idee più chiare.
L'articolo è piuttosto lungo, ma merita la lettura.
Grazie

Anonimo ha detto...

Io invece aspetto di leggere la decisione della COnsulta: meglio fidarsi dei giuristi che dei leccaculo

Anonimo ha detto...

rileggetevi la fattoria degli animali di orwell... tutti gli animali sono uguali, i maiali però sono più uguali degli altri. il nostro premier ha detto più o meno le stesse cose intervenendo tempo fa in un'aula di tribunale. io non mi sento più rappresentata da chi si ritiene diverso e migliore di me.

Anonimo ha detto...

Per una analisi più semplice bastava dire questa frase:
"La Costituzione sancisce che siamo tutti uguali davanti alla legge? Si? Allora siamo tutti uguali davanti alla legge, e nessuno può pensare di poter rallentare un proprio procedimento".

Fine.

Domani anche questo "lodo" cadrà, facendo la fine del "lodo" Schifani, perchè appunto è anti-costituzionale.