Antonio Di Pietro è un uomo coerente, con il proprio tornaconto quale unica stella che lo guida nella vita. L’ordine degli avvocati di Bergamo, che lo ha sospeso per tre mesi, ha preso una decisione sbagliata. Questa storia, a cavallo fra il ridicolo e l’orrido, riassume un pezzo di storia italiana e non risparmia l’ennesimo quadretto del corporativismo autoconservativo. Già, perché il gran (falso) moralizzatore non esita a passare sui cadaveri, pur di esibirsi, e l’ordine degli avvocati avrebbe dovuto buttarlo fuori, non fargli totò sulla manina.
Il fatto è grottescamente semplice: un carissimo amico dell’onorevole Di Pietro ha ammazzato la moglie e l’ex pubblico ministero più acclamato d’Italia, ora avvocato, è corso a difenderlo. Tutto bene, perché anche il peggiore dei criminali ha diritto ad essere difeso e ad avere un regolare processo. Che tali principi potessero essere incarnati da Di Pietro, sarebbe stata la dimostrazione che le vie della giustizia sono realmente infinite. Ma non è andata così. Più che da avvocato si comportò da amico, annunciandone l’innocenza ed ospitandolo in casa. Il rapporto era solido, la confidenza totale, e, del resto, il segreto professionale suggerisce che né al medico né all’avvocato è saggio mentire. Il presunto omicida, insomma, si confidò. Non è dato sapere l’esatto perché, ma sta di fatto che dopo avere conosciuto la verità fornita dall’amico, Di Pietro abbandonò la difesa. Non è bello, però può capitare. Ma il nostro prode giustiziere fece di più, passando al tavolo dell’accusa, indossando la toga della parte civile e fornendo indicazioni utili ad ottenere la condanna dell’imputato. Che, difatti, si ritrova con 21 anni da scontare.
Se si deve usare il metro dell’amicizia, lascio a ciascuno di voi di trovare l’aggettivo appropriato per qualificare una simile condotta. Potete indicarne anche più di uno. Io rinuncio, e non per timore di querela, ma perché l’accaduto mi pare inqualificabile. Dal punto di vista professionale, però, mi domando quand’è che l’ordine degli avvocati decide di prendere un collega e restituirlo ai trattori ed ai seggi parlamentari, due attività per le quali non è indispensabile la buona fede. I signori avvocati sono pronti a far cenni d’approvazione quando raccontiamo le scostumate assoluzione che il Consiglio Superiore della Magistratura riserva a magistrati meritevoli di radiazione con disonore, ma poi tendono ad essere assai indulgenti con soggetti analoghi, ma della loro parte. L’albo serve per tutelare i cittadini dall’incontrare gente disposta a venderli e tradirli. Se l’albo fallisce, meglio cancellarlo, e come difensore mi prendo chi mi pare, non un collega di certa gente. Gli avvocati sono assai pronti nel difendere le tariffe minime, cerchino di non assopirsi quando si tratta di garantire un minimo di serietà.
In quanto a Di Pietro, ribadisco: è un uomo coerente. Faceva bisbocce con gli amministratori comunali della Milano da bere. In un suo libro l’ex sindaco meneghino, Paolo Pillitteri, ne racconta di belle. Accettava ben volentieri di avere a disposizione un appartamento dove continuare le feste, senza settimanali interessati a raccontarne le prodezze. Prendeva Mercedes in sostanziale regalo, così come prestiti assai consistenti, che restituiva in contanti ed in scatole da scarpe. Accettava favori per la moglie (la seconda), anch’ella avvocato e destinataria di cause non proprio spontaneamente affidatele. E che ha fatto, il nostro (falso) moralizzatore, di tutti questi benefattori? Li ha portati sul banco degli accusati, contestando loro i reati che non riconosceva in se stesso. Secondo lui ciò dimostra indipendenza. Secondo me una certa disinvoltura. E’ un peccato che il suo amico uxoricida non avesse capito. E’ incredibile che, ancora oggi, sia la sinistra a non capire.
Ah, dimenticavo: alla ricerca di palcoscenici estivi, con sempre maggiore coerenza giustizialista (che è il contrario della giustizia), il parlamentare utilizzatore d’idioma oscuro e guttufacciale ha provato a fare un girotondo attorno al Quirinale. Megalomane com’è avrebbe raccontato d’averlo circondato, se non fosse che è stato disperso ed allontanato, come un qualsiasi disturbatore della quiete pubblica. State certi che tornerà a farsi sentire, se solo riuscirà a trovare le parole in lingua italica.
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Tradì l’amico-cliente: sospeso l’avvocato Di Pietro
La storia, da mettere paura quanto a cinismo e freddezza, è quella di un’amicizia tradita, di un clamoroso voltafaccia nel contesto angosciante di un uxoricidio. Protagonista, manco a dirlo, è Antonio Di Pietro, a quel tempo avvocato (gli ex magistrati sono iscritti d’ufficio all’albo), compagno di infanzia di Pasqualino Cianci, accusato nel 2002 di aver ucciso la moglie Giuliana D’Ascenzo. Diremo subito che per questa storiaccia Antonio Di Pietro è stato sospeso dall’Ordine degli avvocati, con sentenza divenuta esecutiva pochi giorni fa (sospeso per tre mesi, fino al 15 ottobre), causa «violazione del codice deontologico» degli avvocati. Perché questa punizione? La scorrettezza di Di Pietro, riconosciuta dall’Ordine, risale a quel 2002. L’avvocato Tonino, una volta saputo del guaio in cui si era ficcato l’amico Pasqualino, si propose subito di prenderne le difese. Si mobilitò da Milano, ospitò addirittura l’amico in casa per diversi giorni, come un vero fratello, un compagno con cui aveva condiviso la giovinezza a Montenero di Bisaccia. Giusto il tempo però di informarsi, compiendo le rituali indagini difensive, e voltare la faccia all’amico (e cliente), passando dalla parte degli accusatori. Di Pietro si era convinto, grazie alle informazioni che aveva potuto recuperare nelle vesti di difensore, della debolezza della posizione di Cianci. A quel punto avrebbe potuto revocare il proprio incarico, lasciare la difesa a qualcun altro e sperare in un colpo di fortuna per l’amico finito in una così brutta situazione. Ma il bello - ed è questo il motivo della condanna da parte dell’Ordine degli avvocati di Bergamo, cui è iscritto Di Pietro - è che una volta convintosi che Cianci era spacciato, Tonino non si limita a declinare la difesa, ma passa proprio dall’altra parte, come parte civile che sostiene l’accusa. Di Pietro anzi gioca un ruolo determinante nell’accusa, suggerisce ai magistrati alcune piste per inchiodare il suo ex amico, chiede di acquisire documenti specifici che si trovavano nell’abitazione della defunta e di Pasqualino Cianci. Si convince che «c’è dell’altro che bolle in pentola» come scriverà poi in una imbarazzata lettera ai figli di Pasqualino Cianci. Di Pietro ha notizia di «operazioni economiche internazionali poste in essere da vostro padre», e suggerisce all’accusa di indagare presso certi istituti di credito. Veste i panni di avvocato, come ora quelli di politico, ma ragiona ancora come un pm.
L’opera di Di Pietro si compie poco tempo dopo: il 16 aprile 2002 l’ex amico Cianci viene arrestato e poi, in primo grado, condannato a 21 anni per uxoricidio. Cianci non ha mai perdonato a Di Pietro quel voltafaccia. Una questione di coscienza, ma anche di deontologia. C’è un articolo del codice degli avvocati che vieta «l’assunzione di incarico nei confronti di ex clienti». All’ex avvocato e pm, il presidente e il segretario dell’Ordine di Bergamo contestano non poco, «la violazione di doveri di lealtà, correttezza e fedeltà» nei confronti della parte assistita. Non male per un campione di rettitudine.
Avvocati, l'Ordine sospende Di Pietro
Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica
Tre mesi di sospensione per l’avvocato Antonio Di Pietro. L’ex pm di Mani Pulite si è visto confermare dal Consiglio nazionale forense la «sanzione» del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bergamo che aveva già stigmatizzato il «doppio ruolo» ricoperto nei confronti di un amico di Montenero coinvolto in un omicidio: prima il neo avvocato ne prese le difese, poi passò tra le parti civili che sostenevano la tesi dell’accusa. Una cosa che non si fa: «La condotta del professionista - si legge nelle motivazioni della decisione - integra certamente la violazione dei doveri di lealtà, correttezza e di fedeltà (articolo 5, 6, 7 del codice deontologico forense) nei confronti della parte assistita e integra altresì l’illecito deontologico». A seguito degli accertamenti svolti, e della sussistenza degli illeciti contestati, «non può che conseguire la sanzione disciplinare». Calcolata in tre mesi di sospensione dell’esercizio della funzione di avvocato in quanto «adeguata alla gravità dell’illecito compiuto».
