martedì 8 settembre 2009

Cattocomunismo e politica: equivoco che dura da 50 anni. Giordano Bruno Guerri

A volergli cercare una madre nobile (anche le idee peggiori ce l’hanno), quella del cattocomunismo fu la Sinistra Cristiana, che si batté durante la Resistenza, più in funzione antifascista che filocomunista. Ne facevano parte Felice Balbo, Adriano Ossicini, Claudio Napoleoni, Franco Rodano. Oggi, però, i cattocomunisti evocati dal presidente del Consiglio riconoscono il loro padre nobile in don Giuseppe Dossetti, il prete-politico che rischiò - per la sua apertura a sinistra - di diventare l’alternativa a De Gasperi. Un cattolico di destra come Formigoni, usando un concetto di Paolo VI, lo definisce «l’emblema del complesso di inferiorità del cattolicesimo politico nei confronti del marxismo».

Nei cattocomunisti c’è la convinzione che non si possa fare politica, e tantomeno una buona politica cristiana, senza l’appoggio della sinistra: la quale sarebbe più vicina al messaggio evangelico, se non ai valori cristiani. Si tratta - ancora! - dell’antica convinzione popolare che Gesù era un rivoluzionario socialista, e che la rivoluzione cristiana non si possa fare senza la sinistra.

Più piattamente, il cattocomunismo applicato nacque da un progetto politico di forze fino ad allora contrapposte, ma che avevano bisogno l’una dell’altra per «garantire stabilità al Paese», ovvero per governare a lungo senza possibili alternative. Il cattocomunismo nacque in quel confuso marasma di ideali e necessità, espresso alla perfezione da espressioni politiche contorte e surreali: «convergenze parallele» e «compromesso storico». Concetti e parole partoriti, negli anni Settanta, da Aldo Moro e da Enrico Berlinguer. Parole e concetti tradotti nel più immediato «cattocomunismo», che individuò subito l’avversario principale nei cosiddetti «clericofascisti», i quali erano - più semplicemente - cattolici di destra. (Oggi io preferisco parlare di ghibelliniguelfi e di guelfighibellini, essendo quasi scomparsi - sia a destra sia a sinistra - i veri guelfi, i veri ghibellini, ma questa è un’altra faccenda.) Il bello è che sia i cattolici di destra sia i cattolici di sinistra credono di fare l’interesse della loro fede e della Chiesa. A destra, perché difendono i valori della famiglia tradizionale contro i Dico, la procreazione naturale contro quella assistita, l’obbligo di scegliere la vita contro la libertà di scegliere la morte, eccetera eccetera. Per fortuna (pardon) io non sono né cattolico né osservante, se no mi troverei in grave imbarazzo, essendo per i Dico, la procreazione assistita quando i mezzi naturali non funzionino, la libertà di scrivere un testamento biologico dove lo Stato non metta il naso. E, per fortuna, si può stare a destra e combattere per quelle idee, che non sono solo di sinistra. Ma come fanno, i cattolici, a far convivere l’obbedienza alla Chiesa con l’appartenenza a un gruppo politico che di quelle idee fa una bandiera?

Indifferenti all’insegnamento di una decina di papi, nonché alla scomunica di Pio XII ai marxisti, i cattocomunisti vollero sempre ignorare che il comunismo era, prima di tutto, un’ideologia sostitutiva della religione. E così si ebbero effetti che per un laico possono essere benigni e graditi, come le vittorie nei referendum sul divorzio e sull’aborto. Ma neppure un laico può fare a meno di chiedersi come un cattolico abbia potuto appoggiare quei referendum nel nome di Cristo e di una maggiore giustizia sociale.

Intanto, il cattocomunismo politico/economico provocava danni che stiamo ancora pagando, e chi sa per quanto tempo. Dal 1974 al 1985 le tasse aumentarono paurosamente, soprattutto per costruire quello Stato assistenziale che - per i cattocomunisti - è la versione più attuale del socialismo. Democristiani, socialisti e comunisti aumentarono il debito pubblico a dismisura per migliorare le «prestazioni sociali». In parte ci riuscirono, ma l’aumento della spesa pubblica accrebbe il deficit, il deficit aumentò il prelievo fiscale, che a sua volta diminuì l’iniziativa privata. Risultato, nuova disoccupazione, inflazione, povertà. Alla buonafede dei cattocomunisti si univa proprio quel complesso d’inferiorità di cui accennavamo all’inizio, ovvero la convinzione che soltanto i comunisti avessero gli strumenti per interpretare e migliorare la società e l’economia.

