mercoledì 10 gennaio 2007

Il crollo dell'economia sovietica, monito per l'Italia di oggi. Paolo Della Sala

Come mai è crollato il sistema sovietico? Quali sono le ragioni della sua dissoluzione economica? Capire le ragioni del disastro può darci utili indicazioni per capire cosa succederà all'economia italiana sotto il governo Prodi, condizionato in buona parte dai neocomunisti. Utilizzerò i dati forniti da un saggio di Vladimir Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca (Spirali edizioni), che non merita di essere occultato e trattato come un samizdat, ma anzi dovrebbe essere diffuso nelle scuole e nelle famiglie.
La caduta del sistema sovietico cominciò nei paesi dell'Est e fu legata a un'invisibile guerra del petrolio, condotta dagli Usa in collaborazione con l'Arabia Saudita. Nel marzo 1981 la crisi polacca venne commentata dai membri del Politburò. Gromiko ricordò che: «I compagni polacchi hanno sottolineato lo spinoso problema dell'importazione di merci, perché non hanno di che pagarle...», e Archipov rispose: «Noi forniamo alla Polonia 13 milioni di tonnellate di petrolio a 90 rubli la tonnellata. Considerato che nel resto del mondo il prezzo a tonnellata è di 150 rubli, noi perdiamo 80 rubli a tonnellata. Tutto quel petrolio potremmo venderlo in cambio di valuta pesante con un guadagno per noi colossale». Infatti Gazprom non è una novità: anche allora il petrolio rappresentava per l'Urss il maggior gettito di valuta pregiata. La fornitura alla Polonia comportò una riduzione dei rifornimenti agli altri paesi dell'Est europeo, con conseguenti trattative e lamentele. La Polonia -del resto - era ridotta alla fame, e richiese anche l'invio urgente di 30.000 tonnellate di carne, richiesta cui cercarono di porre riparo sia Breznev sia Gorbacev (membro della direzione del Pcus). Le riserve di carne erano azzerate. A quel punto i russi si rivolsero invano all'Ucraina, Estonia, Bielorussia e Kazakhistan. Eppure si trattava di una fornitura di modeste proporzioni, che valeva sì e no 30 milioni di dollari, ai prezzi occidentali. Dopo alcuni mesi, e dopo la proclamazione della legge marziale in Polinia, furono inviate 16.000 tonnellate di carne. Tuttavia il presidente del Comitato per la pianificazione statale Bajbakov riferì che la carne: «è stata caricata su vagoni sporchi e non lavati che avevano trasportato metalli ferrosi, ed ha un aspetto impresentabile. Quando la carne viene scaricata nelle stazioni polacche si arriva al sabotaggio vero e proprio. I polacchi indirizzano all'Unione Sovietica e ai sovietici gli epiteti più osceni, si rifiutano di pulire i vagoni etc. Le ingiurie che ci lanciano addosso non si contano».
La situazione in Russia non era migliore. Mentre in Polonia mancava la carne, gli operai russi faticavano a ottenere il pane, tanto che nel solo 1979 ci furono ben 300 scioperi. Il Politburò non riusciva a porre rimedio e Chernenko ammise che sull'umore degli operai «influiscono negativamente le vendite a singhiozzo del pane, che talvolta manca per quattro giorni di fila. I bambini vedono raramente il pane bianco e i panini. Non c'è farina». Ma «persino Chernenko», scrive l'ex dissidente Bukovskij, «pur prendendosela con le negligenti autorità locali e con i contadini, cominciava a capire che qualcosa non funzionava proprio nel sistema» tanto che, se «i piani venivano completati, e decine di milioni di tonnellate di grano venivano acquistate negli Usa o in Canada, tuttavia non c'era pane». Mancavano poi alimenti come l'aceto e il sale, e quest'ultimo caso era davvero emblematico, poiché la Russia possiede giganteschi laghi salati, il cui sale non occorre nemmeno scavare: basta soltanto caricarlo sui vagoni dei treni.