La storia è alquanto intricata. Pasqualino Cianci, amico d’infanzia di Tonino, l’8 marzo 2002 viene trovato ferito nella sua casa di Montenero di Bisaccia accanto al corpo senza vita della moglie, Giuliana. Mentre era in ospedale, Di Pietro, accorso da Milano, ne assume la difesa. Dopodiché l’ex pm lo ospita personalmente a casa per alcuni giorni. Trascorsa una settimana il colpo di scena: Di Pietro rinuncia all’incarico non appena ha «sentore» che l’amico potrebbe finire indagato, come di lì a poco effettivamente avviene. E alla prima udienza in Corte d’assise Cianci, ormai imputato, si ritrova l’amico del cuore - quello con cui aveva diviso il seminario, le feste comandate e le ferie - dall’altra parte della barricata.
A quel punto, incredulo e un po’ meno amico di prima, Cianci presenta un esposto all’Ordine di Bergamo per infedele patrocinio. Esposto che viene accolto, in gran parte, e tradotto nella sanzione disciplinare di tre mesi. Di Pietro si difende. Sostiene di non avere mai difeso Cianci in qualità di imputato. Nega qualsiasi conflitto di interesse. Afferma d’aver ricevuto una sorta di «mandato collettivo» dalle parti civili e di aver rinunciato alla difesa dell’amico quando era ancora parte lesa. L’appello, però, gli dà torto: per 90 giorni non può fare l’avvocato. Il Consiglio nazionale scagliona cronologicamente gli eventi che inchiodano l’«avvocato Di Pietro» a un comportamento non corretto. Una condotta «che integra certamente la violazione di doveri di lealtà, correttezza e fedeltà nei confronti della parte assistita - si legge nelle motivazioni della decisione - e integra altresì l’illecito previsto dall’articolo 51 del codice deontologico forense». Una norma che fa espresso divieto al legale di «assumere incarico contro un ex cliente, in particolare quando il nuovo incarico è inerente lo stesso procedimento nel quale è stato espletato l’incarico precedente».
Il Consiglio arriva a sanzionare il Tonino nazionale ripercorrendo le sue stesse azioni: l’assunzione del mandato di difensore il giorno dell’omicidio, l’incarico di carattere medico legale conferito al consulente Armando Colagreco, l’interrogatorio - come indagini difensive - del testimone Antonio Sparvieri (consuocero di Pasqualino Cianci). Dopodiché, a sorpresa, «il 19 marzo 2002, l’avvocato Di Pietro, quale avvocato difensore dei familiari della signora D’Ascenzio, depositava agli atti del procedimento penale una memoria difensiva mediante la quale, dando atto della nomina di un nuovo difensore di Pasqualino Cianci a seguito di contestuale sua rinuncia di mandato (Cianci dice di non aver firmato alcuna revoca, ndr) dimetteva copia dell’atto di nomina del nuovo difensore e le dichiarazioni a lui rese dal testimone Sparvieri». Con lo stesso atto, osserva il Consiglio nazionale forense, Di Pietro «chiedeva che fossero acquisiti alcuni documenti specifici che si trovavano presso l’abitazione della defunta e del suo precedente assistito Pasqualino Cianci e che fossero svolte presso istituti di credito e nei confronti di privati, nuove indagini in relazione ai rapporti economici da questi intrattenuti con Pasqualino Cianci». Qualche tempo dopo – chiosa il documento disciplinare – Pasqualino Cianci «era iscritto nel registro degli indagati e il 16 aprile 2002 tratto in arresto». In primo grado Cianci (che urla la sua innocenza) è stato condannato a 21 anni per uxoricidio.
Nessuno ha capito quant'è pericoloso Tonino
Antonio Di Pietro fa sul serio e sarebbe ora che destra e sinistra capissero bene che cosa sta facendo, dove punta, a spese di chi, quanto è pericoloso. Di Pietro non è una variabile eternamente indipendente, i voti non gli crollano addosso solo per cedimento strutturale altrui o per fatalità antipolitiche legate a processi più ampi: non è un soggetto passivo, Di Pietro, è uno che si alza alle cinque del mattino dai tempi in cui mungeva le mucche e che ora sta mungendo altrove. I lettori di questo giornale sono informati più di altri circa le centinaia di cialtronate, incoerenze, familismi e demagogie da strapazzo che il nostro succhia e sparge all'apparenza senza un senso: ma si saranno pur chiesti per quale ragione la somma di ciò alla fine è un otto per cento alle Europee. Di Pietro era sparito per qualche giorno per riassettarsi in attesa delle sue venture trasformazioni settembrine e dopo il successo del 7 giugno, altro dato che tutti avevano previsto da almeno un anno e avevano vissuto come il moto dei pianeti. A dispetto di ogni tentazione, il gossip politico non era roba sua: Di Pietro sa che a larga parte degli elettori a cui punta non importa nulla degli scandali sessuali, non spostano voti. Al suo conservatorismo naturale, al di là delle pagliacciate parlamentari di ieri, importa zero anche di gridare alle «leggi razziali» come stanno facendo le truppe di Micromega: il tema è tra i pochi sul quale Tonino una coerenza l’ha mantenuta, nel 2001 propose che la clandestinità costituisse reato (sino a tre anni di carcere per direttissima) ed era favorevole anche alla schedatura dei rom. Si oppose anche al voto degli immigrati alle primarie dell'Unione. La legge Turco-Napolitano a suo dire era «troppo permissiva», perché il rimpatrio doveva aver luogo entro ventiquattr’ore. Si potrebbe riempire questa pagina citando date e luoghi in cui si espresse chiaramente, a partire da quando scrisse che certe bande di clandestini «meriterebbero non la galera, ma il taglio degli attributi». L’assalto al giudice costituzionale è già molto più funzionale al suo disegno, che è quello di rendere permanente ogni conflitto istituzionale tra magistratura e politica impersonando questo contrasto ed ergendosi a presidio di questa democrazia imperfetta e disinformata, plagiata da Berlusconi, corrotta da tutto ciò che impedisce al corpo elettorale di non continuare a sbagliarsi. Per questo soffia su ogni fuoco e cerca di rendere permanente una crisi che solo un grande gendarme potrebbe riordinare. Ma queste sono masturbazioni mentali, se non c’è la sostanza. Quella in compenso è in due ricerche della Ipso e della Ipr marketing, e dice questo: il 30 per cento degli italiani approvò il Di Pietro spaccatutto del luglio 2008 a Piazza Navona, una «prateria immensa» come la definisce il suo intellettuale di riferimento Pino Pisicchio; prima di giugno la popolarità di Di Pietro era al 48 per cento contro un 50 di Berlusconi e un 30 di Veltroni; i flussi di entrata del consenso già prima di giugno riguardavano circa un 50 per cento dei voti smembrati dal Partito democratico, il 20 per cento dalla Lega, quasi il 18 dall’Udc, non più del 14 per cento dalla sinistra antagonista. Secondo la Ipr, solo una percentuale oscillante tra il 5 e il 10 per cento percepisce la collocazione dell’Italia dei Valori come propriamente a sinistra;
da un 15 a un 25 per cento invece la immagina nel centrosinistra, mentre nel centrodestra la immagina un arco tra il 10 e il 15 per cento; solo un 5 per cento, infine, la immagina a destra. Non fosse chiaro, Di Pietro punta al centro. L’Italia dei Valori è un partito di centro la cui espansione elettorale nell’area moderata è stata valutata sino al 30 per cento, questo prima che raddoppiasse o quadruplicasse i voti alle Europee; prima cioè di un eventuale effetto trascinamento, prima che un neo conformismo possa farlo diventare, come fu, volano di se stesso. Il centrosinistra Di Pietro lo sta già divorando a porzioni da camionista, ma punta anche a voi che leggete, amici del Giornale: perché già lo sosteneste. È stato il centro del Paese che gli ha consentito di fare Mani pulite e che poi si è stancato e l’ha spinto a dimettersi; solo l’eterno «centro moderato» in Italia, permette paradossalmente di fare la rivoluzione. Parola grossa? Lui ne ha già fatta una.
L'articolo di Filippo Facci sul Giornale: "Tutto quello che Di Pietro non dice sulle sue case"
"Anche da spiantato, Antonio Di Pietro ha sempre avuto un debole per case e casette. Il problema è chi fosse a pagarle. L’allora magistrato, dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Novanta, giostrava tra quattro o cinque domicili: il primo lo pagava la moglie, ed era il cascinale di Curno; un secondo lo pagava una banca, ed era l’appartamento di Milano dietro piazza della Scala, affittato a equo canone dal Fondo Pensioni Cariplo; un terzo lo pagava l’ex suo inquisito Antonio D’Adamo, che gli mise a disposizione una garçonnière dietro piazza Duomo fino al 1994; un quarto appartamento, a Curno, a fianco al suo, lo stava finalmente pagando lui: ma coi famosi 100 milioni «prestati» dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini. Ci sarebbe un quinto domicilio, a esser precisi: Antonio D’Adamo, che al pari di Gorrini gli prestò altri cento milioni, gli mise a disposizione anche una suite da 5-6 milioni al mese al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto: questo dal 1989 e per almeno un anno e mezzo. Quest’ultimo fa parte del pacchetto di sterminati favori (soldi, auto per sé e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impiego per il figlio, vestiario di lusso, telefono cellulare, biglietti aerei, ombrelli, agende, penne, stock di calzettoni al ginocchio) che il duo D’Adamo-Gorrini ebbe a favorirgli via via; nulla di penalmente rilevante, sentenziò incredibilmente la Procura di Brescia una decina di anni fa: comportamenti che tuttavia avrebbero senz’altro portato a delle sanzioni disciplinari se Di Pietro non si fosse dimesso da magistrato. A esser precisi: «Fatti specifici che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare», recita una sentenza di tribunale, rimasta insuperata, in data 29 gennaio 1998": inizia così l'articolo di Filippo Facci pubblicato oggi su Il Giornale, nel quale si parla della passione di Antonio Di Pietro, leader dell'Italia dei Valori, per le case.