L’incredibile è che neanche il crollo del marxismo internazionale li abbia costretti a un ripensamento. Non ci è riuscito neppure papa Giovanni Paolo II, che nell’enciclica Centesimus annus, 1991, scrisse: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese».

Insomma, come si fa a essere cattocomunisti, oggi? Rimangono tali, infatti, anche in assenza di comunismo, che proprio certi cattolici sembrano rimpiangere più degli stessi marxisti. In proposito ha dato una risposta chiara e convincente Raffaele Iannuzzi: oggi la fede e i suoi contenuti culturali sono, per i cattocomunisti, al servizio e alla mercé del dibattito politico; per cui, «se il Regno di Dio non è più una realtà dell’altro mondo, ma è una cosa di questo mondo, allora abbattere Berlusconi è già l’apertura alla salvezza in questo mondo». È il vero motivo per cui, alla fine, non vogliono e non riescono a farsi un grande partito tutto cattolico: non riuscirebbero nell’obiettivo salvifico di espellere il mercante dal tempio. Anche il catechismo ne ha fatti, di guasti. (il Giornale)

7 commenti:

fuoco amico ha detto...

Per quanto riguarda il dossettismo propongo questo estratto uscito sul Domenicale dell opera postuma di Baget Bozzo "Giuseppe Dossetti . la Costituzione come Ideologia politica".


Che cosa rappresentava Romano Prodi, se non l’uomo indicato da colui che aveva, con la sua autorità spirituale, delegittimato la nuova maggioranza berlusconiana e indicato nella lotta contro di essa il fondamento del Paese? Era stato il dossettismo a creare le basi di una nuova guerra civile italiana: quella tra una maggioranza democratica e la Costituzione repubblicana.
Qual era il motivo per delegittimare Berlusconi, se non il fatto che egli non proveniva dai partiti antifascisti ed era alleato di forze come il Msi e la Lega, che rimanevano fuori del tracciato costituzionale? Bisognava creare una coalizione in nome della Costituzione. Dossetti fece proprio questo: riuscì a dare vita a una maggioranza politica fondata sul principio che forze anticostituzionali erano in parlamento e che la Costituzione doveva difendere la democrazia dando vita a un partito fondato su di essa. L’Ulivo fu appunto questo.
Le tesi dossettiane non erano omogenee a quelle dei residui dei partiti democratici ancora presenti in politica, non erano condivise dal Vaticano ed erano artificiali rispetto alla politica italiana. L’arco costituzionale della prima Repubblica, fondato sui partiti antifascisti, era stato compatibile con la divisione tra democratici e comunisti. Quindi la distinzione tra Costituzione e partiti era evidente. Ma ora accadeva che la divisione nel Paese avvenisse tra partiti costituzionali e partiti considerati non costituzionali, sicché la Costituzione diventava la base stessa della legittimità politica.

Per sua natura, un conflitto che aveva per oggetto la Costituzione era un conflitto radicale: una nuova forma di guerra civile prendeva il posto delle altre che l’avevano preceduta. Non corrispondeva infatti alla distinzione tra partiti costituzionali e Movimento sociale, che si fondava sul rapporto del Msi con il fascismo. Fu un fatto nuovo, perché l’elettorato che votava per l’alleanza berlusconiana era lo stesso che aveva votato per i partiti di centro e di centrosinistra nelle precedenti legislature. Di fatto, era la divisione non tra una maggioranza e una minoranza già definite, ma tra due possibili maggioranze.
La Costituzione come principio di uno schieramento politico era un fatto interamente nuovo. Fu quello che potremmo chiamare il “dossettismo realizzato”. Esso poneva il principio della guida spirituale dei cattolici, che Dossetti assumeva su di sé, e quello della distinzione radicale tra elettorato costituzionale e non costituzionale. Dossetti era riuscito a sottrarre non solo alla Chiesa il suo partito, ma a costringere il Vaticano al silenzio politico, perché la Santa Sede non poteva assumere una posizione diversa da quella di chi difendeva la Costituzione e che era appoggiata dal capo dello Stato.
Il successo di Dossetti fu nel fatto che Prodi divenne l’espressione di ciò che egli aveva pensato: un leader politico designato da un potere spirituale, e che aveva per questo una valenza ulteriore rispetto allo schieramento dei partiti che sostenevano l’alleanza. Prodi era il valore aggiunto della coalizione e la determinava come tale: il potere spirituale di Dossetti impersonato nel suo rappresentante.