Il disastro aveva diverse cause, tra le quali la corruzione. Ci hanno sempre raccontato che sotto il fascismo e il comunismo non c'era criminalità. Nulla di più falso: «All'inizio del 1980 la corruzione dell'apparato amministrativo aveva raggiunto dimensioni terrificanti, sebbene fin dai tempi di Kruscev si fossero applicate severe misure punitive che arrivavano alla fucilazione...Andava strutturandosi un'intera industria sommersa, imprese e fabbriche clandestine che non avevano a che fare con l'economia statale. L'iniziativa privata, davvero indistruttibile, si era sempre dimostrata più efficiente della goffa macchina statale. Ma le cose emergevano raramente: di regola le autorità di partito locali avevano anche loro le mani in pasta e nemmeno il KGB era in grado di venirne a capo. Intere regioni, repubbliche addirittura, erano controllate da questa nuova "mafia", erano veri e propri principati indipendenti»... Il caso «uzbeko» iniziò allora... ma siccome spesso il filo conduceva a Mosca, all'entourage di Breznev, e tutto veniva messo a tacere.
Secondo Bukovskij l'economia di uno stato ha solo due modelli possibili: «O è il partito a dirigere i processi economici, oppure lo fa il mercato. Tertium non datur». Oggi vediamo che in alcune parti dell'Europa, segnata dalla rinascita del modello marxista sotto le mentite spoglie del «socialismo di mercato», è il partito, sotto la forma della coalizione al governo, che torna a controllare il mercato. In Italia intere regioni vivono sotto un «patto sociale» garantito dal potere politico che è al governo da decenni. Il mercato diretto dalle amministrazioni produce una certa ricchezza (si veda in Emilia) ma in cambio il potere politico ottiene una compartecipazione alla produzione di merci e servizi (cooperative, banche, artigianato), ma soprattutto chiede ai cittadini un consenso che si traduce con una delega in bianco. Occorre dire che il modello emiliano, applicato su scala nazionale con gli stessi uomini (Bersani, Chiti etc.), non ha mai avuto successo, segno che funziona solo là dove la ricchezza è alta: nella pianura emiliana come nelle socialdemocrazie scandinave di un tempo. L'élite intellettuale non ha mai voluto capire che il disastro economico dei paesi socialisti è dovuto proprio alla dottrina applicata.
I «modelli socialisti» non esistono, esistono soltanto diversi scenari di tracollo dell'economia, scrive Bukovskij. «E' possibile distruggere il proprio paese in modo rapido e radicale oppure in modo lento e irreversibile, con tutta la varietà di modelli intermedi. In realtà l'espressione "economia socialista" è un'assurdità, è una contraddizione in termini. L'idea base del socialismo è quella della "giusta distribuzione" dei beni, non della loro creazione, per cui ogni "modello" lavora alla dissipazione dei beni, nel senso che "distribuisce" finché c'è qualcosa da distribuire». L'imperativo della «giusta distribuzione» è tornato più che mai all'ordine del giorno col governo Prodi: la «redistribuzione» è il principale slogan dell'Unione.
Nell'Urss il sistema era ancora più radicale e folle, ed ha potuto sopravvivere per tanti decenni solo grazie allo sfruttamento e allo sterminio, e perché la Russia è un Paese straordinariamente ricco di petrolio, gas, carbone, ferro, oro, diamanti, legno. Anche il governo più incapace e corrotto poteva gestire il potere senza preoccupazioni e senza temere crisi. Per arrivare al collasso economico occorreva una ideologia. «Questa ideologia è stata il socialismo, che non solo ha dissanguato, ma ha portato il Paese alla bancarotta, perché ha provocato un incredibile ritardo di sviluppo». Ai disastri produttivi l'Unione sovietica aggiungeva l'incidenza delle spese militari, con più di metà dell'economia che lavorava per soddisfare i costi dell'industria bellica, necessaria a supportare l'impero e le sue guerre. Il risultato negativo dei due fattori era notevole, e già nel 1979 gli investimenti interni erano negativi, così che da ogni rublo affidato allo Stato in un anno si ottenevano soltanto 83 centesimi (copechi).
Nel frattempo in Occidente comparvero governanti fermamente anticomunisti, come Reagan e la Tatcher, che smantellarono senza tregua i settori dell'industria nazionalizzati dai precedenti governi, riducendo il welfare e le tasse. La gente capiva che i cambiamenti andavano nel loro interesse, perché li liberavano dal gigantesco apparato dedito a gestire la «redistribuzione» e il potere burocratico. Negli anni '80 il socialismo non attirava più nemmeno i disoccupati. Del resto in tutto il mondo i paesi socialisti andavano verso la bancarotta.
La guerra del petrolio e la «Gorby» mania