"Ma anche i retroscena di acquisti immobiliari all’apparenza normali - continua Facci -, come quello della casa di Curno dove l’ex magistrato risiede tuttora, rivelano come Di Pietro fosse già Di Pietro. Un salto all’indietro ed eccoci al tardo 1984. A Curno, in via Lungobrembo, zona Marigolda, Di Pietro aveva adocchiato un immobile diroccato: una volta risistemato, lui e la sua futura seconda moglie, Susanna Mazzoleni, avrebbero potuto viverci assieme. Fu lei a contattare il proprietario, Leone Zanchi, un contadino che di quel rudere non sapeva che farsene; ogni intervento diverso dalla cosiddetta «manutenzione straordinaria», infatti, gli era proibito dal piano regolatore. Accettò dunque di vendere il casolare per trentacinque milioni, e il 17 aprile 1985 Susanna Mazzoleni ereditò la concessione edilizia richiesta dallo Zanchi pochi giorni prima, come detto una «manutenzione straordinaria»".
"La provvidenza farà il resto. La cascina verrà sventrata, ugualmente, dopo l’accidentale crollo di un muro che nottetempo trascinerà con sé tutta la casa. Questo, almeno, scrisse l’architetto Angelo Gotti in data 7 maggio, giorno seguente all’inizio dei lavori che curava personalmente. «Del vecchio fabbricato», notarono due periti comunali, «è rimasto solo il muro a est, la restante parte non c’è più». Susanna Mazzoleni sarà quindi costretta a chiedere di ricostruire tutta la cascina come Zanchi non aveva potuto fare. La provvidenza, appunto. Va da sé che l’ex proprietario andò fuori dalla grazia di Dio, e cominciò a piantar grane tirando in ballo anche Di Pietro. Sulla scrivania dell’assessore competente, Roberto Arnoldi, si materializzò un esposto anonimo di cui non venne fatta copia, né venne passato alle autorità, né finì nel cestino: Arnoldi lo spedì direttamente ai coniugi Di Pietro. Non solo. Arnoldi si fece stranamente attivo e preparò una missiva diretta ai gruppi consiliari, liquidando l’ex proprietario come un beota e parlando di «strumentalizzazione» ai danni del magistrato. Scrisse il 22 maggio: «Di Pietro non risulta tra gli interessati alla concessione, né legato agli stessi da vincoli di parentela». Una bella forzatura, visto che Di Pietro in quella casa andrà a viverci col figlio e con la futura moglie".
"Ma i particolari curiosi sono altri. Il primo - si legge sempre sul Giornale - si ricava dalla missiva di Arnoldi: non è lui, infatti, a scriverla, bensì è direttamente l’architetto Angelo Gotti, teste di parte e incaricato dalla Mazzoleni di ristrutturare il cascinale. Assurdo. «Caro Arnoldi», rivela difatti una nota erroneamente dimenticata, «ti trasmetto copia della risposta all’anonimo... non avendo gli esatti indirizzi, ho ritenuto opportuno impostare la risposta in modo tale che tu debba solo far preparare la prima pagina». Fantastico. Secondo particolare curioso: il nome di Arnoldi forse a qualcuno suonerà familiare, perché nel 1997 diventerà capo di gabinetto dei Lavori pubblici presieduti da Di Pietro. Trattasi di «quel certo Arnoldi», come lo definì l’ex magistrato Mario Cicala, di cui Arnoldi oltretutto prese il posto, che per qualche tempo fu anche una sorta di portavoce di Antonio Di Pietro nei rapporti con la stampa".
"Ma torniamo al casolare. Era passato un po’ di tempo e l’avvocato Mario Benedetti, richiesto di un parere, si dichiarò favorevole alla variante chiesta da Susanna Mazzoleni: purché rispettasse le volumetrie preesistenti. Bocciò, invece, la pretesa costruzione di una serie di garage e lasciò intravedere, comunque fosse andata, la possibilità di una sanatoria edilizia. I lavori proseguirono a dispetto di qualche rogna. Il sindaco di Curno, Franco Gasperini, si ritrovò due rapporti (16 e 19 dicembre 1988) dove si rilevava «una baracca di legno alta tre metri e mezzo senza autorizzazione del sindaco, d’altra parte mai richiesta». È il capanno degli attrezzi già caro a Tonino Di Pietro, una sorta di leggenda dei tempi di Mani pulite. Il sindaco a quel punto chiese di consultare la «pratica Mazzoleni-Di Pietro», ma «nella ricerca si verificava che era stata fatta un’ulteriore richiesta, del proprietario, di una piscina», scrisse il 30 dicembre, «ma tale fascicolo non veniva ritrovato». Il rapporto di un agente spiegava che risultava «asportato o trafugato». È tutto nero su bianco."Ma Di Pietro è Di Pietro. Il 3 gennaio 1989 intervenne con una lettera delle sue: «Non ho mai intrattenuto rapporti con alcuno dell’amministrazione comunale... Invito a voler evitare di considerarmi inopinatamente parte in causa... sono venuto a conoscenza che il predetto Zanchi avrebbe riportato frasi calunniose nei miei confronti... sono a richiedervi copia dell’esposto al fine di provvedere a tutelare la mia onorabilità nelle sedi più opportune». Querelava anche allora. E spiegava di non conoscere l’assessore Roberto Arnoldi: anche se nel 1996 lo sceglierà come suo capo di Gabinetto ai Lavori Pubblici".
"I documenti scomparsi comunque riapparvero improvvisamente, anche se una nuova perizia, purtroppo, confermava «una costruzione in legno con caratteristiche strutturali tali da violare le norme». Il 25 gennaio venne chiamato a esprimersi un altro avvocato, Riccardo Olivati: dichiarò «sconcerto» per le «sparizioni strane e riapparizioni magiche di documenti» e definì la citata lettera di Arnoldi (quella in realtà fatta scrivere all’architetto Gotti) come «prassi da non ripetere per evitare sospetti di parzialità». E Di Pietro? C’entrava qualcosa? Olivati scrisse che andava eventualmente «segnalato all’autorità giudiziaria», spiegò, solo se «risultasse con prova certa... ha contribuito alla costruzione materiale del manufatto». Il capanno di legno, cioè".
"Costruzione «materiale» del capanno di legno. Per fortuna che non era ancora uscita un’agiografia su Di Pietro del 1992, perché vi si legge proprio questo: «Nella villetta dove abita, a Curno, fin dall’inizio ha progettato e poi realizzato con le proprie mani un capanno degli attrezzi che è il suo regno assoluto e intoccabile». Per la cronaca: la villetta ha due piani, otto stanze e una taverna".
Ma Di Pietro resta incivile
Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto sono ben strani anche loro: il capo dello Stato aveva appena invitato a un clima più disteso e civile, ieri, e dopo neanche un secondo avevano già dichiarato che il problema è solo dell’opposizione, chiusa lì, come se l’attribuzione all’altro di tutte le colpe fosse un possibile preludio a qualsiasi forma di dialogo. Dall’altra parte, per fermarsi alle persone che contano qualcosa, il senatore del Pd Nicola La Torre intanto faceva la stessa identica cosa: spiegava che l’appello di Napolitano riguardava solo la maggioranza di governo e insomma daccapo, pari patta.
Ora: è quasi un’offesa all’intelligenza dover ricordare che certe posture fanno parte del problema e non della soluzione, ed è pura pedagogia politica dover ribadire che certe cose non andrebbero dette neppure se le si pensasse davvero: questo sempre che il dialogo interessi sul serio, ovvio, perché se non interessa basta dirlo e si saprà come continuare a chiamare le dichiarazioni che destra e sinistra si scambiano a centinaia ogni giorno: propaganda. E pure noiosa.