fuoco amico ha detto...

La vicenda di Dossetti si poneva così su due registri: uno riguardava la Chiesa e l’altro lo Stato. Dossetti poteva contare su una posizione nata nel post-Concilio: la differenza tra la Chiesa spirituale e la Chiesa istituzionale, che potevano essere unite anche in una sola persona, come era accaduto, secondo Dossetti, con Giovanni XXIII.
Egli incontrò la persona che avrebbe avuto questa funzione: il cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini. Veniva dal mondo dell’esegesi biblica, dove l’accettazione del metodo storico-critico aveva condotto praticamente a una doppia verità: una verità per la scienza storica e una verità per la fede. Era possibile applicare questa distinzione anche alla politica e pensare a una Chiesa spirituale che si riconosceva come tale proprio dal fatto che non interferiva nel politico e vedeva nella secolarizzazione della politica la conferma del proprio valore spirituale. Martini era stato mediatore tra Paolo VI e la Compagnia di Gesù nella successione a padre Arrupe. Per questo Montini lo aveva assegnato all’arcidiocesi di Milano, seguendo la sua nota inclinazione a fare vescovi dei teologi, in questo caso un esegeta. Martini fu maestro nella Chiesa italiana perché mantenne un linguaggio neutro nelle questioni che toccavano il rapporto tra Chiesa e politica. Contribuì così a disarmare la resistenza interna alla Chiesa alla posizione dossettiana e all’affidamento della chiave della maggioranza di governo al Pds. Per Dossetti fu una perfetta soluzione: un vescovo autorevole si differenziava dal Papa su tutte le questioni che erano storicamente conflittuali tra la Chiesa e la società.
Ciò creò un grave problema per la Chiesa romana: essa doveva contare su un aggancio politico con lo Stato italiano ed era costretta ad accettare l’uomo di Dossetti, legittimato da Martini, come mediatore tra la Chiesa e lo Stato.

fuoco amico ha detto...

In quel tempo nella Chiesa italiana si agitavano diversi fermenti nati nel post Concilio. Esso aveva assunto un orientamento diverso da quello conciliare. Qui Paolo VI aveva bloccato le possibilità limitatrici del primato papale implicate nell’affermazione della collegialità della Chiesa. Paolo VI aveva respinto la definizione della Chiesa come “collegio”, una strana forma di sinodalismo, ben lontana da quella praticata nelle Chiese ortodosse. Il “collegialismo” comportava l’idea di una Chiesa cattolica una, ma in cui il primato non spettava alla persona del Papa, ma al Sinodo dei vescovi, che garantiva in nome del primato petrino la collegialità della Chiesa. Questa era una concezione eversiva della tradizione petrina e, non a caso, nell’affermazione di essa consistette l’efficacia del breve periodo di Dossetti alla direzione del Concilio. Il post-Concilio consistette, nella Chiesa cattolica, nel contrasto tra il primato papale e la collegialità nella sua forma spuria, il primato collegiale.
La forza spirituale del primato petrino apparve in questa lotta, in cui esso aveva contro di sé tutte le tensioni nate dal Vaticano II, a cominciare dalla più pericolosa di tutte: quella dell’ecumenismo universale in cui si sarebbero dovute riconoscere tutte le chiese. Il futuro del cristianesimo sembrava consistere nell’unità dei cristiani realizzata oltre le definizioni dogmatiche; la carità era vista come l’abrogazione della verità. Le differenze tra le chiese mantenevano, pur nel loro limite, la concezione del cristianesimo come verità e quindi l’idea di Rivelazione, cioè di una sapienza indisponibile all’uomo e quindi alle singole chie-se: la loro differenza era paradossalmente il loro rapporto con la rivelazione e con la verità. L’ecumenismo nella carità stravolgeva invece il concetto di Chiesa perché eliminava la rivelazione della verità divina come forma della Chiesa in ogni Chiesa.

