venerdì 4 settembre 2009

Lettera aperta a Berlusconi. Christian Rocca

Con questo articolo, pubblicato da "Ideazione" il 15 luglio 2005, iniziava - i primi di settembre dello stesso anno - la mia avventura di blogger.
E' talmente attuale che mi piace riproporlo.

Egregio presidente Silvio Berlusconi, probabilmente non ha mai sentito parlare di William Baroody, di Joseph Coors, di Richard Mellon Scaife, di David e Charles Koch, di Lynde e Harry Bradley e, soprattutto, di John Merrill Olin. è un gran peccato. Non tanto e non solo per lei, gentile presidente. Ma per tutti noi. Se li appunti questi nomi, le potrebbero tornare utili se un giorno avvertisse il bisogno di stupire ancora una volta, se volesse davvero passare alla storia e incidere nella politica italiana ben più che con il record di permanenza a Palazzo Chigi. Mi permetto di suggerirle questi nomi, gentile presidente, perché in un certo senso si tratta di suoi colleghi: sono businessmen americani molto ricchi e pieni di talento, creatori o eredi di fortune sconfinate, anche se mai quanto le sue. Questi signori condividono con lei una passione per il libero mercato, per la libera intrapresa, per il libero commercio e per la non ingerenza dello Stato nelle faccende private e delle aziende.

Come lei, sanno che se l’antagonismo di sinistra entrasse nella stanza dei bottoni farebbe parecchi danni sia allo Stato sia alle imprese, quindi alla società e ai cittadini. Questi signori, gentile presidente, sono della sua stessa pasta: come lei sono cresciuti nella trincea del lavoro, come lei hanno creato ricchezza e benessere per sé, quindi per gli altri. Come lei, combattono l’asfittica egemonia culturale della sinistra, ma hanno fatto una scelta diversa dalla sua, tempestiva e sacrosanta, del 1994: loro non sono mai scesi in campo. Non ne avevano bisogno. In America non c’è stata una rivoluzione giudiziaria che ha fatto fuori soltanto una parte della classe dirigente della Prima Repubblica. In America non c’è alcun pericolo comunista, neanche socialista e neanche socialdemocratico. Questi suoi colleghi americani non hanno speso i loro soldi per fondare Forza America o qualcosa di simile.

Li hanno investiti sulla forza dell’America, che altra non è se non quella di essere la più formidabile fabbrica di idee del pianeta. Questi signori hanno sganciato denaro di tasca propria per finanziare centri studi, fondazioni e cattedre universitarie che sono riusciti a ribaltare l’egemonia culturale della sinistra e a riorientare l’agenda politica del paese. Ci sono voluti trent’anni, ma l’esito dell’investimento è straordinario. Guardi soltanto ai risultati elettorali: nelle ultime dieci elezioni presidenziali americane, dal 1968 a oggi, i Repubblicani hanno vinto sette volte, mentre le tre volte in cui hanno perso è successo quasi per caso, per colpa di scandali, di candidati deboli o di divisioni nell’arcipelago conservatore. Nel 1976, infatti, il presidente Gerald Ford fu sconfitto più dal fatto di essere subentrato al dimissionario Richard Nixon che dalle idee di Jimmy Carter. Tanto più che, quattro anni prima, Ford non era stato neppure eletto vicepresidente di Nixon, ma era subentrato anche al vice di Nixon, cioè a Spiro T. Agnew, anch’egli dimessosi per uno scandalo. Poi ci fu il Watergate. Avversario e condizioni più facili non ci potevano essere per i Democratici. Eppure, nonostante un candidato del Sud, devotissimo al Signore e amato dagli evangelici, presero soltanto il 50,1 per cento contro il 48 del debole Ford. L’altro vincitore democratico è stato Bill Clinton, nel 1992 e nel 1996. Clinton, anch’egli governatore battista del Sud, non è mai riuscito a conquistare la maggioranza dei voti, neanche il giorno della rielezione. La prima volta fu eletto soltanto perché i conservatori presentarono due candidati: Bush padre (che conquistò il 37 per cento) e Ross Perot (19 per cento). Quattro anni dopo, Clinton sconfisse Bob Dole soltanto con il 49 per cento. Gentile presidente, lei magari riuscirà anche a vincere le prossime elezioni. Lei è certamente più bravo e più furbo dei suoi avversari, dunque non le sarà impossibile tornare a Palazzo Chigi o magari trasferirsi al Quirinale.

Lei ha i mezzi e le capacità, ed è già riuscito a fare i miracoli con le pizze e con i fichi che le passa il convento e che si ritrova intorno. Ma allo stesso tempo, ci pensi bene: lei è soltanto una meteora. Un outsider. Un uomo politico senza eredi. Le sue idee, signor presidente, sono legate alla sua persona e alla sua fortuna. E già adesso scricchiolano ogni qualvolta un Follini o un Fini o un Casini o un Buttiglione prova a fare la faccia feroce. Quando deciderà di ritirarsi, caro presidente, non avrà nessuno a cui passare lo scettro. Non resterà niente. Non potrà restare niente. Sarà cancellato e liquidato come un’altra parentesi della storia italiana. I suoi colleghi americani, invece, non hanno avuto problemi di questo tipo: sono diventati maggioranza culturale, sociale e politica nel paese. Lo spiega mirabilmente un libro che la sua Mondadori ha appena tradotto dall’inglese, sia pure in colpevole ritardo e con un titolo così orrendo che reputo offensivo ripetere (in originale è The Right Nation).