Non stupirà, dato il clima, se intanto andassimo a farci un bagno. L’importanza del pulpito, per il resto, non rende meno sfibrato un auspicio che è sempre lo stesso ormai da quindici anni: che le riforme necessarie al Paese siano ampiamente condivise, ossia, e che la cattiva congiuntura economica renda preziosa un’ampia unità d’intenti. Parole ormai recitate a memoria: c’è qualcuno che non le avrebbe sapute dire? C’è qualcuno che non se ne ricordava? Ecco perché resta una sola cosa da fare, dopo tutti questi anni: la conta di chi sia realmente interessato e chi no, da una parte, e un censimento definitivo, in parallelo, di chi gioca soltanto al tanto peggio-tanto meglio e manderebbe il malora il Paese per mezzo voto. Il presidente della Repubblica l’ha detto: una contrapposizione politica meno cruenta non significa rinunciare a tener ferme le proprie posizioni. Il che significa, visto di spalle, che se l’ampia condivisione non fosse ampia, be’, le riforme qualcuno cercherà di farle lo stesso, e questo per la semplice ragione che è titolato a farlo.
Si vuole riconoscere questo diritto? O si vuole auspicare il dialogo e gridare al golpe se il dialogo non riesce? La divisione non è più tra maggioranza e opposizione, nell’anno di grazia 2009: l’autentico e vero arco costituzionale, oggi, divide chi crede che il Parlamento sia legittimato e chi invece no; divide chi crede che il Paese un Parlamento bene o male ce l’abbia - magari con una affievolita centralità: mi ci metto anch’io - e chi invece parla di dittatura; divide chi pensa che sia comunque una democrazia, la nostra, e chi invita semplicemente a non crederci, perché è tutto un inganno, una cospirazione, una corruzione.
Non si tratta di compilare pagelline: non abbiamo ancora fatto un solo nome ma è come se i profili si fossero stagliati da soli. Chi rema contro il dialogo sta a destra come a sinistra, chi più e chi meno, può essere: ma sicuramente non è il centrodestra a essersi imparentato con un personaggio squallido come Di Pietro alle scorse elezioni, tra l’altro senza segni di apparente resipiscenza. Non è il centrodestra ad aver ammiccato, pur a singhiozzo, a vittorie elettorali basate sul plagio e sulla corruzione delle menti. Meglio essere estremamente chiari, dunque: liberarsi di ogni ambiguità nei confronti di uno squallido parente non è soltanto il requisito minimo per ogni dialogo, occorre riconoscere una volta per tutte che Antonio Di Pietro non è più un interlocutore politico a prescindere.
La politica di Grillo & di governo è finita, e il Pd, nel caso, ha da chiarire ogni ambiguità: non c’è neppure da parlare con chi soffia su ogni fuoco, tifa terremoto, sputtana il Paese, cerca di rendere permanente ogni conflitto ergendosi a grande gendarme, a presidio antidemocratico: vada fuori dal Parlamento, se proprio non ci crede. Antonio Di Pietro, dopo aver associato un uomo votato da più di metà del Paese a Hitler e all’antisemitismo, e poi a Dracula, a Videla e a Nerone, là fuori qualcuno disposto a prenderlo a calci nel sedere lo trova di sicuro.
Toh, in Molise Di Pietro è alleato con l’odiato Pdl
In Molise, sorta di estesa Ceppaloni di Antonio Di Pietro, accadono cose incredibili che meriterebbero delle precise risposte da parte dei vertici del Popolo della Libertà. Sono cose che da quelle parti sono notorie, ma il resto del Paese le ignora. Prima domanda, subito: è concepibile che ci sia per esempio un’amministrazione, Città di Venafro, in cui il Pdl e l’Italia dei Valori governano insieme? Non per modo di dire: parliamo proprio di sindaco e assessori. Seconda domanda: è normale che la società «Autostrade del Molise» abbia un’esclusiva spartizione di poltrone tra Antonio Di Pietro e Michele Iorio, leader locale del Pdl? La terza domanda è di conseguenza: per quanto ancora sarà consentito che Michele Iorio, rieletto presidente della Regione, si faccia gli affari propri in spregio alla politica nazionale del maggior partito italiano?
Cominciamo da Città di Venafro, allora. È un centro importante della regione anche se è il meno Molisano di tutti: dista una novantina di chilometri da Napoli, è appiccicato alla Campania e di cognome fanno quasi tutti Cotugno. Non me ne vogliano gli abitanti, ma è un posto orribile gestito dal ras politico Nicandro Ottaviano (meriterebbe un libro solo lui, ora comunque è nel partito di Di Pietro) e da quelle parti è normalissimo che i sindaci decadano per incompatibilità ed è normale pure che l’acqua sia gratis (il Comune non riscuote le bollette) ed è acclarato, ancora, che il tasso di abusivismo edilizio farebbe sembrare Alto Adige anche la Calabria. L’operazione politica, alle elezioni amministrative dell’aprile 2008, comunque è stata questa: per far fuori ogni concorrenza interna - questa la principale attività politica di Michele Iorio da lustri interi - il presidente della Regione, Iorio appunto, ha favorito la spaccatura del centrodestra e ha favorito la nascita di «Venafro sarà», un’incredibile lista-minestrone da contrapporre a quella dell’europarlamentare di centrodestra Aldo Patricello. Nella lista di Iorio, che lui personalmente presentò ufficialmente il 27 marzo 2008, si mettevano insieme uomini di Forza Italia, di Alleanza nazionale, dell’Italia dei Valori e altre forze minori: il problema è che Iorio era il leader del futuro Pdl, non di una lista civica da contrapporre ad altri candidati di centrodestra.
Risultato: la lista di Iorio ha vinto, ma piuttosto che allearsi con la lista di Patricello, che è uomo di centrodestra con un certo ruolo anche a livello nazionale, ha preferito proseguire il grande abbraccio che in Molise segna i rapporti tra Iorio e Antonio Di Pietro. Ergo: sindaco è diventato Nicandro Cotugno del Pdl che è subentrato così all’ex primo cittadino Vincenzo Cotugno, ineleggibile per una pronuncia giudiziaria; assessore al commercio invece è diventato Adriano Iannaccone dell’Italia dei Valori: presidente del consiglio comunale è infine divenuto Nico Palumbo, dell’Italia dei Valori pure lui. Il grande gelo di Berlusconi nei confronti del Presidente della Regione, Iorio, nasce da qui: ne ha ben dato testimonianza primapaginamolise.it, quotidiano online che da tempo ha rotto ogni equilibrio informativo e ha gettato nel panico politici e amministratori locali. In tutto questo non abbiamo neanche nominato il Partito democratico, che in teoria sin dal 2008 era già apparentato con l'Italia dei Valori ma che Di Pietro stesso ha regolarmente tagliato fuori da tutto: lo spiega bene anche la vicenda della società «Autostrade del Molise». In scia all’allucinazione di costruire appunto un’autostrada da tre miliardi di euro in Molise, infatti, il ministero delle Infrastrutture guidato da Di Pietro spartì col governatore forzista Michele Iorio ogni posto disponibile nell’organigramma: la presidenza e metà consiglio di amministrazione andarono a uomini di Iorio, l’altra metà a uomini di Tonino. È pur vero che Di Pietro, per l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano, aveva trovato un accordo temporaneo anche col governatore della Lombardia Roberto Formigoni: la differenza è che in Molise il rapporto con Iorio è stretto e fisiologico e appunto societario, tanto che non si contano, al riparo dalla stampa nazionale, le manifestazioni di reciproco e ormai consolidato elogio. Non fosse una parola inservibile, diremmo che tra i due è in atto un inciucio clamoroso.Ne discendono altre due inquietanti domande. Una, più ingenua, è questa: che coerenza c’è tra il Pdl che governa il Paese e il suo rapportarsi con una forza politica che ogni giorno paventa dittature e fine della democrazia? Non lo chiediamo a Di Pietro, il cui doppiogiochismo conosciamo da una vita: lo chiediamo al Pdl. Anche perché c’è una seconda domanda, poi, che dovrebbe interessare anche i politici di secondo pelo: ci si è accorti di quanti voti il Pdl ha perso per via degli inciuci di Iorio? Forse la memoria latita, ma il Molise è unica regione italiana che alle politiche del 2008 è passata dal centrodestra al centrosinistra per numero di voti; il Presidente della regione, un ex democristiano convinto che in Molise nulla possa cambiare circa i rapporti familistici e di piccola convenienza che spesso hanno governato il consenso da quelle parti, negli ultimi due anni ha badato a fare campagna elettorale molto più contro i concorrenti di centrodestra che contro l’antagonismo della sinistra. E non si può neanche dire che il passato governo Berlusconi avesse trascurato la Regione, visto che portano la sua firma per esempio i decreti sui fondi post terremoto. La struttura del neonato Pdl, forse, potrebbe cominciare a muoversi: perché da raccontare ce ne sarebbero davvero tante altre, nella Ceppaloni di Tonino.