Ci volle molto tempo perché il primato petrino tornasse a risplendere nella Chiesa cattolica. Ciò fu dovuto, in particolare, all’opera di Giovanni Paolo II, che con il suo pontificato itinerante fece appello ai popoli e alla loro religione popolare contro il prevalere dei teologi, che cercavano delle formule di unione e di ricomprensione dei dogmi che ne riducevano la sostanza e la differenza, cioè la loro proprietà di essere verità rivelate indisponibili alle chiese.
Questo uso politico del papato inteso come appello ai popoli e alle nazioni, impersonato da Giovanni Paolo II, divenne una colossale svolta storica con i fatti polacchi degli anni ’80, in cui, nel cuore del marxismo, apparve la rivolta della classe operaia in nome della fede. Fu questo granello di sabbia che mise in cri-si il grande edificio dell’impero sovietico, che esprimeva in sé il pensiero della modernità: la realizzazione dell’utopia della ragione, che assorbiva in un modello astratto di società la differenza dei popoli e delle culture e, soprattutto, quella tra le persone. Questa svolta storica, avvenuta in una nazione martire come la Polonia e impersonata da un Papa polacco di grande spiritualità e levatura, salvò la Chiesa cattolica dal conciliarismo, dal sinodalismo, dall’ecumenismo totale. Ristabilì la realtà della Chiesa. Giovanni Paolo II si era appellato ai popoli e i popoli avevano risposto. Il risultato fu decisivo. Cadeva il razionalismo moderno e la sua opera totale: la società senza classi, realizzata nell’impero sovietico in nome dell’eguaglianza. Cadeva nella Chiesa cattolica il tentativo di sovvertire il primato petrino in nome del primato sinodale e della collegialità come forma della Chiesa.

Anonimo ha detto...

In questo periodo post-conciliare Dossetti ebbe le possibilità migliori di usare la sua influenza politica e unirla a quella ecclesiastica. La fine della Dc aveva lasciato il popolo cattolico privo di riferimenti, mentre i suoi dirigenti politici erano stati in-criminati come corruttori. La salvezza morale stava nelle mani dello Stato, e anzi dei giudici, divenuti un potere determinante la legittimità della politica.
La Chiesa cattolica in Italia e l’Italia entravano insieme in una situazione di vuoto politico e istituzionale, in cui proprio lo sforzo dei cattolici italiani per la nazione e per la libertà veniva degradato a storia di ordinaria corruzione.
Lo Stato soltanto poteva essere il salvatore. Lo Stato italiano era concordatario per l’articolo 7 della Costituzione, che Dossetti aveva ottenuto mediante l’accordo sulle parole di Togliatti, che definivano la Chiesa e lo Stato indipendenti e sovrani. La forza dei cattolici in politica veniva dissolta e ciò che rimaneva in piedi era soltanto il rapporto tra Chiesa e Stato, ora garantito politicamente dal partito postcomunista. Mentre l’Europa si separava dal moderno con la crisi del comunismo, in Italia la soluzione fascista dell’accordo tra Chiesa e Stato diventava la risposta fondamentale ai problemi della Chiesa. [...]