I suoi colleghi americani, insomma, non si sono accontentati di vincere una volta o due e poi tirare a campare. Hanno provato a cambiare l’America e ci sono riusciti, al punto che la più importante delle fondazioni di cui le dicevo all’inizio, la Olin Foundation, ha appena deciso di chiudere bottega per l’esaurimento della propria ragione sociale: l’obiettivo è stato raggiunto. Il vecchio John Olin era stato chiaro con i suoi: voglio che spendiate i miei soldi entro una generazione. Detto e fatto. John e sua moglie Evelyn, mentre erano in vita, hanno sborsato 145 milioni di dollari. Dal 1982 la Fondazione ha finanziato libri, progetti, giornali, riviste, centri studi, ricerche, corsi, dottorati, borse di studio, associazioni di avvocati e club letterari per un totale di 380 milioni di dollari. I soldi di John Olin hanno finanziato la Heritage Foundation, cioè il serbatoio di idee della rivoluzione liberale reaganiana, e l’American Enterprise, il fulcro dell’attuale era bushiana.

Sono università senza studenti, templi del sapere e delle sue applicazioni pratiche. Sono fabbriche che producono pensiero. Sono la forza degli Stati Uniti. L’idea che tagliare le tasse è uno strumento per rilanciare l’economia è stata finanziata con i soldi di John Olin. E oggi nessun politico americano ha il coraggio di sostenere il contrario. Se nel 1994 l’avesse fatto anche lei, caro presidente, oggi si troverebbe con un mucchio di guai in meno. Sono stati i soldi di John Olin a creare il Centro per la Democrazia di Chicago, dove sono cresciute le menti più lucide dell’America odierna. Sono stati i soldi di John Olin a trasformare le coltissime lezioni del professor Allan Bloom e poi le tesi di Charles Murray in straordinari best seller che hanno cambiato i connotati del dibattito culturale e sociale americano. Mi chiedo, anzi le chiedo, perché non prova a fare lo stesso in Italia? Perché non tenta di rivoluzionare il nostro paese fin dalle fondamenta, specie ora che s’è accorto che da solo non ce la può fare e che nella stanza dei bottoni, i bottoni non ci sono? Perché non comincia a finanziare think tank seri, quindi diversi dai contenitori buoni soltanto per le passerelle mondane che abbiamo oggi in Italia?

Perché non finanzia con borse di studio e sovvenzioni individuali giovani ricercatori che producano papers, documenti e idee alternative a quelle che ci fornisce l’establishment intellettuale? Perché non usa una piccolissima parte del suo impero mediatico per fare la rivoluzione liberale? Si tratta certamente di un impegno generazionale, ma non crede che sia ben più utile di un orizzonte che non supera la più ravvicinata scadenza elettorale? Probabilmente rinunciare all’ennesimo Bonolis le farebbe guadagnare di meno, ma è sicuro che non ne valga la pena? Crede, per esempio, che il suo amico Murdoch, e parlo dello Squalo Murdoch, non abbia calcolato al centesimo quanto sia conveniente perdere quei milioni di dollari che perde per pubblicare un giornale influente come il Weekly Standard? Perché, ad esempio, non lancia sul mercato un newsmagazine autorevole e di alto livello come l’Economist o il New Yorker? Perché non fonda una specie di Radio Radicale televisiva che faccia servizio pubblico come si deve? Mi domando, anzi le domando, perché non apre una sezione della sua casa editrice dedicata a libri che non siano soltanto favori ad amici o barzellette su Totti o su Bush o di Michael Moore?

Ancora: le pare sensato che le sue televisioni siano le uniche del mondo occidentale a non avere uffici di corrispondenza negli Stati Uniti? Non crede che ciò possa spiegare l’esplosione di bandiere arcobaleno sulle finestre dei nostri palazzi? Le pare normale che il suo Giornale abbia inaugurato il sito Internet soltanto qualche settimana fa? Com’è possibile che nessuno dei suoi collaboratori sia corso a farsi spiegare dal gruppo di Ideazione le potenzialità della blog revolution? Io non l’ho mai votata, signor presidente. Ma le scrivo questa lettera perché credo che lei sia l’unico in grado di poter seguire l’esempio dei suoi colleghi americani e aiutare l’Italia a diventare un paese pienamente liberale, purché si ricordi che il conservatorismo americano è rivolto al futuro, visto che l’unica cosa che vuole conservare è la libertà. Con una sola frase, insomma, le chiedo di far confliggere i suoi interessi economici con i suoi interessi politici. E di far prevalere questi ultimi. Si guadagnerà la fama di statista e nel lungo termine non sarà il suo unico guadagno.

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