L'Italia dei valori autostradali
La prima Pietra dell’autostrada Brescia-Bergamo-Milano (Bre.Be.Mi) è finita anche un po’ in testa ad Antonio Di Pietro: il quale tace, ora, e non rivendica neppure un minimo di paternità dell’operazione. Il perché è chiaro: non ha alcun interesse a far vedere che con il Pdl gli accordi li sa fare benissimo, come in Molise già accade in maniera indecente. Il 29 luglio 2006, appena insediato alle Infrastrutture, disse che l’autostrada non si sarebbe fatta: e la sinistra radicale applaudì. Poi, il 7 maggio 2007, assieme a Roberto Formigoni, firmò un progetto di project financing per la stessa autostrada: e la sinistra radicale lo attaccò. Paolo Brutti, di Sinistra democratica, portavoce della commissione Trasporti del Senato, bocciò l’operazione e scrisse al commissario europeo al Mercato interno: parlò di violazioni e costi gonfiati. Il progetto passò in aula il 18 luglio successivo, grazie ai voti del centrodestra. E Paolo Brutti? Tonino ha risolto come neanche la Dc gavianea: l’ha preso nell’Italia dei Valori. L’ha anche candidato alle Europee: i due hanno posato assieme in quel manifesto con l’enorme scritta «Brutti». Per il resto segnatevi questi nomi: Alessandro Iacorossi, Francesco Mancini, Gaetano Di Niro, Dante Merlonghi e Giampiero De Toni. Sono tutti lottizzati dell’Italia dei Valori che Tonino ha piazzato all’Anas e nelle società autostradali come un qualsiasi partitocrate.
E stavolta Di Pietro evoca persino le Br
La quantità di sciocchezze sparate ogni giorno da Antonio Di Pietro produce un effetto quasi narcotico, un ronzio di fondo, come per una zanzara cui si finge di abituarsi dimenticando che le peggiori pandemie della storia le hanno diffuse proprio i ditteri, i succhiatori di energie altrui. L'abitudine a un personaggio che ci ammorba quotidianamente con le sue tattiche da marciapiede fa dimenticare che una strategia di fondo Di Pietro tuttavia ce l'ha, anche se molti fingono di non vederla: i media danno risalto a ogni sua sparata come se esporla corrispondesse al tempo stesso a una sua relativizzazione, a una forma di controllo, come si fa con un cane che lasci abbaiare perché almeno sai che non ti morderà. Ma è un errore. E pure frequente, in Italia.
Di Pietro è un personaggio che farebbe qualsiasi cosa e che infatti la sta facendo, pur mimetizzato dal suo sciocchezzaio di contorno e dal suo essere tutto e niente: grillino, politico, magistrato, ministro, reazionario di destra, movimentista di sinistra, spregiudicato compilatore di liste locali, tutto. Di Pietro, un passo alla volta e spalleggiato da una discreta compagnia di giro, punta allo sfascio di ogni baluardo di riferimento, all'inasprimento di ogni conflitto istituzionale, alla delegittimazione progressiva degli ultimi basamenti da noi ritenuti intoccabili come la presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale, per fermarsi alle tappe finali. Il resto, ossia le più elementari dinamiche democratiche, cerca di svuotarle di significato da anni: è lui a ergersi a personificazione e presidio del contrasto tra magistratura e politica, è lui ad accodarsi ai balordi che straparlano di dittatura e fine della democrazia (si accoda perché lui non inventa mai: copia, si impossessa, succhia appunto le energie altrui) ed è lui a spiegare che va tutto male, che il peggio è sempre alle porte, che c'è disinformazione e plagio delle coscienze.
Gianni Baget Bozzo, uno dei pochi che comprese da subito, proprio un anno fa su questo giornale scrisse questo: «Che cos’è il partito giustizialista che Di Pietro sta costruendo? È un partito che tende a dimostrare che la democrazia è essenzialmente corrotta e il corpo elettorale sbaglia. Che ci vuole un altro potere per guidare il Paese sulla via della salvezza e che il voto degli elettori deve essere presidiato da un partito dell’ordine. Il tema che lo Stato non possa essere affidato alla democrazia è la tesi fondamentale del pensiero reazionario. Se un popolo sente frustrato il bisogno fondamentale di sicurezza, se non riesce a ottenere con il suo voto ciò che pensa gli sia dovuto, si ha la crisi della democrazia. E Di Pietro mira proprio a questo, a mostrare che un corpo elettorale capace di dare la maggioranza a Berlusconi è un popolo immaturo, il cui voto va corretto in modo adeguato. Bisogna dimostrare che il popolo ha torto e che Berlusconi deve andarsene».
Come? In qualsiasi-modo-possibile. Ecco perché non gli importa niente di sputtanare il Paese con le sue balle puerili sparate sull'Herald Tribune (e pagate da noi) in coincidenza con un momento in cui la parte sana del Paese tifava appunto per il Paese, non per mezzo voto in più da guadagnare tra gli imbecilli. Ed ecco, scusandoci per la lunga premessa, come inquadrare le uscite che Antonio Di Pietro ha fatto anche ieri: dopo quelle dell'altro ieri e prima di quelle di oggi e di domani. Uno sciocchezzaio, cioè, misto a uscite più pericolose. Ha detto: «Credo che potrebbero tornare sia le Br pilotate che quelle non pilotate, entrambe criminali, che vanno combattute... l'Italia dei valori sarà nei consigli di fabbrica e nelle piazze in difesa dei cassintegrati e dei lavoratori... Saremo protagonisti dell’autunno caldo. Parteciperemo direttamente, anche informando laddove la legge in via di approvazione impedisce di informare i cittadini».
Traduzione: io, Antonio Di Pietro, auspico un autunno caldo con tanto di Br da combattere o di cui incolpare il governo piduista, a seconda; sarò perciò nelle fabbriche e cercar di convincere gli astenuti della sinistra radicale che ancora non votano per me, e tutto quello che non quadrerà sarà perché non c'è informazione né democrazia.
Poi, altra uscita di ieri: «Alfano ha trasformato il suo ruolo istituzionale in quello di ministro servente delle posizioni dell’imputato Berlusconi... (questo grazie) al Lodo Alfano, al lodo sulle intercettazioni, alle cenette del giudice della Corte costituzionale».
Traduzione: Berlusconi è colpevole, Alfano è delegittimato, se la Corte costituzionale non boccerà il Lodo Alfano sarà perché anche la Consulta è corrotta.
Poi, terzo delirio dipietresco: «Spero davvero che la magistratura possa, anche attraverso le dichiarazioni di Ciancimino junior, ricostruire una verità che finora è stata occultata anche grazie a esponenti delle istituzioni... Dall’inchiesta di Palermo mi aspetto molto... si potrebbe riscrivere la storia italiana per quanto riguarda i grandi omicidi di mafia, ma soprattutto per quanto riguarda la grande corruzione d’allora e il grande riciclaggio di persone di oggi».
Traduzione: vediamo se da Palermo, al cinquecentesimo tentativo, stavolta riusciranno a sostenere che Forza Italia è stata co-fondata dalla mafia e che Berlusconi e Dell'Utri hanno fatto fuori Falcone e Borsellino: l'importante è che lo dicano, al resto ci penso io con la banda degli urlatori.
OPPOSIZIONI: COSSIGA "IDV E' UN PARTITO FASCISTA"
(IRIS) - ROMA, 11 GIU - "Sapete, per un vecchio comunista della Garbatella vedere che viene lasciato fuori dal Parlamento uno come Bertinotti o Ferrero ma viene eletto un De Magistris non è molto piacevole. Vedere che viene eletto un fascista perchè l'Idv è un partito fascista, legittimo ma fascista. Che cosa è Di Pietro se non un fascista?" Francesco Cossiga, conversando con i giornalisti dopo il discorso di Gheddafi al Senato, parla della situazione a sinistra.
COSSIGA: DI PIETRO? SEMPRE PIU' CRETINO!
Cossiga, in una lunga intervista, ha attaccato duramente la magistratura: ''Se fossi ministro dell'interno darei incarico ai servizi segreti di controllare l'Anm in base alla legge sull'associazione eversiva''. Poi l'affondo ai politici: ''Di Pietro dice che e' tornata tangentopoli? Lui e' un famoso cretino e gli voglio molto bene perche' voglio bene ai cretini e lui e' sempre piu' cretino. Pero' ora sta diventando presuntuoso, crede di essere diventato anche un politico. Ha aumentato i consensi? - ha aggiunto il senatore a vita -. Quando dissero a Churchill che c'erano cretini in Parlamento, lui rispose ''meno male, e' la prova che siamo una democrazia rappresentativa'. Vuol dire che i cretini in Italia, cioe' quelli che votano l'Italia dei... disvalori, e' bene che emergano''.
Vorrò esser breve e conciso per non tediare i lettori con mille argomentazioni confuse come quelle che leggo sopra: rassegnatevi, ormai lo si deve considerare perso, è indifendibile; pensate chi possa sostituirlo e auguri.