I cattolici di sinistra e i comunisti avevano la comune esigenza di far scendere il silenzio sulla storia repubblicana: gli uni potevano dimenticare che la Dc era finita con un processo per corruzione, gli altri potevano far scordare che avevano operato contro la legalità in alleanza con il potere sovietico. Bisognava presentare la fondazione della Repubblica come se fosse avvenuta in pienezza solo ora, dopo che la fine dell’impero sovietico aveva condotto alla fine del partito cristiano in Italia.
Dossetti tenne a battesimo l’Ulivo piantandone uno nella sua terra, nel suo ritiro di Montesole, come simbolo dell’unità tra cattolici e comunisti e per rivendicare un nuovo inizio. Il dossettismo era come un fiume carsico: aveva attraversato quarant’anni della storia della Repubblica in base al principio per cui la fondazione repubblicana aveva sempre in sé il potere di nuovo inizio, non era un fatto transeunte ma un elemento permanente. Così la Costituzione entrava nell’ambito del sacro, di ciò che è sottratto al tempo profano e consente di ricominciare dall’autorità del fondamento come se i giorni non fossero trascorsi.
L’Ulivo voleva dire che dalla terra nasceva ora un nuovo germe, che era la medesima cosa dell’unità popolare originaria contro il fascismo. Ora era il tempo che iniziasse ciò che era stato impedito dalla divisione del mondo in blocchi e quindi che ciò che la terra italiana dava di suo potesse spontaneamente fiorire.

Dossetti non era un profeta dell’utopia, vi fu chiaramente contrario, e in ciò fu assai diverso da Giorgio La Pira, che come tale invece si poneva. La salvezza per lui non veniva dal futuro, ma dal passato, quel passato che egli poteva considerare come fondante. Dossetti riteneva che il monaco avesse la capacità di rivelare i fondamenti, di far emergere la forza del seme per fargli produrre nuovi frutti. L’evento unico della Resistenza e della Costituzione si ri-produceva in una forma più ampia, e quello che avveniva poteva, per quanto fosse composto di persone aventi già un passato politico, essere visto come una nuova nascita, un compimento di ciò che aveva da tempo messo radici nella terra.
Ci voleva un mito fondatore e Dossetti gli diede spazio e parole. Se la Costituzione aveva realizzato l’unica unità possibile dell’Italia, l’Ulivo rappresentava la piena manifestazione di questa unità. Dossetti era un evocatore del sacro e, in ciò, produttore di un mito: il mito della Costituzione antifascista. Questa posizione può ricordare il “patriottismo della Costituzione”, secondo il linguaggio diffuso in Germania per garantire il fondamento etico alla Germania post-bellica. Il mito dossettiano era un omaggio all’Italia e al suo popolo, che aveva nell’antifascismo ritrovato sé stesso.

fuoco amico ha detto...

Fu proprio questo concetto del sacro costituzionale che costituì il fascino degli anni Novanta, facendo pensare che il passato custodisse un fatto che manteneva intatte le forze politiche rinnovandone in parte il personale, ma dando alle loro identità acquisite il sentimento che esse erano nuove.
Poiché l’autore di questa operazione era un singolo, un monaco che dal suo stato di marginalità poteva comprendere i segreti del tempo, doveva accadere che l’operatore del rinnovamento dovesse essere un singolo e non una forza politica: Romano Prodi. Nell’Ulivo le forze politiche erano quelle di prima, non mutavano né personale né orientamento, ma il fatto nuovo era che si ponevano sotto la guida di Prodi, che da solo diventava il garante del rinnovamento di coloro che, in sostanza, rimanevano identici alla loro storia.
Dossetti riuscì a trasferire su Prodi il suo carisma e la potenza di un gesto benedicente, a fare di lui il vero Ulivo, il punto fisico di connessione delle forze politiche coinvolte nell’alleanza. La singolarità di Romano Prodi, unica figura...Singolare fu che la cultura laica di sinistra benedicesse Prodi come salvatore del Paese, senza che egli, come presidente dell’Iri, ne avesse alcun titolo. Prodi era l’illustre ignoto, un professore di Economia a Bologna. Non aveva alcun titolo tranne l’investitura di Dossetti. Eppure fu riconosciuto da tutta la sinistra e da tutte le forze laiche come l’oppositore designato di Berlusconi, come colui che riproduceva l’evento antifascista nella realtà italiana. E appunto per questo apparvero come fascisti tutti coloro che lo avversavano. Si creò così il clima di una nuova guerra civile, che riproduceva quella tra Resistenza e fascismo e che vedeva nei partiti democratici dell’alleanza berlusconiana i nuovi fascisti. Come sempre, creando un mito si crea un nemico. Si distingue tra luce e tenebre.
Non si può dire quanto il gesto mitico di Dossetti di segnare Prodi come l’uomo della luce abbia contribuito a produrre nell’immaginario della sinistra l’immagine di Berlusconi come uomo delle tenebre. Il monaco Dossetti aveva così compiuto, in nome del suo potere spirituale, ciò che il politico Dossetti aveva tessuto in forma materiale. Senza il tocco monastico il dossettismo pieno e vero, cioè il prodismo, non sarebbe nato. Tuttavia questa operazione, che riportava indietro la storia a un supposto evento fondatore, non corrispondeva a verità. La Resistenza e la Costituzione non avevano rappresentato il fondamento dell’unità nazionale ritrovata dopo la fine della monarchia risorgimentale con gli eventi che vanno dal ’43 al ’46. [...]