L'aspetto decisivo della guerra economica di Reagan nei confronti dell'Urss fu, oltre alla scelta di attuare lo scudo difensivo spaziale, la manipolazione del prezzo del mercato petrolifero, attuata per mezzo della Arabia Saudita. Negli anni '80, come già ricordato, la principale ricchezza del regime sovietico proveniva dalla vendita di petrolio in Occidente. Il primo fattore di crisi fu interno, perché la tecnologia primordiale di estrazione portò ad un rendimento disastroso. La catastrofe completa, ricorda Bukovskij, «arrivò nel 1985-86, quando il calo dell'estrazione in Urss coincise con una non meno brusca caduta dei prezzi sul mercato mondiale. Come risultato, l'Unione Sovietica perse in un anno più di un terzo dei suoi introiti in valuta pregiata».
Lo staff di Reagan aveva convinto l'Arabia ad aumentare enormemente la sua produzione, abbassando nel contempo i prezzi. Le pressioni sulla famiglia reale ebbero successo grazie alla fornitura di armi e tecnologia sofisticate. «In poche settimane la produzione dell'Arabia balzò da meno di 2 milioni a 6 milioni di barili. Nel tardo autunno del 1985 la produzione del greggio avrebbe raggiunto quasi 9 milioni di barili al giorno». Per gli Stati Uniti (e tutto l'Occidente) era una vera manna, equivalente a miliardi di dollari che restavano nelle tasche dei consumatori. Per il Cremlino, invece, si trattava di un disastro apocalittico: non c'erano più riserve in valuta e si dovette ricorrere alla vendita di oro. Il prezzo del greggio era passato da 30 dollari al barile, nel novembre del 1985, a 12 dollari al barile, nel marzo del 1986.
A quel punto intervennero i «menscevichi» europei. Essi avevano lo scopo dichiarato di riformare il sistema russo, inventandosi personaggi presentabili, in modo da salvare l'esistenza del socialismo, inclusi i partiti dell'Occidente. «Il crollo del socialismo sovietico, scrive Bukovskij, ...smascherava il loro ruolo di traditori nella guerra che da mezzo secolo l'umanità combatteva contro la minaccia dell'asservimento totalitario. (...) Dunque non occorreva "combattere per la pace", il disarmo, la "comprensione reciproca", se si poteva abbattere direttamente [l'Urss] senza colpo ferire».
Nacque così la «gorby mania», un'invenzione della stampa benpensante occidentale (che si apprestava a ereditare il ruolo internazionalista del Komintern). «La generale euforia suscitata dalla "glasnost" e dalla "perestrojka", i crediti plurimiliardari concessi all'Urss, non erano un segno di stupidità o ingenuità, bensì una campagna orchestrata ad arte». In questo modo «...un regime criminale... era sparito senza lasciare traccia, ma coloro che lo avevano servito, in Oriente come in Occidente, erano rimasti al potere». Qualcuno dirà: «Cosa ci si vuol far credere? Gorbacev era davvero diverso dagli altri». Bisognerà allora replicare ricordando che il «moderato» Gorbacev aveva diretto il partito da molti anni, approvando e sottoscrivendo internamenti di dissidenti, fornitura di armi alla guerriglia, assassini politici, immiserimento di intere popolazioni, e invasioni come quella dell'Afghanistan.
Ma a ciò va aggiunta almeno un'altra osservazione, se si ricorda che perfino la catastrofe di Chernobyl non venne ascritta a Gorbacev, ma a tutti gli altri paesi che possedevano centrali nucleare, come l'Italia. San Gorbacev non risultò coinvolto, pur avendo dato personalmente l'ordine di non diffondere la notizia del contaminamento nucleare in atto. Centinaia di milioni di persone uscirono tranquillamente per alcuni giorni, finché finlandesi e svedesi diedero l'allarme, avendo visto alterati i livelli di radioattività nelle loro terre. «Per questo solo fatto, scrive Bukovskij, qualsiasi altro politico sarebbe stato maledetto dall'opinione pubblica... Proviamo solo a immaginare che il presidente degli Usa o il premier britannico si provino a tener nascosta una fuga di radiazioni da una centrale atomica». Così un uomo già segretario del Comitato centrale del Pcus nel 1978 e poi membro permanente del Politburò rimase un santo intoccabile, tanto che ancora un mese fa in Italia abbiamo potuto assistere a una sua lunga intervista in ginocchio, tenuta dal presentatore Fabio Fazio nella sua trasmissione su RaiTre (Che tempo che fa). Anche Raissa, moglie di Gorby, venne deificata: «Si provvide