Naturalmente mi riferisco a di pietro, un vero "mostro" come scrivee caldarola oggi
Di Pietro, il "mostro" creato dalla sinistraNell’Apprendista stregone di J. W. Goethe, l’aiutante di un vecchio maestro di incantesimi non riesce più a fermare la scopa impazzita a cui con una parola magica aveva dato vitalità. Cerca di fermarla parlandole ma non riesce a ripetere il sortilegio, allora la spezza in due ma i due tronconi continuano a devastargli la casa. La parabola del «Zauberlehrling» si adatta alla perfezione al rapporto fra il Pd e Di Pietro. Non riescono più a fermarlo. Ogni volta ci provano ma quello tira diritto per la sua strada moltiplicando le fonti di attacco o, se preferite, le bocche di fuoco. Per quattro volte l’ex pm stava per scomparire dalla scena politica e per quattro volte è stato resuscitato. Una volta da D’Alema, due volte da Prodi, infine è stato gloriosamente rimesso in sella da Veltroni. Perché tutto questo sia successo è affidato a congetture segrete e ai cattivi pensieri, che, come si sa, non sbagliano mai.
I fatti dicono che ciascuno ha cercato di accordarsi con lui, giocandolo contro gli altri. Alla fine lui li ha giocati tutti e tre. Ora l’alleato scomodo e inquieto è diventato un concorrente pericoloso che decide da solo i tempi della politica e che si vuole impadronire dell’intera opposizione. C’è stato un tempo in cui Di Pietro era solo un magistrato. Un magistrato d’assalto che aveva preso la prima scena durante «Mani Pulite» ma che era stato anche molto discusso per i suoi metodi e anche per le sue amicizie e gli improvvisi squarci di benessere. La sinistra ha avuto a lungo paura di lui. I boatos milanesi dicevano che fosse un uomo dei servizi, un personaggio di destra animato da profonde ambizioni e colossali frustrazioni. Uno da cui guardarsi. Quando si dimise da magistrato, d’improvviso nel ’94, molti si immaginarono che si sarebbe buttato in politica. Lui sostenne che aveva avuto la proposta di entrare nel primo governo Berlusconi, ma rimase al palo per altri due anni. E lì sarebbe rimasto se non fosse arrivata la prima resurrezione.
L’approdo in politica avvenne, infatti, nel ’96 quando Romano Prodi lo fece ministro dei Lavori pubblici e gli mise come sottosegretario un uomo di D’Alema, Antonio Bargone, oggi a capo di un ente pubblico. Il primo governo Prodi durò poco, ma Di Pietro assai meno. Dopo sei mesi, invischiato in una inchiesta da cui uscirà indenne, si dimise. Però aveva messo a frutto il semestre e fece l’incontro della vita. A casa di Bargone, complice Nicola Latorre, incontrò Massimo D’Alema. Fu la conclusione di un lungo corteggiamento. Chi conosce la storia dice che fu D’Alema a volere fortemente questo incontro con un personaggio culturalmente lontano da sé.
L’idea che il leader dei Ds si era fatto dell’ex pm è sintetizzata in un documento riservato che Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi scrissero per preparare la carriera presidenziale di D’Alema. Di Pietro, sostennero i due consulenti del futuro premier, «è una scheggia potenzialmente eversiva» che va inclusa all’interno del sistema politico «con una operazione morotea». E qualche tempo dopo se ne presentò l’occasione. Il senatore del Mugello Pino Arlacchi (oggi, non casualmente, deputato europeo con Di Pietro) si dimise per un incarico all’Onu e liberò il seggio. D’Alema con un blitz che sconvolse il suo partito candidò Di Pietro. Fu una campagna elettorale singolare. Contro Di Pietro scesero in campo Giuliano Ferrara e Sandro Curzi, ma la decisione di D’Alema fu irrevocabile. Come tutte le volte che la sinistra ha deciso su Di Pietro, non ci fu dibattito. Questa è una costante nel rapporto con l’ex pm e i capi della sinistra. D’improvviso arriva l’ordine di servizio alla base in cui si annuncia un nuovo matrimonio con Di Pietro. Avverrà anche in altre occasioni, come vedremo
Al Senato Di Pietro combina poco, soprattutto teme di essere dimenticato e un anno dopo, siamo nel ’98, con Elio Veltri e Silvana Mura, la deputata che custodisce con lui il forziere dei finanziamenti dipietreschi, l’ex pm fonda l’Italia dei Valori. Nasce un piccolo e insignificante partito destinato a navigare ai margini della politica italiana al punto che alla prima occasione Di Pietro lo scioglie e confluisce nei Democratici, il partitino del’Asinello con Arturo Parisi e ispirato da Romano Prodi. Ma anche questo matrimonio dura poco e Di Pietro un anno dopo torna da solo. La sua sembra una storia finita. Neppure i girotondi lo rianimano perché hanno scelto come leader Sergio Cofferati, con più carisma e più sintassi.
Quella che Rondolino e Velardi chiamavano la «scheggia potenzialmente eversiva» è domata? Sembra di sì, al punto che Di Pietro è costretto a ricercare nella sinistra disperata alleati nuovi per poter galleggiare. Sembra quasi finito quando nel 2004, nelle elezioni europee, stringe un rapporto con Achille Occhetto, che era stato angosciato negli anni di Mani Pulite dall’ombra del pm che gli arrestava i collaboratori più fidati, e insieme danno vita a una strana lista che li porta in Europa. Qui Di Pietro cede il suo seggio a Giulietto Chiesa, giornalista della Stampa di chiara fama e di nostalgie neo-comuniste. Ma si rompe anche questo sodalizio e si rompe con parole forti che fanno dire a Chiesa che con quel «figuro non voglio più avere rapporti». Come sempre al centro degli scontri di Di Pietro c’è l’annosa questione della destinazione dei finanziamenti elettorali.
Di Pietro torna quindi solitaro y final. Concorre contro Prodi nelle primarie del 2005 e il Professore lo richiama in vita nel 2006 quando lo reinserisce nel governo dove è protagonista di memorabili scontri con Mastella. La sua storia poteva finire qui se Veltroni non avesse dopo Prodi e D’Alema celebrato la quarta resurrezione del capo dell’Italia dei Valori che da capofila di un partito destinato a scomparire oggi si ritrova leader dell’estremismo giustizialista. Il Pd gli grida come l’apprendista stregone: «Ma non verrà il momento/ che tu la voglia smettere?/ io ti voglio prendere/ tenerti stretta», ma come il giovane sciocco allievo del maestro di incantesimi, anche il Pd non riesce a fermare il mostro che ha creato. Ora Di Pietro va da solo, con Grillo e soprattutto nella scia di Repubblica. Non lo fermerà più nessuno. Se quella sera a casa di Bargone si fossero fatti una spaghettata fra compagni e al Mugello ci avessero mandato il buon Sandro Curzi, forse il caso Di Pietro non sarebbe mai nato.
basti pensare alla agressione squadrista di oggi
GOVERNO: CICCHITTO, CON PEDICA IDV MOSTRATO SUA REALE NATURA
(ASCA) - Roma, 24 lug - ''Con l'irruzione di un manipolo di squadristi nella sala stampa di Palazzo Chigi, dove si stava svolgendo la conferenza del Ministro Gelmini, l'IdV conferma, qualora fosse ancora necessario, la sua reale natura''. Lo afferma in una nota Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del PdL, riferendosi all'episodio che ha visto protagonista il senatore dipietrista, Stefano Pedica.
GOVERNO/ Lupi: con Idv non c’è mai limite al peggio
«Non c'è mai limite al peggio. Gli intolleranti dell'Idv, che sognano un mondo in solo loro possono parlare mentre gli altri devono stare zitti, ne hanno combinata un'altra delle loro. L'irruzione del senatore Pedica si commenta da sola. Il ministro Gelmini si è comportata in maniera ineccepibile non cadendo nella trappola». Lo afferma Maurizio Lupi, deputato del Pdl e vicepresidente della Camera.
«C'è un modo molto chiaro - aggiunge - per porre questioni al governo ed è quello delle interrogazioni parlamentari. Ma chi non conosce l'abc della democrazia - conclude Lupi - queste cose non può saperle».
l'irruzione di un manipolo di squadristi nella sala stampa di Palazzo Chigi.....
Squadristi:
mai parola fu più azzeccata
La storia è alquanto intricata. Pasqualino Cianci, amico d’infanzia di Tonino, l’8 marzo 2002 viene trovato ferito nella sua casa di Montenero di Bisaccia accanto al corpo senza vita della moglie, Giuliana. Mentre era in ospedale, Di Pietro, accorso da Milano, ne assume la difesa. Dopodiché l’ex pm lo ospita personalmente a casa per alcuni giorni. Trascorsa una settimana il colpo di scena: Di Pietro rinuncia all’incarico non appena ha «sentore» che l’amico potrebbe finire indagato, come di lì a poco effettivamente avviene. E alla prima udienza in Corte d’assise Cianci, ormai imputato, si ritrova l’amico del cuore - quello con cui aveva diviso il seminario, le feste comandate e le ferie - dall’altra parte della barricata.