fuoco amico ha detto...

Ciò che unì la nazione, allora, fu la passione comune, una guerra inutile combattuta con coraggio e onore dalla Tunisia al Caucaso. Sofferta nei bombardamenti delle città, infine una guerra guerreggiata sul territorio. In qualunque modo fosse motivata e sofferta, la passione comune e diversa non aveva messo in discussione il fatto che il suo oggetto fosse l’Italia come popolo e come nazione. L’unità d’Italia e la nazione Italia sopravvissero alla tragedia, che del resto egualmente imperversò in tutte le nazioni coinvolte in Europa dalla guerra.
Fu questo senso comune ciò che unì gli italiani, non la Resistenza o l’antifascismo o la Costituzione, che furono parte del dramma, ma non ne identificarono l’oggetto. L’operazione di Dossetti di prendere antifascismo e Resistenza come punto di riferimento dell’unità nazionale e di riportare indietro le forze politiche che vi erano coinvolte fu come la restaurazione della Dc degli anni post-bellici e del Pci ancora togliattiano. Ma i cattolici e i comunisti erano profondamente cambiati. La Dc non aveva più la forma del cattolicesimo in politica, perché dopo il Concilio l’idea di partito cristiano e dell’unità dei cattolici era finita. La ribellione dei cattolici contro di essa era scoppiata nell’elettorato cattolico moderato.

Il comunismo italiano aveva accettato di mettere in discussione la propria storia cambiando il proprio nome. Se questo processo si fosse compiuto si sarebbe avuta una condizione che superava a un tempo la Democrazia cristiana e il Partito comunista e determinava schieramenti tra di loro culturalmente compatibili. Facendo della Costituzione una categoria politica e quindi usandola obiettivamente in modo ideologico, Dossetti, con i Comitati per la difesa della Costituzione, fece sì che l’alleanza berlusconiana, che riprendeva l’elettorato che era stato della Democrazia cristiana, fosse vista come anticostituzionale e si riproducesse di fatto nei suoi confronti la dialettica tra fascismo e antifascismo. Dossetti determinava così un altro contesto della guerra civile italiana, che è la forma politica del Novecento. Egli consentiva il riallineamento di tutte le culture e interessi che si erano espressi nel dopoguerra, tutti legati all’identità politica della Costituzione come memoria fondatrice. Consentì a essi di ritrovare il linguaggio consueto e di ricostituire il medesimo blocco di interessi che aveva governato fino ad allora lo Stato. L’alleanza berlusconiana divenne perciò una presenza democratica non legittima non solo dal punto di vista delle forze legate ai post-comunisti sul piano elettorale, ma da quello dell’establishment italiano nel suo insieme. Dossetti trasformò in categoria politica stabile quella che si era espressa nella collaborazione conflittuale tra democristiani e comunisti e la pose contro le nuove forze emerse al di fuori delle categorie antifasciste. [...]

Il conflitto fu ancora più rissoso e radicale perché protagonista divenne la magistratura, che interpretò il suo intervento come costituzionale, cioè teso a garantire l’attualità della Costituzione nella politica italiana. L’alleanza tra Costituzione e potere giudiziario fu il fondamento determinante la legittimità politica, sicché la scelta democratica apparve marginale rispetto alla scelta istituzionale e la democrazia divenne perciò una forza non legittimante, ma anzi una forza che doveva essere legittimata dalla Costituzione e dai giudici. E la presidenza della Repubblica, che già aveva assunto al tempo dei partiti democratici occidentali un rilievo determinante nella politica italiana, vide ancora accresciute le sue funzioni e divenne il fondamentale garante della Costituzione e dei giudici.

fuoco amico ha detto...