a far sapere con sollecitudine che si trattava di una moglie "moderna", "filo-occidentale", un "filosofo" (in realtà aveva insegnato marxismo-leninismo). L'entusiasmo salì alle stelle quando la signora, in visita a Parigi, passò molto tempo nei negozi e acquistò gioielli da Cartier pagando con una carta di credito American Express. Proprio in quei giorni gli stessi giornali bollavano intanto la moglie del dittatore filippino Marcos che... acquistava abiti e migliaia di paia di scarpe». ...Si trattava di una campagna di disinformazione che toccò il suo culmine al vertice di Reikjavik sul disarmo, inscenato «come un vero e proprio psicodramma». Il fatto è che il disarmo serviva all'Urss per non soccombere economicamente, e ormai non c'era più nulla di drammatico se non la condizione dei cittadini nei paesi dell'Est.
Al gioco «buonista» partecipava una parte del governo americano, attraverso James Baker, segretario di Stato con Bush senior. Baker, attualmente tornato in auge con la commissione bipartizan del Congresso Usa sull'Iraq, fu tra i fautori del rallentamento della riunificazione delle due Germanie. Baker non capiva che la nuova dottrina predicata da Gorbacev, di una «casa comune europea» era pericolosa. Per fortuna, nonostante le pressioni del segretario di Stato Usa e di tutto il mondo, i tedeschi dell'est scelsero la riunificazione immediata. Solo così si evitò, scrive Bukovskij, un disastro immane, che evitò la realizzazione di «...un'Europa socialista unita e controllata da Mosca». In realtà qualcosa di simile è avvenuto, dal momento che i princìpi di Gorbacev permeano ancora oggi la dottrina politica di gran parte dei politici europei.
Per fortuna quella che allora venne chiamata «dottrina Baker» finì alle ortiche. Precisa Bukovskij: «Ricordo di aver proposto in una mia conferenza l'introduzione di un'unità di misura della sconsideratezza politica come "un Baker"». Persino al culmine del sanguinoso spettacolo di Bucarest del Natale 1989 Baker dichiarò che avrebbe accolto «con comprensione l'invio di truppe sovietiche in Romania per aiutare i nemici insorti di Ceausescu». Negli scorsi decenni, come ora, gli eredi della «glasnost» europei si sono accreditati come «salvatori dell'umanità», in quanto intermediari tra Occidente e Oriente (prima quello sovietico, e ora quello dell'islam politico). Nell'Italia prodiana e nell'Europa di Chirac e Zapatero si impone la «Terza via», il destreggiamento tra gli estremi del libero mercato e del comunismo. Ma la Terza via non è né carne né pesce, è solo un gigantesco passo indietro: non a caso i suoi risultati economici si limitano a una gestione del potere che deprime lo sviluppo e non garantisce un welfare decoroso.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Viaggio al centro dello spreco.
In Emilia Romagna il Consiglio regionale batte giunta 42 grandi viaggi a 22 in tre anni. Stando alle comunicazioni ufficiali i consiglieri si muovono molto più degli assessori. Neanche gli emiliani si perdono mai un Columbus Day. Spesso viaggiano per scopi non proprio fondamentali. Per esempio a marzo e poi ad aprile 2004 il consigliere Renato Del Chiappo (PRC) prima vola a Londra e poi a Zurigo per il 29° anniversario della Fondazione associazione parmigiani di Valtaro. Dal 10 al 21 luglio dello stesso anno il vicepresidente Giorgio Dragotto (FORZA ITALIA) e due consiglieri vanno in Paraguay, Uruguay e Argentina per partecipare alla Conferenza dei giovani emiliano-romagnoli «sui temi dell'economia, cultura, turismo, informazione e associazionismo». Dal 26 al 2 ottobre il presidente della commissione Turismo, Andrea Gnassi (DS), vola fino nel Quebec e a Montreal per presenziare alle «sedute di lavoro sulle istituzioni parlamentari del Quebec e dell'Italia, immigrazione e integrazione degli immigranti». Nel 2005 lo stesso Gnassi va una settimana ad aprile a Miami al festival del fitness per «verificare i futuri sviluppi dell'evento e dell'impatto estero del festival che deriva dal festival di Rimini».
pubblicato da Panorama

Anonimo ha detto...

per non parlare della Sicilia

Anonimo ha detto...

Provate a dare un'occhiata a quello che succede nel Veneto di Galan

Anonimo ha detto...

della sala... da pranzo