A quel punto, incredulo e un po’ meno amico di prima, Cianci presenta un esposto all’Ordine di Bergamo per infedele patrocinio. Esposto che viene accolto, in gran parte, e tradotto nella sanzione disciplinare di tre mesi. Di Pietro si difende. Sostiene di non avere mai difeso Cianci in qualità di imputato. Nega qualsiasi conflitto di interesse. Afferma d’aver ricevuto una sorta di «mandato collettivo» dalle parti civili e di aver rinunciato alla difesa dell’amico quando era ancora parte lesa. L’appello, però, gli dà torto: per 90 giorni non può fare l’avvocato. Il Consiglio nazionale scagliona cronologicamente gli eventi che inchiodano l’«avvocato Di Pietro» a un comportamento non corretto. Una condotta «che integra certamente la violazione di doveri di lealtà, correttezza e fedeltà nei confronti della parte assistita - si legge nelle motivazioni della decisione - e integra altresì l’illecito previsto dall’articolo 51 del codice deontologico forense». Una norma che fa espresso divieto al legale di «assumere incarico contro un ex cliente, in particolare quando il nuovo incarico è inerente lo stesso procedimento nel quale è stato espletato l’incarico precedente».
La storia, da mettere paura quanto a cinismo e freddezza, è quella di un’amicizia tradita, di un clamoroso voltafaccia nel contesto angosciante di un uxoricidio. Protagonista, manco a dirlo, è Antonio Di Pietro, a quel tempo avvocato (gli ex magistrati sono iscritti d’ufficio all’albo), compagno di infanzia di Pasqualino Cianci, accusato nel 2002 di aver ucciso la moglie Giuliana D’Ascenzo. Diremo subito che per questa storiaccia Antonio Di Pietro è stato sospeso dall’Ordine degli avvocati, con sentenza divenuta esecutiva pochi giorni fa (sospeso per tre mesi, fino al 15 ottobre), causa «violazione del codice deontologico» degli avvocati. Perché questa punizione? La scorrettezza di Di Pietro, riconosciuta dall’Ordine, risale a quel 2002.
L’avvocato Tonino, una volta saputo del guaio in cui si era ficcato l’amico Pasqualino, si propose subito di prenderne le difese. Si mobilitò da Milano, ospitò addirittura l’amico in casa per diversi giorni, come un vero fratello, un compagno con cui aveva condiviso la giovinezza a Montenero di Bisaccia. Giusto il tempo però di informarsi, compiendo le rituali indagini difensive, e voltare la faccia all’amico (e cliente), passando dalla parte degli accusatori. Di Pietro si era convinto, grazie alle informazioni che aveva potuto recuperare nelle vesti di difensore, della debolezza della posizione di Cianci. A quel punto avrebbe potuto revocare il proprio incarico, lasciare la difesa a qualcun altro e sperare in un colpo di fortuna per l’amico finito in una così brutta situazione.
Cianci non ha mai perdonato a Di Pietro quel voltafaccia. Una questione di coscienza, ma anche di deontologia. C’è un articolo del codice degli avvocati che vieta «l’assunzione di incarico nei confronti di ex clienti». All’ex avvocato e pm, il presidente e il segretario dell’Ordine di Bergamo contestano non poco, «la violazione di doveri di lealtà, correttezza e fedeltà» nei confronti della parte assistita. Non male per un campione di rettitudine.
Giusto il tempo però di informarsi, compiendo le rituali indagini difensive, e voltare la faccia all’amico (e cliente), passando dalla parte degli accusatori. Di Pietro si era convinto, grazie alle informazioni che aveva potuto recuperare nelle vesti di difensore, della debolezza della posizione di Cianci. A quel punto avrebbe potuto revocare il proprio incarico, lasciare la difesa a qualcun altro e sperare in un colpo di fortuna per l’amico finito in una così brutta situazione. Ma il bello - ed è questo il motivo della condanna da parte dell’Ordine degli avvocati di Bergamo, cui è iscritto Di Pietro - è che una volta convintosi che Cianci era spacciato, Tonino non si limita a declinare la difesa, ma passa proprio dall’altra parte, come parte civile che sostiene l’accusa.
In un suo libro l’ex sindaco meneghino, Paolo Pillitteri, ne racconta di belle. Accettava ben volentieri di avere a disposizione un appartamento dove continuare le feste, senza settimanali interessati a raccontarne le prodezze. Prendeva Mercedes in sostanziale regalo, così come prestiti assai consistenti, che restituiva in contanti ed in scatole da scarpe. Accettava favori per la moglie (la seconda), anch’ella avvocato e destinataria di cause non proprio spontaneamente affidatele
Paolo Pillitteri, ne racconta di belle.
Paolo Pillitteri
minchia se lo racconta Paolo Pillitteri allora è vero
In un suo libro l’ex sindaco meneghino, Paolo Pillitteri, ne racconta di belle. Accettava ben volentieri di avere a disposizione un appartamento dove continuare le feste, senza settimanali interessati a raccontarne le prodezze. Prendeva Mercedes in sostanziale regalo, così come prestiti assai consistenti, che restituiva in contanti ed in scatole da scarpe. Accettava favori per la moglie (la seconda), anch’ella avvocato e destinataria di cause non proprio spontaneamente affidatele
L’avvocato Tonino, una volta saputo del guaio in cui si era ficcato l’amico Pasqualino, si propose subito di prenderne le difese. Si mobilitò da Milano, ospitò addirittura l’amico in casa per diversi giorni, come un vero fratello, un compagno con cui aveva condiviso la giovinezza a Montenero di Bisaccia. Giusto il tempo però di informarsi, compiendo le rituali indagini difensive, e voltare la faccia all’amico (e cliente), passando dalla parte degli accusatori. Di Pietro si era convinto, grazie alle informazioni che aveva potuto recuperare nelle vesti di difensore, della debolezza della posizione di Cianci. A quel punto avrebbe potuto revocare il proprio incarico, lasciare la difesa a qualcun altro e sperare in un colpo di fortuna per l’amico finito in una così brutta situazione. Ma il bello - ed è questo il motivo della condanna da parte dell’Ordine degli avvocati di Bergamo, cui è iscritto Di Pietro - è che una volta convintosi che Cianci era spacciato, Tonino non si limita a declinare la difesa, ma passa proprio dall’altra parte, come parte civile che sostiene l’accusa. Di Pietro anzi gioca un ruolo determinante nell’accusa, suggerisce ai magistrati alcune piste per inchiodare il suo ex amico, chiede di acquisire documenti specifici che si trovavano nell’abitazione della defunta e di Pasqualino Cianci. Si convince che «c’è dell’altro che bolle in pentola» come scriverà poi in una imbarazzata lettera ai figli di Pasqualino Cianci. Di Pietro ha notizia di «operazioni economiche internazionali poste in essere da vostro padre», e suggerisce all’accusa di indagare presso certi istituti di credito. Veste i panni di avvocato, come ora quelli di politico, ma ragiona ancora come un pm.
L’opera di Di Pietro si compie poco tempo dopo: il 16 aprile 2002 l’ex amico Cianci viene arrestato e poi, in primo grado, condannato a 21 anni per uxoricidio. Cianci non ha mai perdonato a Di Pietro quel voltafaccia. Una questione di coscienza, ma anche di deontologia. C’è un articolo del codice degli avvocati che vieta «l’assunzione di incarico nei confronti di ex clienti». All’ex avvocato e pm, il presidente e il segretario dell’Ordine di Bergamo contestano non poco, «la violazione di doveri di lealtà, correttezza e fedeltà» nei confronti della parte assistita. Non male per un campione di rettitudine.
MILANO - Tre giovani sono morti e altri due sono rimasti gravemente feriti in un incidente stradale accaduto poco dopo le 4 a Cà degli Oppi di Oppeano (Verona). Secondo quanto si è appreso i cinque, tra i 19 e i 21 anni, viaggiavano sulla stessa vettura che è uscita di strada, rovesciandosi più volte prima di finire la sua corsa in un fossato. Sul posto sono intervenuti i carabinieri di Oppeano e Legnago, oltre ai vigili del fuoco.
WEEKEND DI SANGUE - Sale così a sedici morti il bilancio provvisorio delle vittime negli incidenti stradali avvenuti nel weekendi sulle strade e autostrade italiane. Sabato erano infatti state tredici le vittime. Ieri, in un incidente avvenuto a Gaeta è morta una bimba di 5 anni travolta da una WW golf guidata da un diciannovenne. Un 39enne è stato investito da un pirata della strada a Torvaianica (Roma) e sempre nella giornata di ieri una invasione di corsia, forse per un sorpasso sulla superstrada Benevento -Telese-Caianello, che ha coinvolto una Audi A3, un autoarticolato e una Passat, hanno perso la vita due coniugi e due giovani.
SERATA TRA FESTE - Le vittime dell'ultimo incidente si chiamavano Sebastiano Isoli, 20 anni, di Zevio; Raffaella Parisi (19), di Verona; e Nicola Ferrigato (20), di Zevio. I due feriti si trovano negli ospedali di Verona: M.R. (21), di Zevio è ricoverato nel reparto di rianimazione del Borgo Roma, mentre M.F. (20), di Zevio, dopo essere stato stabilizzato al nosocomio di Legnago, è stato portato al reparto di neurochirurgia del Borgo Trento. Seppur gravi i due giovani non sarebbero in pericolo di vita. Il gruppo di amici stava rientrando a casa dopo una serata trascorsa in una discoteca di Cerea (Verona). Avevano lasciato il locale alla chiusura, intorno alle 4.30. Pare che M.F., a cui il padre aveva dato la vettura, sentendosi stanco, avesse chiesto a Isoli di guidare il mezzo, una Fiat Punto.