LA COSTITUZIONE COME POLITICA
Che rapporto vi è tra il dossettismo degli anni Novanta e quello degli anni Cinquanta e successivi? L’elemento di continuità consiste nell’assunzione del Partito comunista come elemento fondante della politica italiana, in quanto portatore delle posizioni sociali del proletariato e della resistenza popolare al fascismo. Questa valutazione del ruolo del Pci non corrisponde più al Pds degli anni Novanta, che non è il partito della Resistenza, ma un partito radicato nel potere politico e sociale del Paese e quindi una forza conservatrice del sistema. Ma questa valutazione delle radici costituzionali fa nascere proprio nelle forze discriminate da Dossetti la domanda della democrazia, cioè la riforma della Costituzione. E ciò curiosamente fa nascere nelle parti più legate alla storia del Pci il desiderio di creare con le forze democratiche emergenti, con Berlusconi, un’intesa, che sarà poi puntualmente sconfessata dalle forze di sistema che si erano create attorno alla Costituzione come forma politica, cioè attorno al nuovo dossettismo.
Il conflitto tra Costituzione e democrazia diventa la vera divisione sovrastante le stesse forze politiche. L’arma materiale di questo regime invisibile è la magistratura inquirente, che interpreta il suo potere come ultima istanza della legge e dell’ordine e lo attua iniziando un processo continuo contro Berlusconi, divenendo così la chiave del sistema politico italiano, in cui si esprime l’alternativa tra Costituzione e democrazia che Dossetti aveva creato.

La vera arma del dossettismo degli anni Novanta non è la politica, ma la magistratura. Il ruolo del dossettismo, in questo clima, appare nel fatto di non riuscire a raggiungere il suo obiettivo finale, cioè un partito post-comunista e un partito post-democristiano di sinistra uniti attorno a Romano Prodi quale espressione di Dossetti e come garante della distinzione tra Costituzione e democrazia. Il dossettismo non è riuscito nel suo intento di costruire un vero partito della Costituzione, espressione dell’antifascismo e della Resistenza in forma democratica. Non vi è riuscito né con l’Ulivo, né con l’Unione, né con il Partito democratico, che dell’Ulivo è una continuazione, alla ricerca del medesimo obiettivo. Il partito della Costituzione come forma democratica non è nato perché né i postcomunisti né i postdemocristiani di sinistra erano omogenei a questa formula. Eppure essa ha governato la politica italiana dal 1994 al 2008, è stata il punto di riferimento determinante per la sinistra in questi anni.

Il problema politico italiano sta nella dualità tra Costituzione e democrazia, che risultò sin dalle origini della Repubblica. Cioè sta nel rapporto tra Costituzione e nazione. La nazione in Italia è uscita indenne dalla seconda guerra mondiale, ma la sua identità era stata umiliata dalla sconfitta e dalla guerra combattuta tra due schieramenti. La nazione Italia andava definita dai vincitori non solo per ragioni materiali ma per ragioni ideali, perché l’alleanza col nazismo aveva condotto l’Italia fuori dalla sua storia culturale: non poteva essere proposta come linguaggio né come legittimazione. L’unità nazionale venne definita dalla Costituzione come forma di Stato, ma proprio per il fatto che essa risultava come esterna alla nazione e accettata come condizione di inserimento nell’ordine internazionale, non è una definizione della nazione italiana. Perciò è nato nel Paese e nella politica il desiderio di cambiare la Costituzione e al tempo stesso l’impossibilità di farlo.
Ciò è dovuto al carattere unico della Costituzione italiana: il suo essere un programma per il futuro, l’incorporazione nell’idea di rivoluzione per realizzare l’eguaglianza degli uomini, su cui convenivano sia cattolici che comunisti, per motivi diversi ma volti a dare un significato meta-costituzionale al testo che essi elaboravano. [...]