La storia, da mettere paura quanto a cinismo e freddezza, è quella di un’amicizia tradita, di un clamoroso voltafaccia nel contesto angosciante di un uxoricidio. Protagonista, manco a dirlo, è Antonio Di Pietro, a quel tempo avvocato (gli ex magistrati sono iscritti d’ufficio all’albo), compagno di infanzia di Pasqualino Cianci, accusato nel 2002 di aver ucciso la moglie Giuliana D’Ascenzo. Diremo subito che per questa storiaccia Antonio Di Pietro è stato sospeso dall’Ordine degli avvocati, con sentenza divenuta esecutiva pochi giorni fa (sospeso per tre mesi, fino al 15 ottobre), causa «violazione del codice deontologico» degli avvocati. Perché questa punizione? La scorrettezza di Di Pietro, riconosciuta dall’Ordine, risale a quel 2002. L’avvocato Tonino, una volta saputo del guaio in cui si era ficcato l’amico Pasqualino, si propose subito di prenderne le difese. Si mobilitò da Milano, ospitò addirittura l’amico in casa per diversi giorni, come un vero fratello, un compagno con cui aveva condiviso la giovinezza a Montenero di Bisaccia.
Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica
Tre mesi di sospensione per l’avvocato Antonio Di Pietro. L’ex pm di Mani Pulite si è visto confermare dal Consiglio nazionale forense la «sanzione» del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bergamo che aveva già stigmatizzato il «doppio ruolo» ricoperto nei confronti di un amico di Montenero coinvolto in un omicidio: prima il neo avvocato ne prese le difese, poi passò tra le parti civili che sostenevano la tesi dell’accusa. Una cosa che non si fa: «La condotta del professionista - si legge nelle motivazioni della decisione - integra certamente la violazione dei doveri di lealtà, correttezza e di fedeltà (articolo 5, 6, 7 del codice deontologico forense) nei confronti della parte assistita e integra altresì l’illecito deontologico». A seguito degli accertamenti svolti, e della sussistenza degli illeciti contestati, «non può che conseguire la sanzione disciplinare». Calcolata in tre mesi di sospensione dell’esercizio della funzione di avvocato in quanto «adeguata alla gravità dell’illecito compiuto».
La storia è alquanto intricata. Pasqualino Cianci, amico d’infanzia di Tonino, l’8 marzo 2002 viene trovato ferito nella sua casa di Montenero di Bisaccia accanto al corpo senza vita della moglie, Giuliana. Mentre era in ospedale, Di Pietro, accorso da Milano, ne assume la difesa. Dopodiché l’ex pm lo ospita personalmente a casa per alcuni giorni. Trascorsa una settimana il colpo di scena: Di Pietro rinuncia all’incarico non appena ha «sentore» che l’amico potrebbe finire indagato, come di lì a poco effettivamente avviene. E alla prima udienza in Corte d’assise Cianci, ormai imputato, si ritrova l’amico del cuore - quello con cui aveva diviso il seminario, le feste comandate e le ferie - dall’altra parte della barricata.
A quel punto, incredulo e un po’ meno amico di prima, Cianci presenta un esposto all’Ordine di Bergamo per infedele patrocinio. Esposto che viene accolto, in gran parte, e tradotto nella sanzione disciplinare di tre mesi. Di Pietro si difende. Sostiene di non avere mai difeso Cianci in qualità di imputato. Nega qualsiasi conflitto di interesse. Afferma d’aver ricevuto una sorta di «mandato collettivo» dalle parti civili e di aver rinunciato alla difesa dell’amico quando era ancora parte lesa. L’appello, però, gli dà torto: per 90 giorni non può fare l’avvocato. Il Consiglio nazionale scagliona cronologicamente gli eventi che inchiodano l’«avvocato Di Pietro» a un comportamento non corretto. Una condotta «che integra certamente la violazione di doveri di lealtà, correttezza e fedeltà nei confronti della parte assistita - si legge nelle motivazioni della decisione - e integra altresì l’illecito previsto dall’articolo 51 del codice deontologico forense». Una norma che fa espresso divieto al legale di «assumere incarico contro un ex cliente, in particolare quando il nuovo incarico è inerente lo stesso procedimento nel quale è stato espletato l’incarico precedente».
23 luglio, 2009 21:13
Anonimo ha detto...
Il Consiglio arriva a sanzionare il Tonino nazionale ripercorrendo le sue stesse azioni: l’assunzione del mandato di difensore il giorno dell’omicidio, l’incarico di carattere medico legale conferito al consulente Armando Colagreco, l’interrogatorio - come indagini difensive - del testimone Antonio Sparvieri (consuocero di Pasqualino Cianci). Dopodiché, a sorpresa, «il 19 marzo 2002, l’avvocato Di Pietro, quale avvocato difensore dei familiari della signora D’Ascenzio, depositava agli atti del procedimento penale una memoria difensiva mediante la quale, dando atto della nomina di un nuovo difensore di Pasqualino Cianci a seguito di contestuale sua rinuncia di mandato (Cianci dice di non aver firmato alcuna revoca, ndr) dimetteva copia dell’atto di nomina del nuovo difensore e le
La scorrettezza di Di Pietro, riconosciuta dall’Ordine, risale a quel 2002. L’avvocato Tonino, una volta saputo del guaio in cui si era ficcato l’amico Pasqualino, si propose subito di prenderne le difese. Si mobilitò da Milano, ospitò addirittura l’amico in casa per diversi giorni, come un vero fratello, un compagno con cui aveva condiviso la giovinezza a Montenero di Bisaccia. Giusto il tempo però di informarsi, compiendo le rituali indagini difensive, e voltare la faccia all’amico (e cliente), passando dalla parte degli accusatori. Di Pietro si era convinto, grazie alle informazioni che aveva potuto recuperare nelle vesti di difensore, della debolezza della posizione di Cianci. A quel punto avrebbe potuto revocare il proprio incarico, lasciare la difesa a qualcun altro e sperare in un colpo di fortuna per l’amico finito in una così brutta situazione. Ma il bello - ed è questo il motivo della condanna da parte dell’Ordine degli avvocati di Bergamo, cui è iscritto Di Pietro - è che una volta convintosi che Cianci era spacciato, Tonino non si limita a declinare la difesa, ma passa proprio dall’altra parte, come parte civile che sostiene l’accusa.
ROMA - "La missione in Afghanistan è irrinunciabile". Il ministro della Difesa Ignazio La Russa replica seccamente a Umberto Bossi. Ieri il leader leghista, dopo l'ennesimo attacco ai soldati italiani, aveva proposto di "riportare a casa" tutto il contingente. Una battuta che andava in controtendenza rispetto a tutti gli impegni presi dal governo. Sulla questione interviene anche il leader del Pd Dario Franceschini, secondo il quale "il primo dovere è proteggere i nostri soldati".
L'ipotesi ventilata da Bossi non viene neppure presa in considerazione da La Russa: "Se pensassimo da papà come ha fatto Bossi, è il primo sentimento. Ma noi come anche Bossi pensiamo da ministri e sappiamo che quello che stanno facendo i ragazzi della Folgore insieme agli altri contingenti internazionali è un compito importante, imprescindibile, irrinunciabile".
La Russa spiega, inoltre, che i militari torneranno indietro quando avranno concluso l'obbiettivo della missione. Ovvero "dare all'Afghanistan la possibilità di gestire autonomamente il territorio, consentendo condizioni di sicurezza per il Paese e per quella parte del mondo che vuole combattere il terrorismo".
Sulla vicenda interviene anche il ministro per l'Attuazione del programma di governo, Gianfranco Rotondi che spiega come la maggioranza sia "coesa". L'Idv però attacca: "Quello che resta da capire, però, è lo scopo della nostra missione. Siamo lì per garantire la pace o per partecipare a una guerra? Subito dopo le elezioni del 20 agosto il senso della missione va ridiscusso".
Mamma mia quanto impegno che ci mettete per cercare di demolire Di Pietro.
Io ho due teorie:
n° 1 - Di Pietro continua a preoccupare Il Porco Del Consiglio che vi sguinzaglia come al solito remunerandovi e se riuscirete nell'intento vi premierà (per voi intendo gli pseudo giornalisti che scrivono nei giornalettini di destra)
n° 2 - Questo é solo un altro dei miseri tentativi di distogliere il popolino pidiellino dalle meravigliose avventure erotiche de Il Porco Del Consiglio.
Mi dispiace, ma queste sono molto più divertenti e interessanti di tutto ciò che fa Di Pietro.
Pasticca blu sei invitata a moderare il linguaggio.
il porco del consiglio ...bella questa
quanto a te Maurom sei un pessimo ipocrita...mi ricordi i giornalisti che scrivono ESCORT invece di MIGNOTTE
Mai scritto escort.
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